a cura di Sandro Consolato
(Nb: quando leggete della “tarda età di chi scrive” non credete a Julius Evola : quando scrive queste parole ha solo 28 anni. Il brano è molto importante però)
“Ne sarà forse colpa la tarda età di chi scrive, ma egli è ormai divenuto di una diffidenza e di un positivismo desolanti. Dei valori e dei non-valori degli uomini o delle donne che dir si voglia, dei loro idoli e di tutto il resto, ci siamo interamente degrisés: ci siamo ridotti a non guardar più che al concreto, reale, denudato rapporto con le cose e con gli esseri, rapporto che per gli uomini è quello estrinseco e contingente proprio allo stato fisico di esistenza. Quanto a tutto ciò che è filosofia discorsiva, moralità, mondo di sentimento e così via – tutto ciò lo abbiamo inteso come qualcosa di relativo a questo stato fisico stesso, e con tutti i suoi ‘inferiore’ e ‘superiore’, ‘alto’ e ‘basso’, ‘divino’ e ‘umano’, ‘materiale’ e ‘spirituale’, ‘bene’ e ‘male’ ecc., non porta di un passo di là da esso, non trasforma in nulla ciò che metafisicamente, nell’ordine di una assoluta concretezza, l’uomo è (meglio: l’Io è, come uomo).
Di là da ciò, due casi: o accettare questo stato di cose, o non accettarlo. Nella seconda alternativa, altri due casi: o riconoscersi insufficiente, ed allora credere, attendere, sperare. Dio è, perché ho bisogno di lui. Ma questo caso, in fondo, risbocca nella prima alternativa: passività rispetto alla propria vita, subirla quale è, quale accade, giacché ogni principio di iniziativa è nemico della grazia, è orgoglio, è furto a Dio – e resta soltanto permesso il vago, ottimistico sperare. Ovvero: sentirsi sufficiente – di una sufficienza, si badi, che non significa né orgoglio né cecità rispetto alle infinite privazioni che riprendono l’essere finito, sibbene ferma volontà di assumerle, di sopportarle, di non scaricarne ad altri il peso e il compito della risoluzione loro. Allora soltanto comincia la via dello spirito, spirito che non è vuoto suono e rifugio di consolazione degli impotenti, valendo invece soltanto nella misura che è una assoluta, radicale trasformazione del rapporto secondo cui si sta, quale potenza, con le cose e gli esseri – e non dono, ma creazione, valore, conquista.
Ma per questo, occorre avere la forza di prendere in blocco tutto ciò che si è, che si sente e si pensa e crede quali uomini, metterlo da parte, dire: Basta, e andare avanti; occorre cioè portarsi alla disperazione, creare una situazione in cui non resti più che una alternativa: o vincere, o scomparire.
In fondo tutta la cultura occidentale moderna si trova un po’ in questo stato d’animo, e da qui il doppio risveglio d’interesse sia per la religione che per le cose iniziatiche. Ma queste due istanze sono confuse insieme, nell’inconsapevolezza dell’assoluta antiteticità che le separa. “
(JE, Dualismo cristiano e dionisismo nella filosofia mistica di P. Zanfrognini, art. dell’ 1-15 luglio 1926), in JE, L’Idealismo Realistico (1924-1928), a cura di G. F. Lami, Fondazione JE / Pellicani Ed., Roma 1997).

