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1. STORIA DELLA TRADIZIONE PRIMORDIALE
a cura di Q Wiki
La Tradizione Primordiale è l’idea propria del perennialismo che un’unica verità metafisica lega intrinsecamente tutte le tradizioni sacre a una rivelazione originale, la cui causa è non umana (divina). Questa verità intrinseca alle tradizioni costituisce l’unica Tradizione Primordiale, che può essere scoperta attraverso le molteplici corrispondenze simboliche, mitiche e rituali che accomunano le diverse tradizioni sacre dell’umanità.
Sviluppando il concetto di Perennis Philosophia, il concetto di Tradizione Primordiale è variamente teorizzato e problematizzato in epoca contemporanea dalla “ Scuola della Tradizione” . Questa scuola è formata da scrittori, filosofi, antropologi, storici e saggisti di varie confessioni religiose e il cui fondatore e principale rappresentante è il metafisico René Guénon . Per lui, la Tradizione Primordiale designa la più antica tradizione dell’umanità, di origine metastorica, che è “comune a tutte le tradizioni autentiche e “ortodosse”, le cui tracce e segni appaiono molto chiaramente nei simboli, nei riti e nei miti. ”delle varie” forme tradizionali ”o religioni osservabili.
La Tradizione Primordiale è un concetto che si riferisce ai miti fondanti delle varie tradizioni sacre dell’umanità, ad esempio nel paradiso terrestre della Bibbia, nell’età d’oro della mitologia greco-romana o addirittura nel krita yuga indù. Intimamente legata alla conoscenza intuitiva e intellettuale del “Principio Ultimo”, la Tradizione Primordiale designa così uno stato d’essere spirituale che l’uomo ha perso durante la caduta e che si tratta di recuperare mediante la conoscenza metafisica, sia speculativa (orale o anche insegnamento scritto) e operativo (iniziazione rituale).
Tradizione e tradizionalismo
I membri della Scuola della Tradizione sono qualificati da Jean-Paul Lippi come “tradizionalisti” per distinguerli da un’altra corrente di pensiero, il “ cattolicesimo tradizionalista ”. I tradizionalisti sono anche chiamati “perennialisti” in riferimento alla loro corrente dottrinale .
René Guénon e gli altri membri della Scuola della Tradizione concordano infatti intorno a un concetto comune, quello di Tradizione Primordiale, che costituisce almeno il punto di partenza del loro pensiero e li prescinde da una riduzione della tradizione a costume, come riduzione di tradizione al solo aspetto di una particolare religione o anche della religione in generale, considerata da René Guénon ristretta alle tradizioni abramitiche (ebraica, cristiana e islamica), in quanto «sono composte di una morale, di un dogma e di un rito». Più in generale, i tradizionalisti mobilitano il concetto di Tradizione in una critica comune del “mondo moderno”: la modernità occidentale che si è sviluppata a partire dal XIV secolo, e a maggior ragione dalla fine del XVIII secolo, sarebbe un periodo di decadenza intellettuale. segnata da una ribellione all’autorità spirituale, dall’abbandono della metafisica e dall’inversione dei rapporti gerarchici del mondo indoeuropeo tradizionale.
La concezione “tradizionalista” della Tradizione è quindi prima di tutto metafisica prima che storica: non si riferisce tanto a un’epoca (passata o meno) o a una particolare forma di esistenza, quanto a un Principio trascendente e a una struttura generica e sacrale. della comunione dell’uomo con il Divino, che l’uomo può riscoprire hic et nunc attraverso la conoscenza metafisica e l’iniziazione.
I tradizionalisti usano anche il concetto di Tradizione Primordiale sotto il diminutivo di Tradizione, con la t maiuscola.
Il metodo tradizionale
La ricerca dell’unità perduta
Nella prospettiva giudaico-cristiana della caduta conseguente al peccato originale come quella della dottrina dei cicli di Esiodo o anche dell’Induismo, la visione del mondo dei tradizionalisti è strutturata dalla sensazione di una perdita, la perdita della ‘ età d’oro . A questo sentimento negativo corrisponde il desiderio positivo di un ritorno alle sorgenti di tutte le espressioni del sacro e dell’essere umano: il principio dell’Unità, “Dio” secondo il vocabolario occidentale, che l’uomo ha conosciuto pienamente e direttamente nel mondo. età dell’oro assunta dalla nozione di Tradizione Primordiale.
L’immaginario tradizionalista vuole così essere attento a ciò che dice ogni tradizione ortodossa osservabile e trae dal loro racconto comune di un’età dell’oro la conclusione di una “rivelazione, o illuminazione primitiva del pensiero umano”. Il postulato di partenza è dunque che all’unità del Principio di realtà, Dio, corrisponde l’unità di una rivelazione primordiale che si esprime e si rivela nelle diverse tradizioni sacre dell’umanità. Il tradizionalista attribuisce dunque pari merito ai resoconti delle diverse “religioni” che considera come diverse testimonianze legittime della stessa esperienza originaria di tipo metafisico. Il “Metodo Tradizionale” si sforza così di “scoprire un’essenziale unità o equivalenza di simboli di forme, miti, dogmi, discipline al di là delle variegate espressioni che i contenuti possono avere nelle diverse tradizioni storiche”, al fine di “far emergere carattere di un simbolo o di un insegnamento riunendolo con altri simboli corrispondenti appartenenti ad altre tradizioni, al fine di stabilire la presenza di qualcosa di superiore e anteriore a ciascuna di esse. queste formulazioni, diverse tra loro, ma tuttavia equivalenti».
Un approccio esoterico
Il Metodo Tradizionale nasce quindi da una prospettiva “esoterica” secondo René Guénon, che considera le divergenze o anche le opposizioni tra le diverse tradizioni sacre come seconde e superflue, vale a dire “exoteriche”, poiché la loro intenzione primaria consiste nel far conoscere l’unica verità divina. Questa verità costituisce la loro unità dottrinale nascosta, di origine divina, che le anima dall’interno e dall’esterno della quale perdono di conseguenza ogni legittimità. Esaminando il contenuto significativo delle diverse “religioni”, il Metodo Tradizionale intende superare le reciproche esclusioni dogmatiche in un movimento “metadogmatico” di coincidenza degli opposti. Così, per Julius Evola, altro grande nome del tradizionalismo, “l’introduzione dell’idea di Tradizione permette di rompere l’isolamento di ogni particolare tradizione, riducendo il principio creativo e i contenuti fondamentali di questa tradizione a un quadro più ampio ., per mezzo di un’effettiva integrazione. Non può che nuocere a possibili pretese di esclusivismo settario».
La Scuola della Tradizione dispiega un approccio che non vuole limitarsi all’ambito religioso ma penetrare quello che considera il suo aspetto interiore, la metafisica. In questa prospettiva, la “sintesi” che intende fare delle diverse espressioni dottrinali non è un “sincretismo” perché non intende mescolare né i riti, né i simboli né i miti, ma fare dei confronti tra di essi. In effetti:
“Il sincretismo consiste nel mettere insieme dall’esterno elementi più o meno disparati e che, visti in questo modo, non possono mai essere veramente unificati; in breve, è solo una sorta di eclettismo, con tutto ciò che comporta sempre di frammentario e incoerente. Questo è qualcosa di puramente esteriore e superficiale; gli elementi presi da tutte le parti e così messi insieme artificialmente hanno sempre e solo carattere di prestiti, incapaci di integrarsi efficacemente in una dottrina degna di questo nome. La sintesi, al contrario, avviene essenzialmente dall’interno; Intendiamo con ciò che consiste propriamente nel considerare le cose nell’unità del loro stesso principio, nel vedere come esse derivano e dipendono da questo principio, e così le uniscono, ovvero nel prendere coscienza della loro reale unione, in virtù di una legame interiore, insito in ciò che è più profondo nella loro natura».
Per René Guénon, la pratica religiosa in generale riguarda solo l’aspetto exoterico, perché essenzialmente sociale e morale, della Tradizione Primordiale. Il suo sapere intende dunque andare oltre, senza negarlo ma assumendolo nella sua interezza, il punto di vista religioso. Epistemologicamente parlando, la conoscenza metafisica per i tradizionalisti non è semplicemente una questione di ragione, ma di intuizione intellettuale, che è sovra-razionale. La conoscenza di questa verità nascosta mira dunque alla “realizzazione metafisica” mediante i tradizionali riti iniziatici distinti dai semplici riti religiosi e inaccessibili al maggior numero di persone. Il cristianesimo è tuttavia un’eccezione per Frithjof Schuon e Jean Borella, per i quali i sacramenti cristiani sono proprio iniziatici. In ogni caso, il Metodo Tradizionale è per molti aspetti un “metodo che è l’opposto di un metodo poiché mantiene i segreti, le prove”.
Il metodo della concordanza
Il Metodo Tradizionale mira ad accedere a un livello di conoscenza più profondo di quello mirato da approcci basati su assiomi razionalisti, dando credito a priori alle proposizioni dottrinali di diverse forme tradizionali e religiose e confrontandole su questa base. Non si tratta quindi a priori di negare alle varie religioni il carattere sacro che esse rivendicano in relazione al loro contenuto dottrinale, ma al contrario di accettarlo secondo un approccio sia comparativo che metafisico, di tipo intellettualistico ( ad esempio) opposizione al razionalismo).
Il Metodo Tradizionale non è quindi, in senso stretto, “la scienza comparata delle religioni universali, che aderisce alle due dimensioni della superficie e quindi ha un carattere empirico, non metafisico”. Secondo questo Metodo si tratta di elevarsi all’Idea metafisica di cui i materiali simbolici, mitici e rituali delle diverse religioni sono veicoli e manifestazioni. Di questi tre materiali che sono “il simbolo, il mito e il rito”, Mircea Eliade, antropologo della Scuola della Tradizione, afferma che essi “esprimono a diversi livelli e con i mezzi che sono loro specifici, un complesso sistema di affermazioni coerenti sulla realtà ultima delle cose, un sistema che si può considerare costituente una metafisica”.
Il Metodo Tradizionale cerca quindi essenzialmente di andare oltre il “metodo delle influenze (o metodo storico-critico)” sviluppando un “metodo delle concordanze” che si caratterizza, come regola generale, “da due principi: ontologicamente e oggettivamente, dal principio di corrispondenza, che assicura un’essenziale correlazione funzionale tra elementi analoghi, presentandoli come semplici forme omologhe di apparenza di significato centrale unitario; epistemologicamente e soggettivamente, dall’uso generalizzato del principio di induzione, qui inteso come approssimazione discorsiva di un intuizione spirituale, dove avviene l’integrazione e l’unificazione dei vari elementi confrontati in un unico significato e in un unico principio.”
Origini storiche: dalla philosophia perennis alla Tradizione Primordiale
Durante l’antichità
Concordatismo dottrinale nella scuola neoplatonica di Atene
La Scuola della Tradizione si costruisce intorno al postulato secondo il quale esiste una “filosofia eterna”, vale a dire, secondo Joan Halifax, “un’unità numinosa che sta alla base di tutte le forme e delle apparenze, essendo i diversi mondi delle forme e delle stesso tempo concepito come interdipendente». Questa idea è radicata nel programma di ricerca che esisteva tra i neoplatonici della scuola di Atene, il cui scopo, a partire da Plutarco e più chiaramente da Proclo, era quello di conciliare tra loro le tradizioni teologiche orfiche, pitagoriche, platoniche, aristoteliche, omeriche e caldee. Inoltre, secondo Clemente Alessandrino, anche Numenio, neoplatonico del II secolo, avrebbe dichiarato: “Che cos’è Platone, se non Mosè che parla greco?” Se questa testimonianza è vera, i cosiddetti neoplatonici “pagani” hanno quindi esteso la loro simpatia intellettuale anche oltre l’ellenismo.
L’inclusivismo dell’antico giudaismo
Per gli ebrei degli ultimi due secoli a.C. la filosofia è un bene che viene da Dio. Secondo Aristobule de Panéas, filosofo ebreo appartenente, secondo Clemente Alessandrino, alla scuola peripatetica, i filosofi greci trassero gran parte dei loro insegnamenti da Mosè. Questa tesi del “furto dei Greci” è presente, in forma più grave, anche in Filone di Alessandria . Secondo lui, i filosofi hanno raggiunto le grandi verità o prendendole in prestito da Mosè, o per propria ragione, o, anche, per diretta ispirazione di Dio. Poco dopo, durante il I secolo d.C., Flavio Giuseppe, disse di ammirare l’immensa saggezza del greco Pitagora .
Inclusivismo dottrinale in patristica
Oltre ai filosofi greci, essenzialmente neoplatonici, e agli ebrei sopra citati, l’idea della verità universale presente nelle varie dottrine si ritrova presso alcuni padri della Chiesa, come san Giustino, san Clemente Alessandrino, Origene, Sal. Dionigi l’Areopagita e Sant’Agostino. San Giustino di Neapolis (morto nel 165), filosofo e martire, è il primo a formulare la dottrina del Logos Spermatikos, del “Verbo che semina ” gli spiriti rivelandosi personalmente ad essi, seppure in modo imperfetto e parziale. Per lui, dunque, «coloro che vivevano secondo la Parola sono cristiani, sarebbero passati per atei, come tra i greci Socrate, Eraclito e loro simili, e tra i barbari, Abramo, Anania, Azaria, Misaël, Elie e così via. molti altri. Per san Clemente d’Alessandria, Dio strinse addirittura una seconda Alleanza con i filosofi greci, preparando la sua Rivelazione cristica in modo pagano con i Greci, in modo ebraico con gli Ebrei. Per Clemente di Alessandria, Mosè non fu l’unico a dispensare insegnamenti profetici, ma anche gli egiziani. Ancor di più, estende la filosofia ben oltre i Greci e i profeti egizi: dei suoi maestri, dice, ce n’erano alcuni in “Assiria i Caldei, in Gallia i Druidi, in Bactria i Samaniti, nel paese celtico. i filosofi lì, in Persia i Magi – che con la loro magia seppero addirittura predire la nascita del Salvatore e furono guidati da una stella al loro arrivo in terra ebraica -, in India i Gimnosofisti e altri filosofi barbari; poiché ne avevano due specie, diciamo Sarmane e Brachmane . […] Vi sono anche in India coloro che obbediscono ai precetti del Buddha che venerano, data la sua estrema santità, come un dio. » Jean Borella sviluppa ulteriormente in dettaglio queste fonti patristiche. Possiamo tuttavia citare, per concludere, a titolo illustrativo, le parole di sant’Agostino nelle sue Retractaciones :
“In sé, la realtà che oggi chiamiamo “religione cristiana” esisteva anche tra gli antichi, ed era presente dall’inizio dell’umanità fino alla venuta di Cristo nella carne; ed è in conseguenza di questa venuta, che la vera religione, esistente da sempre, cominciò a chiamarsi cristiana. “
- Sant’Agostino, Retractaciones, I, XII, 3
Nel Medioevo
Nella cristianità
Nel Medioevo, possiamo osservare l’origine dell’idea di Tradizione Primordiale in generale dalla tradizione della favola dei tre anelli, resa popolare in seguito da GELessing in un senso molto diverso da quella di Jean Boccace, che ne è l’autore . All’inizio del Decameron, Boccace presenta la favola dei tre anelli da una prospettiva tradizionalista: difende la tesi di una verità esoterica intrinseca ai tre monoteismi abramitici, al di là delle loro contingenti opposizioni. Illustra questa idea con la favola che rappresenta analogamente l’eredità della verità divina dall’eredità di un padre ai suoi tre figli di un unico anello di verità, replicato tre volte. Possiamo quindi dire che Boccace è uno dei primi pensatori del tradizionalismo, cioè di un pluralismo religioso di tipo prospettico e tradizionale opposto all’approccio di Lessing, la cui prospettiva è più vicina a quella, laica, di tolleranza illuminista :
“Nella versione del racconto di Boccace, i tre anelli sono autentici e le tre religioni monoteiste sono vere, mentre Lessing è il contrario. L’autenticità degli anelli [secondo Lessing] è impossibile da provare quanto la vera credenza.”
Alla fine del Medioevo, Nicolas de Cues (1401-1464), teologo neoplatonico fortemente influenzato dallo Pseudo-Dionigi l’Areopagita e da Proclo, formulò la prima esplicita teorizzazione della Tradizione Primordiale. Nel suo dialogo irenico De Pace fidei, scritto nel 1453 in risposta alla presa di Costantinopoli da parte dei Turchi, immagina un concilio universale che riunisce intorno al Verbo, a Gerusalemme, i grandi saggi di diverse tradizioni. Secondo lui, dietro la diversità dei riti esiste un solo culto, e questa fede unica presupposta da tutti i religiosi è radicata nell’unità di una “saggezza eterna” ( aeterna sapientia ), concetto centrale nel tradizionalismo. Per lui,
“Sebbene appaia una differenza nel modo di dire, ciò che si dice è la stessa cosa. […] Così è così che, pur essendo filosofi di scuole diverse, concordate sulla religione di un unico Dio, che tutti voi presuppongono, poiché professate amici della sapienza.”
Nell’islam
Uno dei principali filosofi dell’Islam e il grande maestro del sufismo, Muhyiddin Ibn ‘Arabi, concepì l’unità delle varie religioni, sia abramitiche che non, al di là delle loro apparenti differenze. “Insomma, secondo la maggior parte degli intellettuali musulmani, Ibn Arabi eccelle nell’accostarsi all’idea della ‘doppia verità’ religiosa, secondo la quale i testi sacri islamici hanno due componenti: da un lato, affermazioni dogmatiche di espressione letterale a portata di mano di tutti i fedeli e, d’altra parte, significati occulti accessibili solo a un’élite di iniziati. La teoria akbariana (cioè di Ibn Arabi) dell’armonia esoterica e spirituale delle diverse religioni è illustrata in questo poema tratto da L’Interprete dei desideri ( Tarjumân al-Ashwâq ):
“Il mio cuore è diventato capace di qualsiasi forma: è un pascolo per le gazzelle e un convento per i monaci cristiani, e un tempio per gli idoli, e la Kaabah del pellegrino, e la tavola della Thorah e il libro del Corâno. Io sono la religione dell’Amore, qualunque strada prendano i suoi cammelli; la mia religione e la mia fede è la vera religione.”
Un altro esempio notevole: Qutb al-Din Aškevari, sciita e sufi allo stesso tempo, scrive una vasta storia universale di saggezza, dal primo uomo Adamo fino ai suoi tempi (XVII secolo). Poeti e filosofi greci ( Omero, Pitagora, Talete, Anassagora, Socrate, Platone, Aristotele, Diogene, ecc.) vi sono particolarmente onorati:
“La maggior parte degli uomini di debole intelligenza potrebbe immaginare che le parole e gli argomenti dei saggi filosofi contraddicano le Leggi divine portate dai profeti, ma non è così.”
Nel Rinascimento
Nicolas de Cues è identificato dagli storici come una delle fonti dottrinali del tradizionalismo guenoniano, perché è lui che pone le basi esplicite del programma di “concordia delle filosofie” che sistematizzerà il grande ricercatore del Rinascimento Marsile Ficino in un ritorno a la Prisca Theologia . Fu tuttavia da Francesco Zorzi e Agostino Steuco, discepoli di Pic de la Mirandole, che apparve nel 1540 un libro intitolato De perenni philosophia. Agostino Steuco, al secolo Guido degli Stuchi, era stato canonico regolare di Sant’Agostino dal 1513. Era un canonico grande orientalista, responsabile della Biblioteca Vaticana nel 1538. Nel suo De perenne philosophia sostiene che la teologia cristiana si fonda su principi universali anteriori alla Rivelazione cristiana, deducendone l’unità del pensiero umano. Quanto agli altri umanisti cristiani:
“Essi mostrano uno spiccato interesse per le innumerevoli scuole e sette filosofiche (dai Pitagorici ai Cinici) che sono state braccate dalle autorità cristiane degli ultimi secoli dell’Impero Romano.”
Nei tempi moderni
La frase “filosofia perenne” o ” filosofia eterna ” è ripresa e resa popolare in tempi moderni dal filosofo Leibniz, che possiede i libri di Agostino Steuco e Nicolas de Cues. Così, nella sua lettera a Rémond del 1714, spiega che la verità è più diffusa di quanto si pensi e che, riscoprendo le tracce di verità presenti presso gli Antichi, si dissotterrerebbe una “certa filosofia eterna ( perennis quaedam philosophia )”. La Kabbalah cristiana (1486-1629), alla quale apparteneva Pic de la Mirandole, ma anche il rosacrocianesimo e la teosofia cristiana tedesca del XVII secolo, in particolare nella persona di Jacob Boehme, contribuirono, con tutti i loro aspetti esoterici, alla progressiva elaborazione del concetto di Tradizione Primordiale relativizzando l’orizzonte dogmatico nell’esperienza religiosa e integrando i misteri di altre religioni nella loro economia. Inoltre vediamo, nei circoli occultisti del XVIII e XIX secolo, sviluppare il vocabolario della “rivelazione primitiva”, da A. Fabre d’Olivet (1768-1825) a A. Saint Yves d’Alveydre (1842-1909). Ma con loro, come nella “scienza cattolica” del XIX secolo e nelle speculazioni di Hieron de Paray-le-Monial, la “rivelazione primitiva” è ancora vista solo come una premanifestazione del cristianesimo:
“In altre parole, in tale prospettiva, si trattava di interpretare monumenti e segni intesi come annunzianti l’avvento storico più o meno imminente della religione cristiana, concepita come una conquista ultima, e non di ammettere l’esistenza di una prima e unica tradizione spirituale, di origine non umana, da cui deriverebbero le religioni storiche, cristianesimo compreso. Non si trattava quindi qui, al contrario, di tendenze all’universalismo religioso, né di mettere altri messaggi o rivelazioni sullo stesso piano della religione cristiana. Tanto meno per farlo discendere da una “Tradizione primordiale”, rispetto alla quale bisognerebbe valutarne la “conformità”.
Inoltre Joseph de Maistre, scrittore e pensatore cattolico ultramontano al tempo stesso massone di rito scozzese rettificato, che considerava Platone come “il prefazio umano del Vangelo”, fu uno dei principali riferimenti dei seguaci di l’esoterismo del XIX secolo, e anche un grande riferimento per René Guénon.
Aldous Huxley, contemporaneo di Guénon, è da parte sua autore di un libro denso e colto, The Eternal Philosophy (1945), ma per quanto numerose siano le possibili connessioni tra i due autori, la sua prospettiva non è tuttavia quella del tradizionalista Guénon.
Influenze dottrinali
Il Sanatana Dharma indù
La Tradizione Primordiale è pensata dai suoi teorici come l’origine “non umana” (apurusheya, per usare l’espressione dell’upanishad) della conoscenza universale, nonché l’origine comune di tutte le tradizioni spirituali dell’umanità. In questo senso, questo concetto prende in prestito in modo esplicito da René Guénon dal concetto di Sanatana Dharma in Induismo, che preferisce il concetto di philosophia perennis a causa del suo riferimento a un orizzonte più alto, secondo lui, di quello della filosofia. Preferisce questo concetto sanscrito anche perché significa espressamente “eternità” divina e non “perennità”, la cui ambiguità rivela una certa dipendenza dalla temporalità.
Il metodo esegetico
L’opposizione esoterismo/exoterismo cara a René Guénon deriva dalla pratica del ta’wil (“interpretazione”) della tradizione islamica. Questa esegesi è dualistica. Essa distingue infatti due grandi significati della Scrittura:
- Zahir : significato exoterico, vicino, ovvio (con portata sociale, istituzione del diritto).
- Batin : significato esoterico, distante, oscuro (secondo l’Eterna Sapienza, raggiungibile con la pratica della filosofia; gradi iniziatici).
Questo dualismo ermeneutico differisce dal metodo quadripartito ebraico noto come Pardes che identifica il significato letterale (Pershat), allegorico (Remez), omelitico (Drash) e infine mistico (Sod). La tradizione cristiana, dal canto suo, individua tre (Origene) o quattro (Jean Cassien) livelli di lettura nell’interpretazione della Scrittura.
Usi della Tradizione Primordiale
Nel mondo accademico
Georges Vallin (1921-1983) e la filosofia non dualista
Georges Vallin era professore di filosofia all’Università di Nancy. Nel 1956 pubblica due tesi universitarie sotto la supervisione di Jean Wahl: Essere e individualità e La Perspective métaphysique . Nella prima espone in modo approfondito, oltre 506 pagine dense, una “fenomenologia dell’uomo moderno”. Prendendo volutamente ispirazione dalle tre “tappe” estetiche, etiche e religiose di Kierkegaard, individua tre finalità strutturali fondamentali della coscienza moderna, che sono collegate tra loro in modo consequenziale se non cronologico, almeno logico. La prima, cosmologica e oggettivante, riporta il tempo al dispiegarsi di un divenire puramente razionale, ma che ne ignora la singolarità (Aristotele, Spinoza, Hegel, ecc.). Il secondo, estetico, privilegia i dati immediati: “esperienza” intuitiva, durata imprevedibile, questi dati in cui l’individuo sperimenta se stesso e si perde nel godimento o nella creazione. La terza, infine, completa il declino della coscienza moderna: è la meta negativa, di tipo sartriano, «in cui l’individuo si conquista solo rifiutando sia il mondo oggettivo della prima meta sia quello dell’esperienza possessiva. della seconda . Qui la temporalità è colta come il luogo del nostro fallimento, della nostra morte, del nostro nulla: la singolarità dell’essere individuale si scopre come un vuoto». Questo è ciò che dà origine alla speculazione di Georges Vallin nel cuore: l’opposizione dei due vuoti. Il “nulla” sartiano costituisce infatti per Vallin una “indeterminatezza della povertà”, un vuoto dal basso, della povertà, che è il culmine della coscienza moderna. Al suo esatto contrario, Vallin è portato a trovare un altro vuoto che si definisce dall’alto, una “indeterminatezza della pienezza”, informale non per distruzione, per difetto e negazione delle forme, ma per eccesso e abbondanza di significato e di significato. è l’assoluto, l’ induista Sé, il plotiniana One, l’eckhartiano superessenziale Divinità o la Cusan non-Altro .
In questo senso, La prospettiva métaphysique, di cui Paul Mus, professore al Collège de France, scrive la prefazione alla seconda edizione, è l’introduzione a Essere e individualità . Nell’introduzione al suo libro, Georges Vallin rende esplicitamente omaggio a René Guénon, la cui scoperta è stata decisiva per lui. La sua lettura lo porta a concettualizzare il movimento “metadogmatico” dei mistici e degli gnostici d’Oriente e d’Occidente che, senza opporsi in alcun modo al dogma, lo trascendono dall’interno. Erede del tradizionalismo guenoniano, Georges Vallin non considera la grande “metafisica” di Oriente e Occidente al plurale, come sistemi irriducibili l’uno all’altro, ma al contrario come semplici differenti formulazioni dello stesso pensiero “non dualista” . “( indù advaita ). Il non-dualismo, infatti, tanto nell’induismo quanto nel paganesimo antico o nel cristianesimo, per citarne solo alcuni, cessa di considerare Dio come separato o dialetticamente opposto al mondo e al creato, ma come costituente, al contrario, il suo intimo essenza, perché in essa risiede la “coincidenza degli opposti”, la risoluzione di ogni possibile dualismo perché è il Principio unico di ogni realtà possibile e immaginabile: è il Reale in quanto tale, l’unità insuperabile di ogni concetto e di ogni essere possibile.
Considerando tali incroci dottrinali nello stesso spirito metafisico, Georges Vallin è quindi uno dei pionieri francesi della filosofia comparata . Il suo grande contributo concettuale al tema, la teoria metafisica dei “due vuoti”, è sintetizzato nell’ultimo capitolo del suo Illuminismo del non dualismo (1987), una raccolta di articoli raccolti e ordinati dal filosofo Jean Borella, lui – stesso allievo di Georges Vallin e di Raymond Ruyer.
Jean Borella (1930 -) ovvero il revival cattolico del tradizionalismo
Critica dell’esoterismo: dall’ermeneutica binaria all’ermeneutica ternaria
Jean Borella, associato dell’università, dottore in lettere, ha insegnato metafisica e storia della filosofia antica e medievale all’Università di Nancy II fino al 1995. Eminente teorico e storico del simbolo religioso, il suo posizionamento rispetto al concetto guénonien di La Tradizione Primordiale consiste nel suo recupero filosofico all’interno della cornice religiosa cattolica. La sua obiezione al guenonismo consiste nel dimostrare che i sacramenti della religione cattolica sono effettivamente iniziatici e che non possono subire la concorrenza di altri riti di iniziazione nell’ambito del cristianesimo.
Per questo teorico dell’ermeneutica, allievo di Paul Ricoeur, infatti, non si poteva pensare a questo concetto generale prescindendo dalle dottrine in cui esso si rapporta e ne assume il significato: “esoterico” ed “exoterico” designano aspetti ermeneutici, che sempre si riferiscono da rivelare . La posta in gioco è dunque semantica per Borella: non si può parlare astrattamente di religioni senza prestare attenzione a ciò che dicono di se stesse. Ecco perché, adottando il punto di vista del “filosofo cristiano”, Jean Borella ritiene molto più rigoroso e onesto pensare alla Tradizione universale dell’umanità alla luce di ciò che dice di lui – anzi – il “mistero cristiano”. Ecco perché Jean Borella identifica in René Guénon un approccio a due teste alle tradizioni sacre. A ciò, limitato secondo lui al dualismo esoterismo/exoterismo, oppone un approccio ternario o triangolare che tenga conto dell’articolazione di questi due poli attorno alla dottrina rivelata a cui si riferiscono: esoterico/exoterico/ revelatum . Quest’ultimo infatti è l’unico oggetto unico, mentre gli approcci esoterico ed essoterico sono solo prospettive ermeneutiche.
La conseguenza di tale obiezione è la relativizzazione dell’idea di Tradizione Primordiale, considerandola più in modo negativo o “apofatico” che in modo positivo o “catafatico”: non è tanto una questione. di un’unità di dottrina che dell’unità dell’Oggetto (il Divino) mirato e presupposto dalle varie religioni, dal messaggio proprio del quale non potevamo legittimamente astenerci. Più in generale, all’idea schuoniana di un’unità trascendente delle religioni, Jean Borella dice di preferire l’idea di un’unità trascendentale delle religioni, «in quanto trascendentale designa, in filosofia, ciò che supera tutte le categorie senza costituirsi una specie. “
Dalla Tradizione Primordiale al Cristo Primordiale: Rifocalizzare la Gnosi Universale sull’Incarnazione
Borella opera dunque un ritorno alle fonti del patristicismo e aggiorna l’antica teologia cristiana dei logoi spermatikoi, “molti semi di verità e di santificazione” presenti al di fuori del cattolicesimo di cui parla la costituzione dogmatica Lumen gentium del Vaticano II, e sviluppa un cristocentrismo vicino al Padre Jacques Dupuis . Per Borella, la Tradizione Primordiale designa infatti la “cosa Cristo”, alla quale tutte le religioni tradizionali hanno accesso perché le muove in tutto ciò che hanno di buono e di vero, ma la cui pienezza si rivela nella Rivelazione del “nome” di Gesù Cristo, nel mistero dell’Incarnazione. Attraverso l’Incarnazione si rivela l’“Universale concreto” che riporta l’uomo alla “gnosi originaria”. La Croce, infatti, è la determinazione geometrica del punto: in quanto puntuale, il “fatto metafisico” trinitario non mira a costituire una gnosi concorrente con un’altra, ma a “fissare” la gnosi universale. La religione cristiana è dunque la “situazione della gnosi “. La sua fede costituisce per Jean Borella il punto di riferimento della saggezza universale ben e veramente presente nelle altre scuole e tradizioni dell’umanità.
I sacramenti cristiani, che la stessa Chiesa cattolica qualifica come “iniziatici”, costituiscono dal canto loro mezzi autentici ed efficaci di accesso all’unione divina, purché il credente adotti un “certo spirito di esoterismo” meditando e coltivando la metafisica, simbolica e la conoscenza etica della Rivelazione.
Nella storia delle religioni
Mircea Eliade (1907-1986): una concezione generica del sacro
Mircea Eliade è un grande nome nella storia comparata delle religioni. Mitologo colto, fenomenologo delle religioni e scrittore rumeno, Eliade pone la nozione di ” sacro ” al centro dell’esperienza umana . Ha sviluppato molti temi cari a René Guénon, di cui era lettore e ammiratore e presentato a Carl Schmitt come “Guénonien”. I temi che riprende da Guénon sono quelli, in particolare, la sua critica al mondo moderno, l’ iniziazione, il senso del sacro e soprattutto il simbolismo. Riguardo a quest’ultimo, non nasconde la sua appartenenza dottrinale all’idea di Tradizione Primordiale, che in sostanza costituisce un leitmotiv della sua opera:
“Per l’uomo religioso, la sacralità è una manifestazione piena dell’Essere. Le rivelazioni della sacralità cosmica sono, in un certo senso, rivelazioni primordiali : esse avvennero nel più lontano passato religioso dell’umanità, e le innovazioni apportate successivamente dalla storia non sono riuscite ad abolirle”.
Per Mircea Eliade il simbolismo utilizzato dalle varie religioni è infatti parte di una struttura simbolica preesistente che ha valore di oggettività: ogni ordine simbolico ha un suo significato metafisico che le rivelazioni non negano ma utilizzano e aggiornano. In senso lato, Mircea Eliade ha lavorato per portare alla luce continuità, unità generiche e concordanze storiche e simboliche tra culture e religioni per evidenziare la loro comune struttura primordiale. Questo metodo, molto fruttuoso, gli valse tuttavia oggi sfide in antropologia : l’ipotesi “ diffusionista ” di Mircea Eliade sullo sciamanesimo è messa in discussione da Philippe Descola . Per lui, l’idea di una “forma arcaica di religione definita da tratti tipici” sopravvaluta il ruolo effettivamente osservabile degli sciamani nelle società studiate, e ignora, inoltre, una reale diversità maggiore di quella prospettata da Eliade.
Nella storia dell’arte
Ananda Kentish Coomaraswamy (1877-1947): approccio comparativo tra religioni, arte sacra e patrimonio universale
Ananda K. Coomaraswamy era un eminente storico dell’arte e metafisico dello Sri Lanka che ha co-fondato, in molti modi, la scuola perennialista . Curatore del museo, specialista in arte indiana e singalese oltre che in induismo e buddismo, ha pubblicato fondamentali opere teoriche su questi temi. In tal modo, ha contribuito alla scoperta e alla comprensione della cultura indiana da parte del mondo occidentale, sia storicamente, artisticamente, filosoficamente e simbolicamente.
Facendo dell’Induismo e del Buddismo i rami della stessa tradizione primordiale, corregge René Guénon sul tema della religione del Buddha facendogli ammettere la vera ortodossia del Buddismo, non certo nei confronti dell’Induismo (le circostanze storiche obbligano), ma dalla Tradizione. Lo corregge anche su punti di dottrina come la traduzione e la comprensione del Mâyâ indù.
Figlio di padre indù e madre europea, ha abbracciato nello stesso movimento gli aspetti tradizionali delle civiltà sia orientali che occidentali. Vedanta e platonismo erano per lui della stessa origine, e aveva una conoscenza altrettanto precisa e penetrante dei patrimoni spirituali e artistici dell’Oriente e dell’Occidente. È anche lui che ha introdotto René Guénon, a quanto pare, alla mistica speculativa di Meister Eckhart.
Tra le sue maggiori opere ricordiamo:
- Aspetti dell’Induismo (6 saggi), Arche-Milano, 1988 – ( ISBN 88-7252-019-3 ) ;
- Il significato della morte. Studi di psicologia tradizionale, Arche-Milano, 2001 – ( ISBN 88-7252-229-3 ) ;
- I simboli fondamentali dell’arte buddista, Archè-Milano, 2005 – ( ISBN 88-7252-266-8 ) ;
- Teoria medievale della bellezza, Arche-Milano, 1997 – ( ISBN 88-7252-181-5 ) ;
- Filosofia dell’arte cristiana e orientale, Pardès (1990);
- Trasformazione della natura in arte – Teorie dell’arte in India, Cina ed Europa medievale, nell’età dell’oro-Delphica (1994).
Nel mondo extra e parauniversitario
René Guénon (1886-1951), pioniere contemporaneo della Scuola della Tradizione
René Guénon, per molti versi, è il fondatore di quella che oggi chiamiamo la scuola della “Tradizione”, sempre con la ‘T’ maiuscola.
La tradizione secondo la prospettiva di René Guénon consiste nell’idea che l’insieme delle “forme tradizionali”, vale a dire delle varie tradizioni spirituali del mondo, siano opposte e differiscano solo esteriormente, exotericamente. In realtà, le loro corrispondenze simboliche, mitiche e rituali mostrano che dipendono tutte da un unico “Principio”, la Tradizione primordiale, che è “la fonte primaria e [il] fondo comune di tutte le forme tradizionali particolari”. Questo comune “Principio” costituisce l’unità della stessa dottrina, della stessa saggezza alla quale danno accesso come tutti tanti raggi che conducono ad un unico centro divino. In virtù delle leggi cicliche, la Tradizione Primordiale si è occultata nel corso della storia umana, ed è stata ricordata a tutti gli uomini dalle sue varie rivelazioni adattandosi fin dall’inizio alla mentalità e alle esigenze di ciascuna “razza” ( secondo il vocabolario del suo tempo) secondo le condizioni di tempo e di luogo. Guénon identifica la Tradizione primordiale con la nozione di sanatana dharma nell’Induismo.
Jean Tourniac spiega la Tradizione primordiale secondo Guénon:
“La norma e il perno, il germe imperituro di tutto il “sacro”, di tutto l’Universo manifestato macrocosmico e microcosmico, fondamento di tutte le tradizioni secondarie e delle varie religioni, eterno deposito di dottrina e di Conoscenza, in una parola, il Tempio della Verità Eterna, è […] la Tradizione primordiale. “
Louis Cattiaux (1904-1953), la sintesi delle grandi tradizioni
Corrispondente di René Guénon, Louis Cattiaux studiò attentamente gli scritti delle varie grandi tradizioni ( Libro dei Morti egiziano, Antico e Nuovo Testamento, Corano, Tao te king, opere ermetiche e alchemiche, ecc.), di cui offre una sorta di sintesi originale, espresso in brevi frasi disposte su due colonne e raccolte in quaranta capitoli. Charles d’Hooghvorst, discepolo di Cattiaux come suo fratello Emmanuel d’Hooghvorst, commenta questo riassunto, intitolato Le Message Retrouvé, come segue:
“Questo Messaggio non è nuovo, non afferma nulla che non sia già stato detto e ripetuto, e le citazioni che aprono e chiudono ciascuno dei quaranta libri ne sono la prova. “
La cosa non sfugge a Guénon che la apre in una delle sue lettere a Cattiaux. Quest’ultimo scrisse a un altro corrispondente:
“Vi chiedo per favore di avvicinare costantemente l’insegnamento del libro dei Padri del Taoismo a quello dei Vangeli e scoprirete l’identità metafisica di queste stupefacenti parole. Quanto a ciò che si nasconde dietro, dovrai solo leggere il Messaggio nella sua interezza per vederlo apparire.”
Emmanuel d’Hooghvorst (1914-1999), il pensiero ermetico del tradizionalismo
Discepolo di Cattiaux, Emmanuel d’Hooghvorst si ispirò al Message Retrouvé per scrivere il suo capolavoro, in due volumi, Le Fil de Pénélope . L’enfasi è più esplicitamente sul significato cabalistico, ermetico e alchemico delle diverse tradizioni. L’autore allarga la prospettiva ad ambiti meno toccati, o trascurati, da Cattiaux, come gli antichi autori greci e latini, le favole ei tarocchi. Suo fratello, Charles d’Hooghvorst, presenta l’opera in questi termini:
“Alcuni potrebbero rimanere sorpresi leggendo i contenuti di questa raccolta, che unisce i Racconti di Perrault e l’ Odissea, la Cabala Giudaica e l’ Eneide, i Tarocchi e l’Alchimia; ma la diversità dei temi non è necessariamente dispersione.”
In una lettera indirizzata al fratello, lo stesso Emmanuel d’Hooghvorst riassume il punto di vista tradizionalista che anima i suoi scritti:
“I testi rabbinici confermano in modo così completo, e Il Messaggio [Retrouvé], e tutto ciò che ci ha detto Cattiaux, che in realtà è la stessa catena che si unisce nel tempo. Non stupisce nemmeno che gli insegnamenti dell’ermetismo sembrino identici, anch’io ho avuto questa esperienza molto spesso.”
Julius Evola (1898-1974), il pensiero politico del tradizionalismo
Julius Evola è un filosofo, pittore, poeta e artista italiano. Fu sia un metafisico che un pensatore politico, i due aspetti essendogli strettamente legati, a differenza di René Guénon il cui temperamento fu considerato contemplativo dall’inizio alla fine della sua vita e della sua opera. Julius Evola è autore di un’opera molto considerevole, densa e chiaramente rientrante nell’ambito della ricerca parauniversitaria, in particolare nella sua Metafisica del sesso (1958) il cui carattere solidamente referenziato fece dire a Marguerite Yourcenar che Evola era una “studentessa geniale” . La filosofia di Julius Evola sta al crocevia di Friderich Nietzsche e René Guénon, come dimostra Jean-Paul Lippi . Rinomato, in particolare nella sua giovinezza, per il suo anticristianesimo sulfureo e fascista, a differenza del suo contemporaneo René Guénon, le sue posizioni si sono evolute in una direzione più concordataria, allo stesso tempo più contemplativa, nel corso della sua vita (cfr Paolo Lippi). Così arrivò, nonostante il suo primo libro giovanile Pagan Imperialism, a prendere posizione contro la “parodia” del “neopaganesimo”: “Non dimentichiamo, scrive, che il cattolicesimo può svolgere una funzione di ‘diga’, perché è il portatore di una dottrina della trascendenza: così può, in una certa misura, impedire che la mistica dell’immanenza e la prevaricante sovversione proveniente dal basso superino una certa soglia. “
In L’arco e la clava, Julius Evola dà la sua esatta concezione della Tradizione Primordiale: per lui esiste una “unità trascendente […] di tutte le grandi tradizioni spirituali”. “Dal punto di vista tradizionale”, prosegue, “queste appaiono come ‘omologabili’, come forme variegate e più o meno complete di una sapientia perennis, come emanazioni di una tradizione primordiale senza tempo. Le differenze riguardano solo l’aspetto contingente, condizionato e impertinente di ogni particolare tradizione storica, e nessuna tradizione può pretendere di detenere, in quanto tale, il monopolio della verità assoluta».
In virtù della sua prospettiva politica, Julius Evola “afferma di essere di una Tradizione primordiale e universale, di origine Iperborea, e per questo si ispira alle opere di René Guénon, Hermann Wirth e Johann Jakob Bachofen . Secondo questa Tradizione, le funzioni sono distribuite da un sistema gerarchico di caste, in quattro parti, secondo la terminologia indù : capi religiosi (” brahmani “), nobiltà guerriera (” kshatriya “), borghesia mercantile (” Vaishya “) e servi della gleba. (” sudra “). Per l’autore italiano l’appartenenza a una casta prevale su quella a una nazione, motivo per cui è favorevole a un potere imperiale e federativo, piuttosto che a un nazionalismo integrale di tipo maurrassiano . Lo stato è costruito attorno a un centro, incarnato nella persona di un leader spirituale e temporale, il monarca sacro. A differenza di René Guénon, per il quale l’autorità spirituale prevale sul potere temporale, Evola ritiene che la figura del monarca vada oltre le due funzioni. Si posiziona contro la democrazia e soprattutto contro il comunismo che considera anche il gradino più basso da raggiungere sulla scala politica».
Inoltre, René Guénon è morto prima del Concilio Vaticano II mentre Julius Evola non è scaduto fino a nove anni dopo la sua fine. Ha quindi il tempo di commentare l’ecumenismo allora instaurato dalla Chiesa, e, contrariamente a quanto suggeriva il suo rifiuto dell’esclusivismo religioso, ritiene che l’unità verso cui tende il cattolicesimo non sia una contraffazione dell’unità, omologante e soggetta a il mondo moderno. Ritiene invece che un’unità reale, cioè spirituale, tra le religioni si possa realizzare solo “dall’alto”, e non “dal basso”:
“A livello delle religioni è valida solo l’unità trascendente, realizzata dall’alto: l’unità che risulta dal riconoscimento dell’Unica Tradizione al di là delle sue varie forme particolari e storiche, il riconoscimento dei costanti contenuti metafisici che appaiono sotto varie vesti – come tante traduzioni in diverse “lingue” – nelle molte religioni e tradizioni sacre del mondo. La condizione indispensabile è dunque la comprensione “esoterica” di ciò che si manifesta attraverso la varietà confusa e talvolta contraddittoria delle religioni e delle tradizioni. L’incontro, dunque, non può che avvenire al vertice, a livello di élite capaci di cogliere la dimensione interna e trascendente delle diverse tradizioni; allora l’unità seguirebbe automaticamente ei “dialoghi” potrebbero aver luogo senza turbare i limiti propri di ciascuna tradizione a livello di dottrina “di base” e esterna. Ma non c’è niente di simile nelle recenti iniziative di riforma che hanno suscitato “euforia ecumenica”. È essenzialmente una semplice tolleranza che rinuncia più o meno al dogma».
Frithjof Schuon (1907-1998), teorico dell’esoterismo assoluto
Nei suoi scritti, Frithjof Schuon estende i temi guénoniani a una serie di altri soggetti mentre estende, affina e chiarisce le idee principali di Guénon. In Unity trascendente des religions (1948), uno dei suoi capolavori, immagina l’unità di religioni diverse basata sulla stessa saggezza esoterica, cioè inaccessibile al maggior numero. Nella sua prefazione, conferma la critica guenoniana della filosofia ricordando che questa è solo di ordine razionale ed è quindi limitata al livello individuale. Quanto alla metafisica pura, essa deriva non dalla ragione, ma dall’intuizione intellettuale, quindi sovrarazionale; essendo atemporale, essenziale, primordiale e universale, Schuon si riferisce a questa metafisica come philosophia perennis, religio perennis o sophia perennis, a seconda di questa o quella enfasi.
In Esoterismo come principio e come via (1978), difende l’idea di un “esoterismo in sé, che chiameremmo volentieri sophia perennis e che in sé è indipendente da forme particolari poiché è la loro. benzina”. Patrick Riggenberg afferma che Schuon prende le distanze dalla nozione guenoniana di Tradizione Primordiale, che gli parrebbe troppo storicista: “Infatti, se Schuon prende da Guénon l’idea di una tradizione primordiale, l’origine anistorica delle tradizioni manifestate in storia, le rimprovera allo stesso tempo di avere solo una funzione limitata, in modo cosmico e ciclico. Tuttavia, Schuon è molto più interessato a comprendere la radice delle religioni in Dio, che a rintracciare la loro filiazione terrena da una tradizione primordiale. Il suo uso del termine religio perennis dice tutto: è una conoscenza universale e immutabile ( perennis ), che collega ( religio ) direttamente al Cielo. Con la religio perennis e la sophia perennis, Schuon fa dell’idea dell’universalità delle tradizioni un legame sapienziale e spirituale permanente con il Divino”.
Raymond Abellio (1907-1986) e la “nuova gnosi”: una fenomenologia della disoccultazione
La filosofia di Raimondo Abellio si oppone all’elogio del segreto difeso da René Guénon e Julius Evola . Benché opposto a questi due pensatori, egli stesso fa parte della Scuola della Tradizione, in quanto anche la sua filosofia è organizzata intorno al postulato guénoniano della Tradizione primordiale. Come tutti gli altri tradizionalisti, afferma infatti di credere nell’esistenza di una “Tradizione Primordiale, che è quella di un tempo comune a tutte le religioni, a tutte le filosofie, a tutti i miti, a tutti i simboli. “Ciò che lo differenzia dal Guenonismo è la sua concezione evoluzionista della Tradizione Primordiale, derivante dalla sua appartenenza al Marxismo:” La Tradizione Primordiale fu data agli uomini tutta in una volta, interamente, ma velata. O meglio gli uomini che lo hanno ricevuto non avevano ancora i mezzi intellettuali necessari per tradurlo in nozioni chiare (…) Sta a noi, uomini di oggi, spiegare la tradizione, passando da una semplice “partecipazione” a un vero “sapere”. A partire da queste premesse, Raymond Abellio, influenzato principalmente da Edmond Husserl e Martin Heidegger, costruisce dunque una complessa “fenomenologia genetica” che intende stabilire una “nuova gnosi” che completerebbe, nello stesso tempo in cui realizzerebbe, la promessa di tutti esoterismi tradizionali. Questa gnosi abeliana costituisce per lui la via, il compito e l’opera propria dell’Occidente, questo luogo spirituale di avvento della coscienza trascendentale ma anche di mobilitazione e superamento della ragione.

Il Salvatore Promesso dall’escatologia Profetica delle Cinque Sacre Religioni Tradizionali Rivelate e Autentiche

Il mistero della conoscenza divina: la Gnosi
2. LA TRADIZIONE PRIMORDIALE DI GUIDO DE GIORGIO
a cura di Gianfranco Bertagni
La verità di Dio non può essere che una come il tutto è uno, come il principio del ritmo è il silenzio, della voce l’ineffabile, delle forme l’informale, ma le vie per giungere a Dio sono varie perché tutto è in Lui ed ogni punto della circonferenza è equidistante dal centro, cioè purché sia nell’asse centripeto che chiameremo asse tradizionale. La tradizione quindi è la confluenza di tutte le vie in Dio e la determinazione integrativa delle vie che conducono a Dio affinché Dio sia veramente il termine che si vuol raggiungere e l’uomo il punto di partenza di questo ritorno al ciclo divino. Se in un senso tutte le vie conducono a Dio nessuna di esse è sicura se non è stata percorsa, conosciuta come verace, accentrata diremo così, rettificata secondo l’asse tradizionale che costituisce la circolarità centripeta, la dipendenza dell’uomo da Dio, il convalidamento di questa dipendenza e la certezza del ritorno realizzatore.
Il termine “ritorno” non deve far pensare ad una cosa che – si stacchi da un’altra e vi si riconduca, poiché in Dio nulla si stacca da Dio e Dio è tutta la realtà: ma siccome l’ignoranza che è la caduta, il peccato, ha velato il centro frapponendo illusoriamente un distanziamento fra uomo e Dio, fine e scopo della tradizione è l’eliminazione di questa illusoria distanza, il superamento di questa fallace dualità, la fissazione di uno schema risolutivo che reintegra la verità di Dio con un processo realizzatore. La tradizione è quindi sacra perché considera tutto secondo Dio, riconduce tutto a Dio, viene da Dio verso l’uomo per ritornare a Dio, all’unità del Principio Supremo nella perfezione della Sua assolutezza. Essa è divina e non umana perché, ricongiungendo l’uomo a Dio, proviene necessariamente dal centro divino da cui si stacca solo in apparenza per ricondurvi l’uomo che se ne è allontanato vittima della sua ignoranza e della sua colpa.
Diremo che la tradizione è divina – non che è essa stessa Iddio perché nulla può essere dato, tramandato, trasmesso da Dio che non sia Dio stesso – ma diremo anche che la tradizione cessa quando si è effettuato il ritorno a Dio, quando cioè non vi è più che Dio e nulla può e deve ricondurvi, Egli solo essendo. Il carattere umano delle cose è illusorio, fallace, poiché ne l’uomo, ne le cose esistono se non per ritornare a Dio da cui sono apparentemente allontanate: quindi niente di più puerile che credere all’umanità delle cose umane perché si rivelano all’uomo per l’uomo come se l’uomo veramente esistesse e con lui le cose in funzione propria ed in autonomia reale e non fossero invece ambedue fuori di Dio unicamente in virtù dell’ignoranza che le concretizza, cioè le uccide e le rapprende. La tradizione implica la caduta, il peccato, l’ignoranza, l’uomo, il mondo, e determina una separazione netta, anche se provvisoria perché necessaria, tra l’umano ed il divino, la terra ed il cielo, il profano ed il sacro, l’errore e la verità, l’ortodossia e l’eterodossia, tra ciò che in Dio ritorna a Dio e ciò che, non essendo di Dio, non può ritornare a Lui.
Chi nega il carattere sacro della tradizione nega Iddio, e, negando Iddio, nega sé stesso e cade nell’assurdo più mostruoso, l’affermazione di una negazione, la limitazione di un nulla, la soppressione di una luce per cui ed in cui luce ciò che luce, condannandosi a non vedere mai ciò che vede e a vedere sempre ciò che non vede, ponendo la saggezza nella propria ignoranza e facendo di questo velo, di questa nube fluttuante, il termine fisso di un insabbiamento perpetuo. Negando Dio egli nega l’uomo, afferma ciò che non è, il nulla e terrificando il cielo, fa della terra il suo sepolcro, della morte vivendo e, morto, credendo di vivere. I negatori di Dio sono meno che peccatori, essi sono i vessilliferi della propria imbecillità, vittime di un assurdo che si compiace al sorriso d’una demenza puerile e riottosa poiché essi non negano in realtà se non ciò che negando affermano, fingendo d’ignorare persino il gioco della propria ignoranza. Tombe essi sono, cadaveri aspiranti ad una vita che non possono raggiungere perché incapaci di spezzare le pareti del proprio confinamento, chiusi nel circolo di una volontaria inadeguatezza. Costoro sono i repudiatori di se, gli eunuchi del mondo, i menomati, i minorati, gli imbelli e sono negatori di Dio tutti coloro che ripudiano il carattere sacro della tradizione, che ammettono altra sapienza che non la sapienza santa, altra scienza che non la scienza santa, altra conoscenza che non quella di Dio, altro fine nell’uomo che non il ritorno a Dio, altro deposito che non quello divino altra vita che non in Dio, altro essere che non Iddio, altra causa dell’errore e della colpa che non l’ignoranza di Dio: altro superumano che non quel che realmente è divino cioè al di là dell’uomo e non nell’uomo, ma nell’uomo per Dio, nelle cose e nel mondo per Dio, in Dio solo infine e per Dio con Dio.
L ‘uomo non può giungere a Dio senza Dio, e la tradizione è il veicolo necessario per l’abolizione del peccato e dell’illusione, per la dissipazione di quell’ignoranza che nasconde il suo vero destino, la sua vera paternità, la sua pura origine, riconducendolo al compimento della sua umanità che, pienamente realizzata, si rivela essenzialmente di ordine divino. La verità della tradizione consiste dunque nel suo carattere sacro per cui, separando il profano dal sacro, afferma che il profano stesso è sacro e nulla esiste che non sia sacro purché si diventi accessibili alla verità dell’asse tradizionale ove tutto confluisce in Dio. Ma l’ignoranza che ha determinato la caduta e l’illusione di un ordine che sia altro da quello divino, implica una dualità, la separazione stessa di questi due ordini che la tradizione afferma e da cui trae la legittimità della sua esistenza per tendere ad abolire il divieto dopo di averlo formulato; poiché nella formula stessa del divieto, nella separazione del divino dall’umano, risiede il segreto e il luogo della loro unificazione che avviene semplicemente non per giustapposizione, ma per dileguamento dell’errore che scorge il due nell’uno, la dualità in ciò che è al di là di essa.
Se la tradizione partisse dall’unità, non sarebbe più quello che è, cioè la via che vi riconduce, ma rimarrebbe in Dio anzi non sarebbe che Dio, ciò che precedentemente si è negato: essa dunque parte da Dio ed è destinata agli uomini che devono ritornarvi. Vi sarà finche esisterà 1’uomo essendo l’unico anello di congiunzione tra lui e Dio: scomparsa la tradizione, scompare il mondo: è bene fissare questa verità tanto più temibile quanto più gli uomini, vittime dell’ignoranza, non solo si allontanano dalla tradizione e vi si oppongono, ma impediscono persino a coloro che vi tendono di mantenerla come un deposito sacro che garantisce 1’esistenza e la conservazione del mondo. Riaffermarla dovrebbe essere lo sforzo che può ancora impedire la rovina dell’uomo e del mondo col ristabi1ire la via tra l’uomo e Dio dando al primo il solo punto di appoggio per il compimento della sua esistenza terrestre secondo l’ordine divino che ne giustifica lo sviluppo. La caduta infatti, cioè l’ignoranza, ha spalancato un cBsma, una voragine, una serie di stati che intercedono tra la morte e la vita per coloro che non sono morti prima di morire e che continueranno a morire dopo la morte. Insomma ciò che gli uomini devono temere non è ciò che può capitare loro in vita, ma ciò che capiterà loro dopo la morte, se invece di approfittare dell’esistenza terrestre per prepararsi alla traversata della voragine determinata dalla caduta, rimanendo uomini, cioè negando Dio, l’amplificano e vi cadono turbinando nella vera morte che è quella eterna.
L’ignoranza, cioè l’illusione, ha determinato questa realtà terribile degli stati post-mortem, del ciclo tenebroso che è destinato a coloro che hanno rifiutato la luce in terra negandosela cosi in eterno. Soltanto la tradizione permette il colmarsi di questa voragine su cui essa lancia solidissimi ponti, anche se esili ed invisibili, stabilendo cosi una nuova separazione, quella degli eletti e dei reietti che sono poi gli accettatori ed i rifiutatori della parola di Dio. L’occhio di Dio si posa solo su coloro i cui occhi si volgono a Lui e si allontana soltanto da coloro i cui occhi rifuggono da Lui: Iddio chiama a Sé quelli che lo chiamano ed è muto per quelli che lo negano: questa reciprocità non è sempre apparente, perché vi è nell’uomo ciò che dorme e ciò che veglia, ciò che dormendo veglia e vegliando dorme. L ‘accenno è più che sufficiente per coloro che sanno e vogliono capire ciò che è veramente il mistero della predestinazione e della grazia in quest’ambito. Da tutto ciò segue questa semplice verità: l’esistenza terrestre è per l’uomo un periodo di prova in cui è saggiata la sua virtù cioè la sua idoneità a ritornare a Dio dopo aver dissipato l’illusione che lo separa da Lui, dopo aver distrutto la voragine spalancata dalla caduta, dopo aver dileguato il fantasma di ciò che non è Dio, quando, Dio essendo tutto, solo Iddio è. Ma questo è il termine della via poiché questa giunge solo all’Eden, alla perfezione supraterrestre da cui l’ascesa verso Dio procede per stadi informali solo simbolicamente intelligibili. Per la massa degli uomini che vivono nell’illusione dell’ignoranza, il distacco da Dio è enorme, perché – si fissi ciò – esso è tanto più grande quanto più lontani essi sono dal conoscere sé stessi cioè dal realizzare la loro vera natura. Più si sprofonda in sé più ci si avvicina a Dio; poiché, discendendo in noi, saliamo in Dio ed il parallelismo è cosi essenziale da abolirsi in un unico asse che è appunto quello tradizionale.
La tradizione fa che l’uomo ritrovandosi Lo ritrovi, ma esige che l’uomo muoia ritrovandosi poiché egli deve rifare il percorso della voragine originata dalla caduta, deve uccidere l’ignoranza, abolirla, risolverla in saggezza, far si che la sua morte sia la sua vera vita e che la conoscenza del suo profondo sia la conoscenza di Dio col riassorbire tutti i gradi intermediari, col ripristinare lo stato edenico, integrando in sé tutta l’umanità e la cosmicità, tutte le possibilità umane del vizio e della virtù, del male e del bene, finche i due termini scompaiano, il vizio e il male siano sciolti dalle acque del Letè, e rimanga solo ciò che sempre fu, l’immortalità e l’eternità, la purezza della verità nell’amore cognitivo di Dio.
La tradizione fa si che il mondo stesso e l’uomo siano il luogo del ripristinamento edenico e che dalla concrezione ultima delle Forme parta il seme di quel fuoco che dalle Forme, ai Ritmi, al Silenzio arderà tutti i detriti dell’ignoranza in una progressione essa stessa generatrice degli stati raggiunti. Questa azione sacra deve compiersi in un combaciamento perfetto senza che vi sia costrizione o rivolta, in sopportazione o spasimo, con la fede che, sicura del miracolo, crea il miracolo, poiché l’uomo è ciò che pensa, ciò che crede, se il pensare sacro è credere e credere conoscere ed amare, essere. Ponendoci ad un punto di vista integrale, facciamo confluire tutte le vene in una sola senza soffermarci sulle differenze che le distinguono nell’analisi dei processi realizzatori, ma, considerando la grande sfera teocentrica, tutti i punti, tradizionalmente parlando, sono equidistanti non come intensità realizzatrici, ma come ortodossia di livello e sicurezza di ambito. Se in principio, come abbiamo detto, ogni via conduce a Dio purché si voglia giungere al solo Iddio che è il Dio vero, non ogni via è sicura di giungervi senza il sostegno tradizionale che traccia il percorso, ne vigila le insidie sorvegliando lo sforzo individuale e il ritmo particolare ad ogni uomo poiché ogni uomo è una falsa unità con caratteri specificatamente proprii che s’integra, andando a Dio, nell’unità vera. Dunque tante vie quanti gli uomini – potremo dire quanti gli esseri – ma tutte necessariamente comprese nell’ambito tradizionale che ne assicura la rettitudine di modo che tutte tendano al vero, Iddio, ognuna mantenendo la sua caratteristica specificatamente conforme alle possibilità dell’individuo. Ne risulta tutto un mondo che riplasma questo terrestre restituendogli la sua legittimità, facendolo sacro, epurandolo da ciò che non è conforme al suo destino, suggellandone ogni aspetto, rendendo ad ogni cosa la sua corrispondenza analogica ed il suo segreto simbolico, per cui ciò che prima non ha alcun senso ne acquista uno, ed anche le cose tenui s’ispessiscono di contenuto simbolico, mentre le cose apparentemente gravi si denudano di ogni orpello rettorico, e tutto si dispone gerarchicamente senza che la vita si mutili o si menomi anzi arricchendosi, intensificandosi in pulsazioni piene, in prospettive infinitamente complesse mentre l’elementarità restituita, snoda tutta la dovizia delle sue forme nell’ampiezza feconda del grembo tradizionale.
Si tratta di un denudamento e di una investizione: il mondo e l’uomo prima denudati sono sottoposti ad una investizione sacra: denudati cioè, purificati, investiti cioè atti a divenire il luogo del ritorno a Dio in conformità alla loro destinazione perché altro non è la parvenza del mondo e dell’uomo se non il segno di Dio e soltanto coloro che li riconoscono come tali sono sicuri di ritornare a Dio e di sciogliere integralmente le nebbie dell’ignoranza e dell’errore dinanzi alla luce della conoscenza realizzatrice.
Per coloro che sono incapaci di un solo pensiero profondo e di una sola visione reale, il mondo tradizionale è una limitazione ed una prigione: questo concetto, quest’errore sono l’origine dell’abbiezione umana attuale e si fecero strada negli uomini proprio quando l ‘Europa perdeva la sua tradizione medioevale per farsi permeare, contaminare, profanare dalla laicità superficiale, impudente, dall’ottusità della ragione e del senso, perdendo ogni dignità di pensiero ed ogni giustificazione di vita. Ma il mondo tradizionale per essere volto nell’asse della verità dà alla stessa vita un’intensità assolutamente ignota all’Occidente moderno perché ne scopre le scaturigini più celate, ne fa balzare torrenzialmente le posse più feconde, denuda l’uomo ed il mondo da un lato per capirne le vibrazioni più elementari, lo veste dall’altro di una rete di corrispondenze ove i rapporti sono percepiti nella loro determinazione più sottile, dal tempio fino alla casa improntando ogni cosa d’un senso sacro, profondo, ove tutto serve alla realizzazione della verità di Dio. La vita nel mondo tradizionale, è veramente pericolosa nel duplice senso che ha il termine latino periculum; essa è un'”esperienza” e un “rischio” o, per meglio dire una “rischiosa esperienza”, ove l’uomo, mai distratto, è posto di fronte alla sua nudità, in un ambiente ove tutte le realtà di bene e di male, di santificazione e di dannazione sono rese possibili perché tutte le forze sono scatenate per vagliarne l’intensità realizzatrice, empito pulsante, pluritonale, interno, profondo, reale, umano, di cui l’asse tradizionale è come la diga di macigni contro cui s’infrangono le tempeste.
L ‘umanità attuale non ha neppure l’idea più vaga di tutta la ricchezza, di tutta la varietà, di tutta la complessità di un periodo veramente tradizionale, della libertà che vi regna, delle possibilità infinite che esso offre, del suo tono intenso di vita, ove l’arte, nel senso profano, non esiste perché la vita stessa è arte, mentre l’arte vera è simbologia, cioè determinazione dei complessi plastici capaci di permettere la realizzazione del divino. La commozione stessa che suscita nei moderni la contemplazione dell’arte tradizionale nelle sue forme più semplici – cosa, oggetto, mobile, porta – è indice dell’intensità della vita d’allora tutta vibrante di ritmi assolutamente ignoti ai moderni perché, aborrendo da ogni artificio limitativo, essa coglieva nell’uomo e nel mondo i complessi più fecondi e, coll’apparente monotonia degli schemi, immetteva forze di ogni genere produttrici di esperienze veramente decisive di cui i cerchi massimi erano la santificazione e la dannazione, il santo ed il reprobo tra i quali si snodavano volute di ogni grado completando il dominio delle possibilità contenute nell’asse tradizionale.
In un mondo simile tutto è a posto: male bene, verità errore, virtù vizio, saggezza ignoranza: anzi gli opposti si manifestano in tutta la loro nettezza per provare la forza del carattere e porre la coscienza dinnanzi all’alternativa radicale che, ricondotta ai due ordini tipici, è poi quella del divino e dell’umano. Si osservi che questi due termini non sono mai stati tanto confusi, tanto profanati quanto nell’epoca attuale, anzi diremo di più: il termine “umano” designa quasi sempre ciò che è nettamente bestiale, mentre è riputato divino soltanto ciò che è appena umano. In un mondo tradizionale invece una confusione così diabolicamente feconda di tanti errori è impossibile, perché il dominio del sacro e del profano è nettamente determinato, anzi più che determinare il profano, viene fissato ciò che è sacro, per cui è facile per esclusione, conoscere ciò che non lo è. Se si dovesse esprimere in termini ancor più chiari la differenza tra un mondo tradizionale ed una società che non più aderisce, o almeno liminarmente, alle verità di ordine divino, dovremmo dire che nel primo è Iddio che parla per bocca di coloro che ne guidano i destini, mentre presso la seconda sono gli uomini che parlano in nome di Dio facendo del loro prestigio un uso puramente diabolico e volgendo la loro potenza al discredito di quelle verità senza le quali ne il mondo ne l’uomo possono esistere normalmente.
Finora si è parlato della Tradizione in genere il cui compito è stato precisato nelle sue linee generali senza alludere ad alcuna delle tradizioni esistite o esistenti: ciascuna di queste determina un complesso normativo secondo la verità che propone e la disposizione divina da cui emana: anzi la loro diversità dipende da quest’ultimo fattore che è il più importante ed il più nettamente determinativo. È evidente che per abbracciare la totalità tradizionale bisogna porsi da un punto di vista integrativo che comprende tutte le forme tradizionali senza confonderle, anzi mantenendo rigorosamente le differenze la cui ragione d’esistere è d’un ordine duplice: dapprima quella che imperfettamente si potrebbe chiamare l’attualizzarsi dell’espressione divina e in seguito la necessità del tempo e dei popoli presso cui esse sono apparse. Al disopra quindi di tutte le forme tradizionali vi è la Tradizione Primordiale, come al di sopra di ogni manifestazione divina vi è Iddio in cui si attualizza in sede universale ciò che nelle tradizioni particolari è presentato come destinato a popoli e razze determinate in un complesso fisso che contiene, oltre una visione definita del divino, i vari mezzi per realizzarla efficientemente. La Tradizione Primordiale oltrepassa i confini di una forma tradizionale determinata e quindi non è possibile precisarne i limiti e definirne l’ambito, né è questo il luogo di accennare, ciò che è stato già fatto, ma che per noi non ha un grande interesse, alla sua localizzazione nello spazio ed alla sua fissazione nel tempo. Ponendoci ad un punto di vista nettamente integrativo, diremo che la Tradizione Primordiale deve distinguersi dalle successive forme tradizionali per i seguenti caratteri: essa è diretta, risolutiva ed immediata. Diretta perché è stata la prima e conserva il tipo originario dell’aderenza completa al Principio Divino da cui emana: risolutiva per la sua estrema semplicità, essendo più un lampeggiamento rivelatorio che un veicolo determinato: immediata perché permette la realizzazione integrativa senza residui e senza transizioni intermediarie. Si pensi un mondo elementare, ed una umanità elementare la cui vita è tutta sacra, in cui non vi è nessun margine che si sottragga allo sguardo di Dio che immediatamente scende sull’uomo e lo guida. Si pensi alla consacrazione di ogni atto, di ogni gesto, di ogni pensiero, alla denudazione dell’uomo privo di qualsiasi idea che non sia quella di Dio; alla permeazione radicale attraverso il mondo delle Forme scioglientesi nei Ritmi e risolventesi nel Silenzio. Si pensi all’assenza di ogni culto che non sia il culto stesso del mondo in Dio, all’assenza di ogni tempio che non sia l’universo intero, alla realizzazione integrale dell’unità divina nella trascendenza di tutte le Forme rese trasparenti in modo da rivelare attraverso la tenuità della trama la presenza di Dio. Si pensi ogni uomo sacerdote, il mondo tempio, tutta la vita un rito, la confluenza di tutte le voci nel silenzio, ogni pensiero una realizzazione, ogni gesto un atto di luce, l’incedere tra le forme permeabili di questi Figli di Dio nella grande pace, fruenti del segreto della creazione in una polarità indefettibile, col cuore epurato dal vincolo della servitù corporale, in una radiazione uguale e costante univertendosi, come il simbolo cruciale, nella verticalità e nella orizzontalità assoluta mentre l’alone circolare si svolge secondo il centro della Croce, rotando e permanendo nella ritmicità del ciclo divino.
Si pensi alla vita come ad una santificazione, all’unico e vero tempio, il Cuore, dell’unico vero Iddio, il cui nome è il soffio, il cui ritmo è il respiro cosmico, la cui creazione è di ogni istante, che si manifesta in un lunghissimo giorno e si occulta in una lunghissima notte come il sole che appare lungamente e lungamente dispare nella solitudine polare.
Si pensi a un mondo in cui le stagioni siano due, una lunga notte ed un lungo giorno ed ove degli uomini contemplano Iddio in un mondo ancor tiepido del soffio divino, unificato dalla centralità permanente, prima che la divisione dell’anno fosse quel che ora è, senza la ricorrenza quotidiana della notte e del giorno, nella pura intellettualità permeante tutti gli stati umani, nell’attualizzazione permanente del pensiero che si realizza nelle Forme con una transfigurazione costante ed una risoluzione infinita.
Si pensi alla vita tutta contemplazione senza alcuna intermissione di sensibilità sognatrice o di sensualità depauperante.
Si pensi ad una libertà assoluta nella radiazione cognitiva che ama ignorando di amare e s’unisce ignorando di unirsi.
Si pensi all’elementarità radicale che ha per legge il soffio di Dio e per ambito la vita di Dio. Sapienza di Dio nel tempio di Dio, uomini di Dio nel mondo di Dio, questa è la Tradizione Primordiale diretta, risolutiva ed immediata nella fulgurazione della manifestazione e nella lunga notte polare dell’Immanifesto, alveo di tenebra divina ove si chiude anche il nome Suo in un abisso senz’orme e senza fondo, sonno di Dio in Dio.
Tutto è sacro dove non vi è profano, dove tutti gli uomini sono partecipi della saggezza divina, dove la vita stessa è realizzazione perché vissuta in Dio e contemplata in Dio, ove ogni espressione è espressione di Dio, ove tutto viene da Dio e ritorna a Dio permanendo in Dio, ove tutti sono sacerdoti perché compiono il rito della vita che è veramente la Vita, ove il vero Iddio risiede nel cuore dell’uomo epurato da ogni umana scoria, ove tutto, interno ed esterno, superiore ed inferiore, confluisce nell’asse divino che è lo stesso asse tradizionale, ove la realizzazione assume la sua forma più alta, conoscenza diretta di Dio, ove non vi è sentimento perturbatore, ove l’intellettualità pura costituisce il raggio solare che da Dio discende all’uomo, dall’uomo risale a Dio e da Dio sprofonda nella notte di Dio, nel dominio segreto dell’Ineffabile.
Il mondo stesso converge nella radiazione unipeta, ridotto alla sua elementarità che meglio riflette lo schema divino, giorno di Dio e notte di Dio, ritmo del soffio che emette e riprende da sé a sé nel Sé, svelandosi e valendosi come l’occhio che si apre e chiude lungamente sulle Forme e nel Silenzio emergono le Forme e i Ritmi snodantisi crucialmente nell’universalità formale per riassorbirsi nell’universalità informale con un equilibrio assoluto di vita divina.
Il mondo è il cuore dell’uomo, intelletto centrale che nel duplice ritmo di diastole e sistole, si manifesta e si immanifesta, lanciando la vita e riprendendola, giorno e notte, ma giorno che è giorno e notte che è notte, integralmente volgendosi nel duplice aspetto del fuori e del dentro, del basso e dell’alto, mondo e Dio, Dio e mondo, né mondo né Dio perché tutto tutto Iddio.
Questa è la Tradizione Primordiale e questi sono gli uomini della prima età del primo mondo, esseri di pura conoscenza, esseri di pura contemplazione aventi in sé il proprio tempio, nel combaciamento di due alvei, il cuore ed il mondo, cuore di Dio e mondo di Dio in una concordia che era veramente l’unificazione dei cuori nell’intellettualità del Cuore sede dello Spirito Divino che si dilata nelle Forme e nei Ritmi e si concentra nel Silenzio amandosi in conoscenza e conoscendosi in amore. Da questa sorgente originaria derivano i grandi fiumi tradizionali, le varie forme tradizionali, tutte ricollegate alla Tradizione Primordiale a cui devono la giustificazione della loro vita, l’efficacia dei loro metodi e l’ortodossia dei loro principi. Come i fiumi discendono, irrigano e fecondano, e come l’esigua sorgente alpina li alimenta indefettibilmente, così le varie forme tradizionali emanano dalla Tradizione Primordiale per ricongiungere gli uomini al Principio Divino e ricondurli, attraverso la molteplicità delle vene acquee, alla sorgente che incessantemente le vivifica. Esse sono opera di Dio e ritornano a Lui: raggi fluviali che scaturiti dalla sorgente nascosta ed invisibile perché lontana e remota, tracciano il loro percorso tra luoghi impervii, li fecondano, danno loro vita, sfociano nell’oceano circolare che circonda la terra da ogni parte e ne assicura l’equilibrio. Si fissi il simbolo e si realizzerà la circolarità delle acque marine di cui i fiumi sono altrettanti raggi confluenti nel centro unico che è la sorgente, cioè la Tradizione Primordiale: questa è realmente il centro, il cuore della terra mentre i fiumi, cioè le varie forme tradizionali, sono le vene della terra che distribuisce l'”acqua di vita”, la linfa divina, dolce all’inizio, intorbidata da tutte le scorie e da tutti i detriti, fino a diventare amara e salata quando forma la massa oceanica che circonda la terra. Mentre l’acqua dei fiumi è dolce e bevibile, non lo è quella del mare che si deve attraversare per oltrepassare la terrestrialità ed assurgere di nuovo agli stati superiori del vero mondo i cui anelli siderei simboleggiano le approssimazioni divine.
La Tradizione Primordiale rappresenta adunque la purezza dell’insegnamento divino nella Sua espressione più genuina, più semplice, più difficile, assolutamente intellettuale, destinata agli uomini remoti di un mondo remoto ove l’aderenza al divino era più completa e sicura: si può dire quindi che essa non ha neppure una forma determinata, racchiudendo sic et simpliciter la Verità direttamente realizzabile da coloro che possono, vivendo, integrarla, perché, come abbiamo detto, tutto è sacro all’inizio nella corrispondenza dell’interno e dell’esterno che non permette alcuna immissione. Le varie forme tradizionali invece si presentano determinativamente limitate ad un’espressione fissa che non può essere che quello che è per adattarsi al momento in cui si sono manifestate e agli uomini già lontani dalla primitiva perfezione. Ma se gli uomini sono imperfetti non si deve concludere all’imperfezione delle forme tradizionali che, tutte di origine divina, offrono integralmente la verità anche mantenendo un punto di vista che è affermato come esclusivo di ogni altro per garantire la sicurezza dei risultati a cui si giunge conformandovisi.
Tutto è disposto secondo il piano provvidenziale e questa è la ragione delle forme tradizionali varie la cui successione ed il cui sviluppo si riferiscono ad un attributo del Signore, la Clemenza, per cui tutti gli uomini hanno un veicolo adatto al ritorno verso il principio da cui si sono allontanati e senza del quale la loro stessa esistenza sarebbe priva di valore o significato. Ma vi è di più: la varietà delle forme tradizionali risponde ad un’altra più profonda, esigenza, un’unità nella molteplicità, la centralità divina attraverso le divergenze dei punti di partenza, senza che le vie si confondano, poiché ogni forma tradizionale è inconfondibile come il raggio che da un punto della circonferenza va al centro ne si deflette o si unisce con gli altri raggi che provengono da altri punti. Ogni vera forma tradizionale è quindi strettamente ortodossa e la sua norma è inassociabile a quella di altre tradizioni perché in tal caso si giungerebbe ad un assurdo, la confusione dei punti di partenza, l’immistione delle vie realizzatrici, l’impossibilità di seguire un processo definitivo e risolutivo: ogni tentativo di tal genere è condannato alla sterilità perché proviene da un’unione mostruosa. Quindi si condanna da se ogni forma di sincretismo – e non mancano in quest’epoca di completa decadenza spirituale – ogni confusione di vie che proviene dall’ignoranza delle virtualità contenute in ciascuna di esse. È consigliabile perciò ed è prudente che gli uomini, per il destino delle loro anime, aderiscano alla tradizione a cui appartengono senza condannare – ciò che sarebbe assurdo – e senza occuparsi delle altre forme tradizionali per interpretarle erroneamente e cercare di confonderle con la propria. Ciò è più sicuro per essi perché la delimitazione della via garantisce la possibilità del successo, e ciò che è in gioco, il destino della propria anima, è veramente troppo importante per essere così scioccamente compromesso. Troppi sono gli elementi positivi che assicurano all’uomo il suo destino nell’ambito della sua stessa tradizione, elementi di ogni sorta, che lo sostengono, lo incitano, lo preservano dagli errori; egli è sicuro di seguire una via di cui conosce gli sviluppi, che tutti percorrono intorno a lui, a cui in fondo è destinato per essere egli nato in quel determinato ambito tradizionale. Le così dette conversioni perciò hanno quasi sempre un carattere dubbio perché sono innaturali e perfino in contrasto aperto col piano provvidenziale divino, che ha destinato a ciascuno la sua vita. S’intende che parliamo di passaggio da una forma tradizionale ortodossa a un’altra ugualmente ortodossa /… /
Quindi risulta da ciò che ogni forma tradizionale è bene conservi il suo ambito ed il proselitismo ed il persecuzionismo sono assolutamente dannosi, e, più che tali, contrari alla Provvidenza divina che ha voluto e disposto le varie forme tradizionali. Ma come abbiamo detto, tutte queste forme confluiscono in uno stesso punto che è la ragione della loro centralità.
Qui s’impone un’osservazione: l’espressione “medesimo punto” “medesimo centro” non deve far pensare a qualcosa di materialmente identico, insomma ad una pseudounità formale: il centro è Iddio e l’unità Sua è unità divina, Identità Suprema, indesignabile, ineffabile, ma assolutamente inconfondibile con ciò che l’uomo designa come tale nell’ambito delle cose sensibili, immaginabili o concepibili. Questo “punto”, questo “centro” è precisamente l’origine delle forme tradizionali, la giustificazione della loro ortodossia e del loro carattere sacro perché esse sono superumane, d’ordine assolutamente rivelatorio. Ma se schematicamente .tutte le tradizioni tracciano una linea che dall’uomo giunge fino a Dio, essa è seminata di tappe, di punti; ognuno degli uomini giunge fin dove è destinato che giunga e non oltre. Diciamo questo per sfatare l’errore così frequente dei pseudomistici moderni i quali, considerando nel modo più ingenuamente semplicistico il rapporto uomo-Dio, ignorano la complessità del processo risolutivo della creatura nel Creatore, la difficoltà del compito che la tradizione facilita ma non elimina, lasciando a ciascuno la responsabilità dello sforzo, i rischi delle cadute e l’autonomia nella scelta del proprio sentiero.
“Ars una, species mille”! Se è vero che “chi s’aiuta Iddio l’aiuta” non è meno vero che bisogna cominciare ad aiutarsi per sollecitare l’aiuto divino: si potrebbe dire che Dio sia vicino a coloro che salgono a Lui facendo della loro morte il principio della vera vita di modo che vi è un doppio processo dall’umano a divino e dal divino all’umano – absit iniuria verbis! – fino al limite d’intersezione tra l’umano e il divino, punto cruciale, risolutivo, nel quale l’umano si dilegua e rimane il divino onde si inizia solo di qui l’ascensione vera e propria nel modo soprannaturale.
Questi accenni alla complessità della realizzazione fanno comprendere l’ampiezza di ogni forma tradizionale che tende a fare della vita un rito per avvicinarsi alla purezza della Tradizione Primordiale e lancia un’infinità di ponti, semina una infinità di “sostegni”, distingue un’infinità di “sentieri” per permettere a tutti gli uomini che seguono la via di Dio di realizzare una perfezione connaturata alle loro possibilità. Ogni passo in questa via, ogni progresso, per piccolo che sia, è enorme in rapporto alla semplice condizione dell’uomo a-tradizionale o anti-tradizionale il quale vive profanamente, fuori del tempio di Dio, ed aumenta il cumulo dei residui umani che costituiscono una specie di sentina eterna, serbatoio di detriti cosmici, precipitazione infera permanente. Mentre affermiamo la necessità che le varie forme tradizionali rimangano inconfondibili e nettamente autonome per la diversità e la varietà del punto di partenza che determina la direzione del raggio centripeto e l’impossibilità di sovrapporre, assimilare, sincretizzare la norma di sviluppi tradizionali differenti, dobbiamo però risolutamente affermare che è possibile – a pochissimi soltanto – porsi ad un punto di confluenza tradizionale ove il processo unipeto appare in tutta la sua evidenza e le varie forme tradizionali sfociano nella Tradizione Primordiale che le comprende perché è la più alta, la più pura, la più diretta e risolutiva. Questo punto deve necessariamente essere lontano dal termine iniziale del processo, cioè dalla circonferenza da cui parte il raggio o asse tradizionale, perché, come abbiamo detto, la visione unificatrice è qui impossibile senza confondere o imbastardire la direzione tradizionale. Questo punto sarà lontanissimo dal punto di partenza, anzi sarà il più lontano di tutti i punti del raggio che dalla circonferenza va fino al centro: questo punto è il centro stesso ove tutte le Forme Tradizionali confluiscono. Solo nel centro si opera l’unificazione nell’asse unico della Tradizione Primordiale e tutte le prospettive, pur rimanendo differenti e distinte, rivelano l’essenza della Verità divina una e indivisibile.
Nell’impossibilità di dare un’immagine adeguata a ciò che per sua natura è inesprimibile, si pensi ad una sorgente unica di luce che si riflette e riflettendosi si sfaccetta, s’irida, si divide e da ciascuna di queste nuove luci s’irradia, s’estende, e circolarmente ritorna alla sorgente da cui è nata. Coloro che si pongono al centro risolvono la varietà prismatica nell’unità tradizionale e seguono nei vari raggi e nei punti disseminati lungo questi raggi, cioè nelle varie forme tradizionali, corrispondenze certe, sicure, hanno di tutte queste forme una visione integrale, completa, radicale e ne comprendono esattamente la natura, ne scorgono le strutture più intime, i segreti più riposti.
Indubbiamente una visione integrativa simile costituisce l’apice della realizzazione tradizionale e implica la conoscenza dei simboli di cui ogni forma tradizionale fa uso per l’impossibilità di esprimere certe verità e di farne sentire il valore ed il senso profondo se non simbolicamente. Questa visione è riservata a pochissimi e questi pochissimi sono i Maestri: attualmente ne conosciamo uno solo.
Riponendosi nell’asse assoluto della Tradizione Primordiale da cui tutte le forme tradizionali si fanno permeabili, trasparenti, si giunge alla multivisione riservata alla centralità consapevole e realizzatrice ove ogni processo, ogni simbolo, ogni stato, è ricondotto alla sua natura vera in una comprensione unipeta che attraversa strato su strato, parificando e per così dire assificando tutto il complesso tradizionale. Più che una visione, questa è un’integrazione realizzatrice che coglie tutte le voci del coro tradizionale e le unifica, le modula, in una teodia immensa ed unitonale. Questa realizzazione è veramente il segreto dell’unità tradizionale, la riduzione delle divergenze nell’equilibrio assiale ove la Tradizione di tutte le Tradizioni è l’espressione diretta della faccia di Dio contemplata immediatamente, risolutivamente dinanzi al trono della maestà divina fin dove può giungere lo sguardo epurato da ogni nebbia umana. Un progresso ulteriore è necessariamente meta-tradizionale perché si compie senza compiersi, senza passaggio, senza ascesa, senza gradi, spontaneamente, in uno sbocciare di luce in luce prima, in uno sprofondare di tenebra in tenebra poi, fino alla soglia dell’Identità Suprema.
Su questa soglia la tradizione si dilegua perché nulla vi è più da insegnare, nessuno più da guidare, né maestro, né discepolo, né adorante, né adorato, né meta, né fine, né amante, né amato, né via che meni, né centro a cui si tenda, ma vi si consuma la transfigurazione di Colui che creando distrugge e distruggendo crea, di Colui che immillandosi permane uno, uno dell’uno nell’uno, Dio di Dio in Dio, Santo, Santo, Santo.
Questo è veramente il termine della conoscenza integrale, della scienza sacra che, dalla Tradizione Primordiale alle varie forme tradizionali che l’esprimono, fu di età in età trasmessa per opera dei sacerdoti dello spirito agli uomini perché l’umanità e il mondo non siano un vincolo né una prigione né una caduta, ma il luogo stesso ove, vinta la morte, s’opera la resurrezione della carne nel nome, nel segno e nella legge di Dio.


3. IL DIO PRIMORDIALE E TRIPLICE
Corrispondenze esoteriche ed iconografiche nelle tradizioni antiche
a cura di Marco Maculotti (Axis Mundi)
Nelle tradizioni antiche di tutto il mondo si trova riferimento a un dio delle origini, venuto in esistenza prima di ogni altra cosa, creatore di tutto ciò che è manifesto e ugualmente di tutto ciò che è immanifesto. Le più disparate tradizioni mitiche dipingono il dio primordiale come contenente tutte le potenzialità e le polarità dell’universo, luce e tenebre, spirito e materia, e così via. Per questo, viene spesso rappresentato con due volti (Giano bifronte) se non addirittura con tre (Trimurti indù). Tuttavia, il più delle volte egli è considerato invisibile, nascosto, difficilmente rappresentabile se non in una forma allegorica, esoterica, che fa sovente riferimento all’unione del principio luminoso e igneo, ‘maschile’, con quello oscuro e acqueo, ‘femminile’. Nelle tradizioni di tutto il mondo, tale dio primordiale non viene onorato con un culto proprio, dal momento che si ritiene che ormai viva troppo lontano dall’uomo e gli affari umani non lo riguardano: per questo, si parla spesso di questa divinità massima come di un deus otiosus.
Tradizione Mexica
Nella tradizione mexica, il primo dio a venire all’esistenza fu Ometeotl, il ‘Signore Due‘, creatore di tutte le cose e reggente del tredicesimo cielo: egli conteneva i semi di qualunque dualità e polarità esistente in potenzialità nel cosmo. A sua volta, questi si è diviso in illo tempore in una parte femminile (Omecíhuatl) e in una maschile (Ometecuhtli). Nella percezione mesoamericana troviamo dunque un dio primordiale ed unico, che veniva considerato otiosus perché viveva al culmine della creazione, nel 13° cielo, dal quale emergono in seguito due porzioni dell’essenza stessa del dio e cominciano nuovamente una lunga catena di creazione di nuovi enti divini, a loro sottoposti.
Tradizione Germanica
Riguardo alla tradizione ario-germanica, Guido von List rilevò che il dio primordiale ed invisibile è denominato Surtur («stabile nel primordiale» o «stabile nell’eterno») «lo Scuro», al tempo stesso la sostanza primordiale e il ‘Grande Spirito’ che aleggia sulle tenebre dell’abisso primordiale, lo ‘spirito della salvezza’, duplice mistero che si sviluppa in seguito come ‘duplice unità’, ripartendosi in una polarità maschile (Allsatur, Padre Universale, il primo Logos, vale a dire il dio manifestatosi come ‘Spirito del Mondo’, creatore di ogni cosa, demiurgo) e in una femminile (Hyle, materia/elemento primordiale, matrice cosmica di ogni essere, Grande Dea Madre). Gli insegnamenti esoterici dell’armanismo ricostruito da List contemplavano quindi «una tripartizione, o meglio un triplice stato del concetto di Dio, per cui il dio originario era rappresentato come androgino, ossia bisessuato» (La religione degli Ariogermani, p.36). In una prima fase della creazione, prosegue List, questo dio occulto si manifesta proprio con il movimento, partendo da se stesso, rivelandosi come primo Logos, emanando in seguito da sé i primi quattro elementi. List chiama Surtur «incommisurata forza latente […] causa originaria incausata […] causa originaria impersonale […] ‘il dio nascosto‘ […] spirito impersonale, immateriale, che è allo stesso momento tempo e spazio».
Tradizione Celtica
Le popolazioni celtiche dell’Europa continentale adorarono come dio supremo Lugos o Lug («luce»—ma si noti anche l’assonanza con «Logos»), che Giulio Cesare nel De bello gallico fa corrispondere (piuttosto superficialmente) al Mercurio romano. Egli è spesso rappresentato con tre volti, come il Brahma indù, che stanno a significare l’unione degli opposti presenti nella sua divinità assoluta. Si tratta dell’equivalente celtico di Odino che, come apprendiamo da Jean Markele, mantiene la caratteristica duale del dio primordiale ario-germanico Surtur, quasi per un passaggio di consegne (Il druidismo, p.82):
« Essendo ad un tempo Tuatha e Fomori, Lug partecipa di una doppia originale natura, ciò che gli darà il suo carattere eccezionale e, in ultima analisi, al di fuori di ogni classificazione. In effetti, non solo egli ha, dei Tuatha Dé Danann, la potenza organizzatrice, socializzata e spiritualizzata all’estremo, ma vi aggiunge, dei Fomori, la forza bruta, istintiva, non organizzata ma terribilmente efficace. Lug è una vera sintesi di due forze che si oppongono e si combattono. È l’incarnazione stessa di un monismo filosofico, la constatazione personalizzata del rifiuto celtico del principio della dualità. »
Markele ci informa anche che dal dio prende il nome la città di Lione (assonanza con il leone, da tenere a mente quando troveremo dèi equivalenti dotati del simbolismo leonino). L’animale sacro a Lug tuttavia è il corvo; l’autore spiega con queste parole il perché di questo apparente paradosso (pag.86):
« Il nome Lug è indubbiamente in rapporto ad una radice che significa ‘luce’ e ‘biancore’ (greco leukos, latino lux) e il corvo, per il suo colore nero, sembra esprimere maggiormente la notte o l’oscurità. »
In Lug, quindi, coincidono e convivono i due principi supremi, luce ed oscurità, organizzazione e forza bruta. A buon diritto, dunque, egli è visto da Markele come il dio primordiale e supremo delle antiche popolazioni celtiche.
Tradizione Indiana
Come è risaputo, la Trimūrti indiana incarna i tre principali aspetti divini, manifestati nelle forme di tre importanti divinità archetipiche: Brahma il Creatore, Shiva il Distruttore e Vishnu il Conservatore, spesso concepiti come un’unica divinità (da ciò la rappresentazione di un solo dio con tre teste o volti; sanscrito: trishiras, «triplice testa»). Secondo la tradizione indù, questa triade di figure divine equivale a tre aspetti differenti dello stesso e unico dio primordiale (a volte chiamato Īśvara dagli śivaiti). In alcune narrazioni mitiche si dice che questi primi tre dèi siano nati dall’uovo primordiale deposto da Ammavaru all’inizio dei tempi.
I tre dèi primordiali indù sono anche associati ai guna, vale a dire le tre qualità costitutive di tutto ciò che esiste nel cosmo: Brahma è associato alla guna Rajas, Vishnu alla guna Sattva e Shiva alla guna Tamas. Ad essi sono anche associati gli elementi primordiali: Brahma rappresenta l’Aria, creatrice di vita, che feconda la Terra (la dea, variamente denominata); Vishnu l’acqua, che mantiene la vita; Shiva il fuoco che continuamente distrugge e trasforma. Tuttavia, le corrispondenze con le tre funzioni e gli elementi varia a seconda delle varie tradizioni locali: a volte la funzione creativa spetta a Shiva e quella distruttiva a Brahma. Presso altri popoli Vishnu assurge allo stato di divinità suprema relegando gli altri due aspetti a sue funzioni. Nel Kashmir e in alcune zone dell’India meridionale, invece, gli śivaiti adorano Shiva come incarnazione del triplice principio dell’intera Trimurti: ciò artisticamente viene reso mostrando il corpo di Shiva e Vishnu e Brahma che escono rispettivamente dal suo fianco sinistro e destro.
In più, la tradizione śivaita riconosce anche la divisione originale del dio in due manifestazioni, una invisibile e creativa (Shiva, il dio) e una visibile e ricettiva (Shakti, la dea). A tal riguardo, facciamo notare che anche l’antichissimo dio vedico Varuna contiene al suo interno i due aspetti maschile e femminile dell’intelligenza divina, come si comprende dall’analisi dell’etimologia del suo nome originario Ua-ra-ana, ‘figlio e figlia della (dea madre) Ana’, vale a dire polarità maschile e polarità femminile originati dalla sostanza primordiale cosmica, al tempo stesso spirito e materia (Mario Zisa, Storia della dea madre e della triade primeva).
Tradizione Romana: Giano
Per gli antichi Romani il dio primordiale è Giano (Ianus) bifronte, i cui epiteti sono «dio degli inizi», «dio degli dèi», «padre degli dèi», «padre del mattino» (l’animale sacro al dio è il gallo, animale solare che con il suo canto inaugura il giorno). Settimio Sereno lo chiama «principio degli dèi e acuto seminatore di cose». Varrone riporta per Giano l’epiteto di Cerus (cioè «creatore»), perché «come iniziatore del mondo Giano è il creatore per eccellenza». Il console e augure Marco Valerio Messalla Rufo scrive nel libro sugli Auspici che Giano è colui «che plasma e governa ogni cosa» e che «unì circondandole con il cielo l’essenza dell’acqua e della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell’aria, leggera e tendente a sfuggire verso l’alto», aggiungendo che «fu l’immane forza del cielo a tenere legate le due forze contrastanti». È interessante notare che gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento: Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire («andare»), perché secondo Macrobio «il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da se stesso a se stesso ritorna».
Per quanto riguarda l’aspetto strettamente iconografico del dio, egli tiene nella mano destra la verga (o lo scettro) e nella sinistra le chiavi. Guido de Giorgio nota che la duplicità degli aspetti di Giano, qualunque forma essa prenda, non decompone l’unità sostanziale della sua divinità; ciò, secondo l’autore, è un riferimento alla Tradizione Primordiale rappresentato «dall’unità dei due aspetti o se si vuole da una terza faccia di Giano che non è visibile, né può esserlo, in cui si neutralizzano le due visibili» (La Tradizione Romana, p.182, corsivo nostro). Questo terzo volto del dio equivale al «dio nascosto» di moltissime tradizioni arcaiche, creatore di ogni cosa e generatore in primo luogo dei principi primordiali maschile e femminile, attivo e passivo, spirituale e materiale, spaziale e temporale. Ma, mentre le manifestazioni dualistiche che procedono dal Principio sono visibili nella rappresentazione delle due facce visibili del dio, la terza rimane necessariamente invisibile, giacché contenendo virtualmente ogni potenzialità dell’essere, tutto e il contrario di tutto, non può essere rappresentata. Citiamo de Giorgio stesso (p.182):
« La bifacialità di Giano rappresenta l’equipollenza e l’equivalenza dei contrari nell’unità sostanziale e invisibile del dio. Così, se si parla di passato e futuro, il termine neutro di risoluzione sarà il presente che non esiste nel tempo, ma solo nell’eternità: in altri termini, la bifacialità suppone l’afacialità che la comprende e che è il Supremo fra i due estremi. »
Questa bifacialità (o trifacialità, come la trimurti indù) che caratterizza solo Giano tra tutti gli dèi degli antichi latini, lo rende indubbiamente il dio primordiale ed originario della teogonia romana. Su ciò è d’accordo anche lo stesso de Giorgio (p.184):
« Giano è il dio per eccellenza perché rappresenta il veicolo che guida gli altri dèi: ora, se questi sono simboli di forze cosmiche determinate, egli, nella sua indeterminatezza che permette ogni determinazione, deve concepirsi come il principio divino e il fondamento più profondo della Tradizione Romana. »
Inoltre, l’Autore fa notare che «il rapporto tra Saturno e Giano era così stretto che al primo era consacrato il mese di Dicembre e al secondo quello di Gennaio» (La Tradizione Romana, p.181); si tenga conto di ciò quando, tra poco, analizzeremo il connubio tra Aion e Crono nella teogonia degli antichi Greci. Ma ora vediamo cosa tramandavano i Misteri Orfici riguardo al dio delle origini.
Tradizione dei misteri orfici: Phanes
Nella cosmogonia orfica il dio primordiale è denominato Phanes (dal greco antico Φανης Phanês, «luce») e ha gli epiteti di Protogonos («il primo nato») e Erikepaios(«donatore di vita»): si tratta, dunque, di una divinità primigenia della procreazione e dell’origine della vita. Secondo il mito, Phanes emerse agli albori dell’universo dall’uovo cosmico deposto da Chronos (il Tempo) e Ananke (la Necessità) quale principio primo ed unico. Era ermafrodito, fu il primo Re del Cosmo e da Egli si generò tutto. Successivamente, disinteressato al dominio (in quanto era ogni cosa e, dunque, non avrebbe potuto comandare su nulla che non fosse Egli stesso) cedette lo scettro a sua figlia Nyx, la Notte, che a sua volta lo cedette a Urano. Sia la rappresentazione iconografica del dio quanto i miti che lo riguardano lo denotano come il puer divino per eccellenza: la prima scintilla del Logos che ha dato il via alla creazione. Si tenga conto che uno degli ermetici frammenti del filosofo Eraclito (fr. 52), riguardanti il dio Aion (che analizzeremo subito sotto) recita:
« Aion è un fanciullo che gioca muovendo i pezzi sulla scacchiera: a un fanciullo appartiene il potere sovrano. »
Il simbolo del puer divino nato dall’uovo cosmico, sebbene con i necessari adattamenti allo zeitgeist che di volta in volta si presenta, è sopravvissuto nei millenni, figurando nel mito di Horus come in quello di Gesù, «il primo nato», «figlio unigenito di Dio», «nato senza concepimento»: egli è il primo e l’ultimo, l’alpha e l’omega, esattamente come Giano e Aion. Nel V secolo si diffonde la credenza del Cristo pantokrator, principio organizzatore del cosmo, generato e non creato da Dio Padre, la chiave di comprensione della realtà e la risposta al mistero dell’esistenza. Gesù, come precedentemente molti altri dèi, assurge a simbolo del Logos incarnato, ragione e struttura del cosmo. Non solo: parlando del simbolo del puer divino, esso tutt’oggi sopravvive persino nella cultura profana. Un esempio di ciò si può ritrovare nella scena finale del film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello Spazio, in cui l’astronauta protagonista, ormai al culmine della sua epopea cosmica, da vegliardo (Kronos, omega) nuovamente rinasce nello spazio infinito sotto le sembianze di un bambino di luce contenuto nell’uovo cosmico (Aion, alpha). Ma non divaghiamo e passiamo ad analizzare il suddetto Aion.
Tradizione Ellenica: Aion
Se Phanes era un dio primordiale dei misteri orfici, nel resto della penisola ellenica della tarda antichità il dio primordiale ed omnicomprensivo era denominato Aion (in greco antico αἰών, «eone»). Secondo la studiosa di miti, simboli e alchimia Marie-Louise von Franz, allieva di Jung, Aion è nei misteri mitraici il «guardiano dei cancelli»; a supporto di ciò fa notare come sia raffigurato con in mano uno scettro e una chiave (attributi, peraltro, anche di Giano). Aion era considerato il dio del tempo infinito, creatore e distruttore di ogni cosa. Uranos e Kronos erano le sue due manifestazioni primarie: ad Urano (il cielo, lo spazio) si riconosceva una funzione creativa, a Crono (il tempo) una funzione distruttiva.
L’inno orfico dedicato a Crono lo definisce «padre degli dèi beati e degli uomini», «universale genitore del tempo», «origine, sviluppo e tramonto» (funzione creatrice, funzione conservatrice, funzione distruttrice). L’orante si rivolge a lui con queste parole: «tu che consumi tutte le cose e di nuovo tu stesso le accresci», «tu che possiedi gli indistruttibili vincoli del mondo infinito», «tu che abiti in tutte le parti del mondo». Sembrerebbe invero di leggere un inno a Shiva, il quale «nella pienezza del tempo, sempre danzando, distrugge tutte le forme e tutti i nomi col fuoco, dando inizio ad una nuova pausa» (A.K. Coomaraswamy, The Dance of Shiva). Tornando all’ambito greco, dall’inno orfico si evince come Crono e Aion siano lo stesso dio, con la sola differenza che Aion appare essere la manifestazione primordiale di Kronos, precedente alla partizione originaria tra spazio e tempo, spirito e materia, luce e oscurità. Se, infatti, Aion è il tempo infinito (originariamente non-separato dallo spazio), Kronos è invece il tempo finito, ciclico ed inesorabile, portatore di morte e distruzione (il simbolismo della falce). Le corrispondenze con la trimurti hindu (Brahma-Aion, Vishnu-Urano, Shiva-Crono) sono più che evidenti e non necessitano di ulteriori spiegazioni.
Marie-Louise von Franz riporta anche un’invocazione ad Aion (L’esperienza del tempo, p.12) contenuta nei Papyri Graecae Magicae, che così recita:
« Io ti saluto, tu che riempi l’intera struttura dell’aria, spirito che si estende dal cielo alla terra… e ai confini dell’abisso… spirito che penetra anche me e mi fa risorgere […] immensa, circolare, misteriosa forma dell’universo, spirito celeste, spirito etereo, terrestre, ardente, ventoso, spirito delle tenebre… della luce, che splendi come una stella… Signore, dio di Aion, padrone di ogni cosa. »
In questa invocazione, Marie-Louise von Franz riconosce «un’immagine dell’aspetto dinamico dell’esistenza», di ciò che oggi potremmo chiamare un «principio di energia psicofisica». Tutti gli opposti (cambiamento e durata, tempo e spazio, luce e tenebre, vita e morte, spirito e materia) sono racchiusi in questo principio cosmico primordiale (p.12). Questa duplicità si ritrova, secondo la Franz, anche nella raffigurazione iconografica del dio (p.23):
« La sua testa di leone sta a indicare l’estate e la sua natura ardente; il serpente il suo aspetto invernale e umido. Spesso il suo corpo o il serpente recano incisi i segni dello zodiaco. I fedeli lo invocano come l’anima del mondo, come uno spirito omnicomprensivo, luce e oscurità, sovrano di tutte le cose. Per l’iniziato egli è il Signore della Luce che apre i cancelli dell’aldilà. »
Inoltre, secondo l’Autrice, i greci con «aion» non intendevano unicamente il dio primordiale, ma anche l’anima immortale che anima i recessi di ogni individualità cosciente, l’alito vitale che sopravvive alla morte fisica, il pneuma. Infatti, secondo l’autrice, aion (p.10):
« […] originariamente stava a indicare il fluido vitale presente negli esseri viventi e, di conseguenza, la durata della loro vita e il destino ad essi assegnato. Questo fluido seguitava a vivere anche dopo la morte, assumendo la forma di un serpente. Era una ‘sostanza generatrice’, così come lo era tutta l’acqua presente sulla terra e in particolare Oceano-Crono, il creatore e distruttore di ogni cosa. Il filosofo Ferecide insegnava che la sostanza basilare dell’universo era il tempo (Crono), dal quale derivavano il fuoco, l’aria e l’acqua. »
Tradizione Persiana: Zurvan
È inevitabile notare l’incredibile somiglianza iconografica esistente fra Aion e numerosi altri dèi delle più disparate culture antiche. Del tutto identico ad Aion è innanzitutto il persiano Zurvan (o Zervan) dio del tempo e del destino, che nella teogonia iranica viene posto addirittura in una posizione superiore a quella di Ahura Mazdā e di Ahrimane, i due principi primordiali, rispettivamente del bene e del male. Zurvan starebbe dunque ad Aion (e a Brahma) come Ahura Mazdā sta a Urano (e a Vishnu) e Ahrimane a Crono (e a Shiva). Anche la Franz conferma che in epoca ellenistica Aion-Crono veniva identificato con Zurvan, aggiungendo inoltre che gli antichi Persiani distinguevano due aspetti di questa suprema divinità: Zurvan akarana (il «Tempo Infinito», equivalente dunque all’Aion vero e proprio) e Zurvan dareghōchvadhata («il Tempo del Lungo Dominio», equivalente a Crono). Quest’ultimo era la causa della decadenza e della morte e talvolta era identificato con Ahrimane, il principio del male (p.12).
Tradizione gnostica: Abraxas
Nei misteri gnostico-mitraici il dio supremo è Abraxas, il quale presso la tradizione persiana arriva a simboleggiare l’unione/totalità fra Ahura Mazdā ed Arimane: Abraxas è dunque equivalente a Zurvan akarana, ad Aion, a Giano (non a caso viene raffigurato con la testa di gallo, l’animale degli inizi, sacro anche al dio primordiale latino). Al posto delle gambe Abraxas ha due serpenti: in questo modo la coesistenza del principio maschile/solare/luminoso/creativo/estivo/secco (leone o gallo) e di quello femminile/lunare/oscuro/distruttivo/invernale/umido (serpente) è pienamente rispettata. Anche Carl Gustav Jung ha studiato l’archetipo di Abraxas, concludendo che il dio rappresenta la causa prima di ogni manifestazione e al contempo la stessa materia informe, precedente a ogni ordine e forma. Abraxas, secondo Jung, è la radice del tutto e di ogni dualità, dal momento che ogni manifestazione dell’essere altro non è che un aspetto scisso o percepito del suo dinamismo. Con questa iperbole poetica Jung parla di Abraxas:
« Abraxas pronuncia la parola santificata e maledetta che è vita e morte insieme. Abraxas genera verità e menzogna, bene e male, luce e tenebra, nella stessa parola e nello stesso atto. Perciò Abraxas è terribile. È splendido come il leone nell’attimo in cui abbatte la preda. È bello come un giorno di primavera. Sì, è il grande Pan in persona e anche il piccolo. È Priapo. È il mostro del mondo sotterraneo, un polipo dalle mille braccia, nodo intricato di serpenti alati, frenesia. È l’ermafrodito del primissimo inizio. È il signore dei rospi e delle rane che vivono nell’acqua e calpestano la terra, che cantano in coro a mezzogiorno e a mezzanotte. È la pienezza che si unisce col vuoto. È il santo accoppiamento, è l’amore e il suo assassinio, è il santo e il suo traditore. È la luce più splendente del giorno e la notte più oscura della follia. Vederlo significa cecità. Conoscerlo è malattia. Adorarlo è morte. Temerlo è saggezza. »
Tracce del culto di Abraxas sono rinvenibili non solo nella psicologia del profondo ma anche nella letteratura del Novecento: nel suo romanzo iniziatico Demian, lo scrittore tedesco Hermann Hesse (amico intimo di Jung, profondamente influenzato dalle sue visioni) riassume in poche parole l’intero complesso simbolico proprio del dio:
« L’uccello lotta per uscire fuori dal suo guscio. L’uovo rappresenta il mondo. Chi vuole rinascere deve distruggere il vecchio mondo precedente. L’uccello vola alto in direzione della divinità… Dio si chiama ABRAXAS. »
Altre corrispondenze simboliche iconografiche
Continuando con le corrispondenze iconografiche giungiamo in Africa, nel Basso Egitto, dove gli antichi nubiani adoravano Apedemak, un dio rappresentato con un triplice volto leonino e quattro braccia, che essi consideravano sposo di Iside.
Un’altra impressionante corrispondenza iconografica la ritroviamo, nuovamente, in India: stiamo facendo riferimento a quel misteriosissimo dio denominato Ekapada, una manifestazione suprema di Shiva che viene raffigurato come un essere antropomorfo, talvolta dal volto leonino, reggente una fiaccola (allo stesso modo di Aion e Phanes) oppure, in alternativa, con tre gambe o ancora con due figure, rappresentanti Brahma e Vishnu, che fuoriescono dal suo corpo. Ad Alessandria d’Egitto, nel periodo tolemaico, l’iconografia di Aion venne ripresa nel culto di Serapide. Tuttavia, a questo punto della storia, il simbolismo sacro del dio primordiale era probabilmente già stato dimenticato e la prova si rinviene nelle molteplici interpretazioni del dio, inizialmente equivalente all’Ea semitico, poi equiparato di volta in volta con Zeus, Ade, Helios, Dioniso ed Asclepio.
Conclusione
Abbiamo così analizzato la simbologia esoterica e le corrispondenze iconografiche in alcune delle più antiche tradizioni religiose. Altre culture avrebbero potuto essere citate, come quella sumera e quella egizia, o le narrazioni mitiche sul dio primordiale da parte delle popolazioni indigene della Melanesia o di altre popolazioni ancora. Tuttavia, per il momento ci fermiamo qui, facendo notare come, in tutte le tradizioni che abbiamo analizzato, ovunque troviamo lo stesso triplice pattern:
- All’inizio vi è un dio primordiale, duplice ma indifferenziato, al tempo stesso spirito e materia, tutto e il contrario di tutto;
- Successivamente avviene l’emanazione dal Dio Primordiale di una polarità creativa/maschile/luminosa/spirituale e
- di una distruttiva/femminile/tenebrosa/materiale.
A volte la trinità viene presentata come un unico dio con tre volti (Brahma). Altre volte vengono rappresentati gli aspetti maschile e femminile del dio (Shiva-Shakti) e l’aspetto originario indifferenziato non si può in alcun modo rappresentare se non per simboli (Phanes, Aion, Abraxas). Altre ancora il dio primordiale viene rappresentato ermafrodito, al tempo stesso maschio e femmina (l’Androgine, a tal proposito si veda Mircea Eliade, Mefistofele e l’Androgine). In più di un mito, il dio delle origini nasce da un uovo cosmico; in questo senso, vi è un filo rosso che parte dal mito orfico di Phanes per giungere a quello, sempre ellenico, della Fenice che rinasce dalle proprie ceneri.
In tutte le tradizioni, dopo la partizione primordiale il dio originario si ritira, cede il suo dominio al principio maschile e diventa un deus otiosus. Così, per esempio, Varuna cede la sovranità a Indra, Aion a Kronos, Giano a Saturno, Surtur a Allsatur e via dicendo. La bipartizione in due polarità del dio primordiale—e la conseguente tripartizione dell’essere in tutti i suoi piani, mistero universale su cui si fonda anche il dogma cristiano della SS.Trinità—è, d’altra parte, il fondamento su cui si basano gli insegnamenti esoterici di un’immensità di tradizioni antiche, non solo di provenienza indo-europea come sosteneva George Dumézil. Come ulteriore esempio di ciò menzioniamo la triade suprema dell’albero sephirotico della Kabbalah ebraica, formato da Kether (principio indifferenziato, Dio Supremo), Chockmah (principio maschile, Dio Padre) e Binah (principio femminile, Dea Madre). Le singole tradizioni, i nomi degli dèi e le denominazioni cambiano, ma le più sacre verità della Tradizione primordiale sono ancora vive dietro il velo di maya, in attesa di essere trovate dai viandanti più instancabili.
Bibliografia:
- Guido de Giorgio, La Tradizione Romana (Mediterranee, 1973).
- Marie-Louise von Franz, L’esperienza del tempo (Tea Due, 1997).
- Guido von List, La religione degli Ariogermani e Urgrund (Settimo Sigillo, 2008).
- Jean Markele, Il druidismo—Religione e divinità dei Celti (Mediterranee, 1991).
- Mark S.G. Dyczkowski, La dottrina della vibrazione nello śivaismo tantrico del Kashmir (Adelphi, 2013).
- Yolotl Gonzalez Torres, Il culto degli astri tra gli Aztechi (Mimesis, 2004).
- Mircea Eliade, Mefistofele e l’Androgine (Mediterranee, 1971).
- Gabriella Ricciardelli (a cura di), Inni Orfici (Mondadori, 2000).


