a cura di Edoardo Di Giovanni
«Non si tratta, ripeteva Guénon, di essere persuasivo, ancor meno soggiogante, ma semplicemente di “dire ciò che è” senza immischiarvi la propria volontà, le proprie conoscenze, la propria abilità; senza l’intrusione di elementi estranei. Si pensi alla lettura recto tono o alla tradizione buddista che raccomanda ai Maestri spirituali di impartire i propri insegnamenti con voce neutra, senza sbalzi di tono; il timbro deve essere uguale fino alla monotonia. Se qualche inflessione venisse a interrompere la piattezza della loquela, l’attenzione del discepolo rischierebbe di esserne sollecitata. Ma il Maestro deve evitare di proiettare se stesso davanti alle sue parole. Allora, per maggior sicurezza, alcuni avranno cura di parlare nascondendo il viso dietro un ventaglio, in quanto l’adesione è dovuta solo alla verità, mai ai falsi prestigi dell’eloquenza né alle sembianze di un’individualità. René Guénon parlava dietro un ventaglio.
Certo, Guénon non ha mai preteso di essere un’istruttore spirituale e ancor meno un santo. Ma non ho mai avuto l’impressione che avesse cancellato dal suo viso l’espressione del sacro. L’uomo nella sua discrezione era in realtà al di qua o al di là dell’individuale, e questo fin nel dettaglio più banale della vita quotidiana. Ogni residuo psichico o mentale sembrava abolito, restava solo un’anima di una totale trasparenza. Ma niente ascesi, niente estasi; quella purezza era senza fronzoli, spontanea, quasi terra terra. In tutta semplicità, René Guénon era diafano. La sua conversazione era spesso banale, senza effetti di stile. Si trattava solo di “dire ciò che è”. I soli ornamenti erano le citazioni alla maniera orientale, di proverbi edificanti o di espressioni tradizionali, come: “Tutto perirà tranne il volto di Dio”. Per René Guénon, ciò che è, è il volto di Dio. Dire ciò che è, significa descrivere i riflessi di quel Volto nei Veda o nel Tao Te Ching, nella Kabbala o nell’esoterismo mussulmano, nelle mitologie o nei simboli dell’arte cristiana medievale. L’uomo spariva dietro la dottrina tradizionale.
Quando Guénon prendeva in mano la penna, adempiva alla sua funzione; era allora un porta-voce della Tradizione e si mostrava di un rigore assoluto e puntiglioso. Una volta terminata la pagina, la sua grande occupazione consisteva nel giocare con i bambini e nell’accarezzare i gatti che si accovacciavano vicino alla sua poltrona. La prima impressione che dava nel suo piccolo salotto borghese del Cairo, malgrado la sua veste araba, per altro molto semplice, era quella di un professore di Facoltà, filosofo od orientalista. Impressione sconcertante poiché non stimava né gli uni né gli altri. Sul viso allungato, alla spagnola, gli occhi apparivano fuori posto, come se fossero stati aggiunti. Troppo grandi, sembravano di provenienza estranea, venuti da un altro mondo, e giustamente cercavano altrove, come gli occhi di alcuni cavalieri che ne “La Sepoltura del conte di Orgaz” di El Greco, non stanno vicino al feretro ma nella parte superiore del quadro, con gli angeli e il Cristo.
Occorre rimarcare soprattutto la capacità di ascolto di Guénon. Ascoltava il silenzio con molta maggior attenzione di qualunque altra cosa. Quest’uomo che i suoi lettori consideravano perentorio, aveva l’atteggiamento naturale di colui che interroga. Molti lo seguivano perché offriva loro ragioni per ribellarsi. Ma la critica non era lo scopo ultimo di Guénon; era necessaria solo per rispettare la Tradizione e per esporla con chiarezza che gli accadeva accidentalmente di aggredire alcune idee per loro stessa natura effimere. Il distruttore di idoli era in realtà un uomo rispettoso; il ferro e il granito esplodevano sulla mina del più discreto dei dinamitardi. Il tono che manteneva durante una conversazione, per constatare i danni causati dall’occultismo o dai progressi dello scientismo, non era né di rivolta né di indignazione. Non fulminava, ma in tutto il suo atteggiamento c’era come l’imbarazzo di qualcuno che aveva appena assistito ad uno spettacolo sconveniente. Mi ricordo la sua espressione il giorno in cui i gatti strapparono un fascio di manoscritti; o il giorno in cui Chacornac era in ritardo per la pubblicazione di un testo. Era esattamente lo stesso stupore amareggiato.
Rispetto, discrezione; quella sua maniera di apparire confuso era una forma di pudore, qualità frequente in Oriente che René Guénon portava al più alto livello fino a farne una sorta di cortesia metafisica. Niente lo esprimeva meglio delle benedizioni che con semplicità disseminava nelle sue conversazioni, con la stessa semplicità che, anche a tavola, dava un valore rituale alla divisione del pane, al gesto per salarlo, all’offerta che vi faceva nel tendervi un piccione grigliato.
Questo l’episodio che sarebbe stato per me l’ultima sua immagine: in piedi, nel giardino, accanto alla moglie, lo Shaykh Abd el-Wahid (era il nome arabo di René Guénon) le fa ripetere, dopo averla detta egli stesso, la formula di benedizione e di augurio per il ritorno dell’ospite. Sono ritornato, ma per i funerali. Ed era la stessa semplicità: un cimitero popolare, qualche familiare, e le due piccole figliole che si rincorrono».
(Pubblicato in: “René Guénon et l’actualité del pensée traditionelle”, Edition du Baucens, 1977, pp. 45-47)

