di Filippo Goti
C’è un elemento aristocratico, nel quale sopravvive qualche cosa dello spirito originale della religione iranica, nella credenza di Mani in un’immutabilità interiore della Luce, la quale nella soddisfazione di sé non dà motivo al divenire e può accettare come stato naturale delle cose la frattura profonda dell’essere insieme all’esistenza di una Tenebra che infuria in se stessa, finché, naturalmente, infuria soltanto dentro di sé. Anche nella maniera in cui la Luce minacciata reagisce di fronte alla necessità di battaglia e alla prospettiva di una disfatta e del sacrificio, sopravvive il coraggioso spirito dell’antico dualismo iranico, seppure nella trasformazione gnostica, ossia anti-cosmica.
Ora, se la separazione dualistica è lo stato normale e soddisfacente per la Luce, allora il destino dev’essere messo in movimento non da un impulso dall’alto verso il basso ma da un sollevamento dal basso. L’inizio perciò sta nella profondità e non nell’altezza. Tale idea di un’iniziativa originaria della profondità che costringe l’altezza ad abbandonare il suo riposo è di nuovo un punto che distingue la gnosi iranica da quella siriaca. Nondimeno, questi due differenti modi di causalità devono rendere ragione dello stesso effetto valido in senso gnostico – l’imprigionamento della Luce nella Tenebra – e perciò il cammino della Luce verso la profondità, ossia il movimento verso il basso, è in ambedue i casi, in qualunque posto abbia origine, il tema cosmogonico.

