Né comunisti né confuciani, quanti giovani cinesi sono «sdraiati»? La rottura generazionale preoccupa Xi Jinping

di Federico Rampini

23 dicembre 2023

Il fenomeno dei giovani cinesi che contestano silenziosamente l’etica del lavoro delle generazioni precedenti e si «chiamano fuori» dalla competizione lavorativa

La Cina scopre di avere un problema simile all’Occidente: giovani generazioni che rifiutano i modelli culturali degli adulti, e si «chiamano fuori» dal sistema. Ha troppi laureati che non trovano nel mercato del lavoro opportunità adeguate alle loro aspettative. Ha giovani che contestano silenziosamente l’etica del lavoro delle generazioni precedenti: sia quella promossa dal partito comunista, sia quella ben più antica che proviene dal confucianesimo.

Questa evoluzione culturale si aggiunge allo «sciopero della natalità» di cui sono protagoniste le sue giovani donne, e aggrava i problemi futuri dell’economia: insieme con la decrescita demografica dovrà fare i conti con la disaffezione giovanile verso una serie di mansioni lavorative, operaie e non solo.

Xi Jinping ha più volte affrontato la questione giovanile, che si pone in termini nuovi rispetto ad altri capitoli della storia cinese. Negli anni Sessanta il suo predecessore — e modello — Mao Zedong fece leva sulla ribellione dei giovani per manovrarla a suo vantaggio: per consolidare il suo potere Mao scatenò la rivoluzione culturale, lanciò le Guardie rosse (spesso adolescenti) all’assalto contro l’establishment del partito, con ondate di violenza che precipitarono il Paese in una sorta di guerra civile. Poi ci fu l’episodio del 1989: il movimento di Piazza Tienanmen vide ancora protagonista una nuova generazione, stavolta in lotta contro il partito comunista per rivendicare libertà e democrazia. Quella rivoluzione libertaria abortì, schiacciata nel sangue dai carriarmati dell’Esercito Popolare di Liberazione.

«Mangiate amarezza!»
Ma è difficile domare una rivolta passiva

Oggi la sfida per Xi Jinping è insidiosa perché è una rivoluzione passiva, silenziosa, non dichiarata, o quasi. Forse per adesso lambisce solo alcune fasce ai margini della società, però è abbastanza visibile da costituire già un motivo di allarme per il leader comunista. Lui l’ha evocata nei suoi discorsi quando ha esortato i giovani a «mangiare amarezza», cioè accettare sacrifici e tener duro in nome di un ideale superiore. Ha chiamato le nuove generazioni ad «avere ideali, coraggio, volontà di sopportare le difficoltà per costruire una nazione moderna e socialista». Ma il suo linguaggio non sembra efficace.

Il 21% di disoccupazione giovanile di cui soffre il Paese è la risultante di diversi fattori. Da una parte c’è un problema di domanda, una penuria di assunzioni. Questo si spiega con il rallentamento della crescita economica, a sua volta riconducibile a diverse cause: l’eccesso di statalismo che soffoca l’imprenditorialità, il crac immobiliare, la concorrenza di altri Paesi emergenti con costi del lavoro più bassi, la crisi della prima globalizzazione e del rapporto con gli Stati Uniti. In parallelo, esiste pure un problema di offerta: il sistema scolastico e universitario non forma le competenze che sarebbero necessarie; e molti giovani preferiscono starsene a casa o vivacchiare nel precariato, piuttosto che accettare carriere faticose, ipercompetitive, logoranti, frustranti, senza prospettive.

Neologismi per descrivere una generazione disillusa

Nella Cina di oggi circolano alcuni neologismi per descrivere i sentimenti di queste generazioni. «Nei-juan», o involuzione, è un’espressione che i giovani usano per descrivere il mondo del lavoro come lo percepiscono: troppi sacrifici per nulla, un avvenire di stress e di alienazione senza sbocchi interessanti. «Toccare pesce» descrive le forme di ribellione passiva adottate da alcuni di questi giovani inseriti nel mondo del lavoro: un sabotaggio silenzioso fatto di lunghe pause, o la lettura di romanzi in ufficio. «Stare sdraiati», o «lasciar marcire», indica gli atteggiamenti di chi fatica il meno possibile, o addirittura rinuncia del tutto a lavorare. Si segnalano perfino delle forme di fuga che ricordano gli anni Sessanta in Occidente: verso il misticismo buddista, la «ricerca di sé» nella spiritualità antica. C’è chi ha organizzato dei «party dell’addio», feste in cui annunciava agli amici la rottura con il mondo del lavoro.

L’analogia con lo sciopero delle nascite, «disubbidienza» femminile

Contro queste forme di disubbidienza passiva, le ricette del passato sembrano meno efficaci: non servono i carriarmati, e forse neanche la retorica del sacrificio usata da Xi Jinping. Qualcosa di analogo avviene nell’ambito della procreazione. Per decenni fu il partito comunista a deprimere la natalità con la politica del figlio unico. Quando quella politica si è rivelata fin troppo efficace, e con la decrescita demografica il governo ha cambiato rotta, i suoi incentivi economici offerti alle giovani coppie perché facciano due o tre figli non hanno sortito — almeno finora — i risultati voluti. A differenza della politica del figlio unico, che funzionò alla perfezione, non c’è alcun mezzo coercitivo che possa costringere a procreare una generazione di giovani donne che per vari motivi non vogliono. Il dentifricio è uscito dal tubetto, e nessuno riesce a farlo rientrare. Tanto più che s’intravvede dietro la caduta della fertilità una forma di protesta verso una società sessista. Anche le giovani cinesi, oltre a ignorare gli appelli e gli incentivi del partito, si stanno ribellando a Confucio, inteso come l’ispiratore di una società gerarchica e patriarcale.

La Cina ha ancora tanti più ingegneri e operai di noi… ma non abbastanza

Il fenomeno dei giovani cinesi che si «chiamano fuori» dalla competizione lavorativa non rappresenta una minaccia immediata per la macchina produttiva della Repubblica Popolare. La Cina da trent’anni a questa parte è diventata la fabbrica del pianeta e lo rimarrà a lungo. La sua manodopera operaia è immensa, laboriosa, ben formata. Non a caso la Volkswagen, nel tentativo di ridurre il suo ritardo competitivo sulla Cina nell’auto elettrica, ha deciso di aprire una nuova fabbrica nella provincia dello Hebei, assumendovi tremila ingegneri cinesi. In Europa e negli Stati Uniti la scarsità di ingegneri, tecnici e operai, è uno dei limiti alla reindustrializzazione.

Però anche la Cina non «fabbrica operai» come una volta. Non riesce a formarne quanti gliene servirebbero. E questo nonostante un fantastico aumento delle loro remunerazioni. All’inizio del millennio un operaio specializzato in una fabbrica automobilistica cinese guadagnava poco più di mille dollari all’anno; oggi il suo salario medio (tenuto conto che la qualificazione dello stesso operaio è molto migliorata, spesso è diventato un tecnico che «comanda» dei robot) si avvicina facilmente ai 60.000 dollari annui. Eppure le fabbriche cinesi fanno fatica a reclutare, molte lamentano di essere sotto organico.

Una delle ragioni dietro la penuria di operai è l’inflazione delle lauree. All’inizio del millennio solo il 10% dei diciottenni cinesi si iscriveva all’università; oggi la percentuale è balzata al 60%. In un anno il sistema universitario sforna 11 milioni di laureati. Su questi 11 milioni solo il 40% hanno formazioni scientifiche o ingegneristiche. Inoltre, proprio come accade negli Stati Uniti, i neolaureati in ingegneria di solito preferiscono andare a lavorare nelle aziende del Big Tech digitale, anziché nelle fabbriche.

Quelli che hanno lauree meno adeguate alle richieste del mercato, si rendono conto di aver compiuto un percorso a ostacoli terribilmente arduo, in un sistema scolastico ipercompetitivo, per approdare a un mondo del lavoro che non realizza i loro sogni. Alcuni forse finiranno per accettare il duro consiglio di Xi Jinping e «mangeranno amarezza»; altri adotteranno forme di resistenza passiva, o si uniranno alla coorte degli «sdraiati». La Cina di domani potrebbe assomigliare all’Occidente, realizzando così il peggior incubo di Xi Jinping che la vuole sottrarre alla nostra «decadenza».

Tratto da: Il Corriere della Sera

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Né comunisti né confuciani, quanti giovani cinesi sono «sdraiati»? La rottura generazionale preoccupa Xi Jinping

Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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