di Luciano Sesta
C’è, sul tema delle cosiddette “relazioni tossiche”, un discorso “standard”, che si concentra sui sintomi della relazione “malata” e sulle cause, prevalentemente psicologiche, che inducono due persone a rimanervi intrappolate. In genere lo schema è quello della persona affetta da “dipendenza affettiva” che incrocia, sul proprio percorso, un soggetto affetto da “narcisismo”: la prima dà tutto e si sacrifica per il partner, fino ad annullarsi, il secondo ne approfitta per dominare e prendersi dalla relazione ciò che gli serve.
I presupposti patologici di questo meccanismo sono, si dice, la falsa idea che la relazione sia tutto – anche a scapito dei propri interessi, delle proprie passioni, del proprio lavoro e delle proprie amicizie – e che l’amore rappresenti una sorta di divinità, sul cui altare sarebbe lecito sacrificare qualunque cosa, anche se stessi.
Ci si può chiedere, tuttavia, se davvero questa tendenza degli innamorati a investire tutto sulla loro relazione sia patologica, piuttosto che rappresentare l’essenza stessa di ciò che chiamiamo “amore”. L’alternativa, francamente artificiosa, sarebbe innamorarsi “prudentemente”, tenendo sotto controllo la relazione, circondandola di clausole e di limiti, nel timore che finisca lì dove non si vorrebbe. Da esperienza eversiva, sempre un po’ folle ed esagerata, l’amore diventerebbe una pratica “contabile”, un sentimento addomesticato.
In una profezia che si autoavvera, questa sorta di “carcerazione preventiva” dei sentimenti, per paura che si ammalino, li ammalerebbe. Anzi, impedirebbe la loro stessa nascita. Nessuno potrebbe più dire a nessun altro: “tu per me sei al primo posto”. Sarebbe immediatamente diffidato come un “dipendente affettivo” inconsciamente soggiogato da un narcisista, forse a sua volta inconsapevole.
La verità è che le persone che si innamorano non possono non “lasciarsi andare”, nemmeno quando farlo potrebbe portare a situazioni indesiderate. La paura che le relazioni divengano tossiche, invece, sta uccidendo la spontaneità degli innamorati. Da questi nuovi innamorati “prudenti” ci aspettiamo che, una volta innamorati, conservino la stessa identica autonomia e padronanza di se stessi che avevano prima di innamorarsi. Praticamente non più persone, ma automi che stipulano contratti sotto protezione affettiva.
Ci dimentichiamo che innamorarsi non è mai ritrovarsi al sicuro e “padroni del campo”, ma in qualche modo “smarrirsi”, perché la persona che ci ha attratto non viene solo incontro al nostro bisogno, ma suscita in noi un desiderio che, prima di incontrarla, non avevamo. E questo spiazza, destabilizza, costringe a reinventarsi uno stile e a rischiare. L’amore non viene solo a colmare un vuoto pregresso, ma ne scava anche uno nuovo. Non limitandosi a “soddisfare”, l’amore si mette anche a “disfare”, perché introduce disordine e instabilità in una vita prima ordinata e “sotto controllo”.
E allora bisogna avere il coraggio di dirlo: la dipendenza affettiva non è una condizione patologica ma una condizione umana “normale”. Siamo tutti affettivamente dipendenti, in quanto animali “sociali”. Ciò che dobbiamo imparare a coltivare non è l’indipendenza affettiva, che ci renderebbe dei freddi robot che stipulano accordi sentimentali mantenendo sempre il controllo razionale della situazione, ma l’autonomia affettiva, ossia la capacità di gestire da noi stessi le inevitabili turbolenze che la dipendenza affettiva comporta.
Del resto pensiamoci bene. Che aspetto dovrebbe avere una relazione “sana” che si immunizzi preventivamente da ogni rischio di sfociare in una relazione tossica? Sarebbe una relazione in cui i partner stabiliscono regole e confini, e in cui, sin dall’inizio, non si lasciano andare per paura di avvelenare la relazione. Una simile “relazione”, se così possiamo ancora chiamarla, non avrebbe nulla di ciò che la rende una relazione amorosa. E dunque non ci interesserebbe. Non c’è un condom psicologico che preservi dal rischio di tossicità relazionale. Amare significa rischiare. Vale la pena continuare a farlo.

