di Massimo Vinti
Nel Cristianesimo delle origini, e successivamente nella chiesa orientale, con il termine ‘preghiera’ si intendeva, prima ancora che una richiesta di aiuto, un modo di comunicare con Dio, concepito non come un’entità astratta ma come una realtà accessibile a chi la cerca veramente; il racconto di questo libro inizia con l’ascolto da parte del pellegrino dell’Epistola ai Tessalonicesi (1Ts. 5,17) nel passo che recita: ‘Pregate incessantemente’. Ne rimase colpito profondamente, e si chiedeva come fosse possibile pregare senza posa quando ogni uomo deve occuparsi di tante cose durante la propria vita.
Di seguito possiamo trovare una risposta a questo quesito, espressa con linguaggi diversi, prima da un maestro indù e poi da un monaco cristiano d’oriente.
‘La recitazione di un mantra, o di una preghiera espressa con una formula breve, si chiama japa in sanscrito. C’è poi una pratica detta a-japa, cioè non-recitazione, quando il mantra, dopo una lunga pratica di japa, diventa un mormorio continuo che si alimenta da solo, e non nasce dalla volontà del praticante: si tratta di un mormorio che lo accompagna così per tutta la giornata, e non solo durante la meditazione.’ (Tratta dal libro ‘Il dottor Rukmani’ pag.180)
‘Quando lo Spirito pone la sua dimora in un uomo, costui non cessa di pregare perché lo Spirito prega costantemente in lui. Allora la preghiera non si separerà dalla sua anima né quando dorme né quando è sveglio.’ (Isacco il Siro – VII° secolo d.C.)

