FUORI DALLA BALENA

di Luca Fumagalli

George Orwell, all’anagrafe Eric Blair, è stato uno dei più dirompenti autori del Novecento, capace di partorire due capolavori come La fattoria degli animali e 1984 che continuano ad essere letti e apprezzati (sebbene non di rado fraintesi o piegati a servire interessi partigiani). Pure in Italia il suo nome è talmente noto da aver originato un aggettivo di uso corrente, ossia “orwelliano”, che evoca scenari distopici e orizzonti inquietanti. 

A contribuire al suo successo, oltre alla passione con cui, da socialista eterodosso, difendeva le proprie idee senza inseguire il facile consenso, è stato senza dubbio lo stile semplice. In altri termini, ciò che Orwell propone è uno sguardo sulla realtà il più oggettivo possibile, evitando come la peste una sintassi troppo elaborata e divagazioni cervellotiche, che rischierebbero di allontanarsi da quel dato reale che deve essere il punto di partenza e di arrivo di ogni sana speculazione. Anche perché i mistificatori sono sempre in agguato e le menzogne della propaganda, allora come oggi, si diffondono con facilità.

Ovviamente, a suo volta, Orwell non è stato risparmiato dalle critiche, ed è innegabile che le sue pecche ce l’abbia (basti pensare alla sconcertante superficialità con cui era solito approcciarsi alla questione religiosa); ma sui giudizi negativi dei detrattori di turno – Italo Calvino, ad esempio, lo liquidò poco carinamente dandogli del «libellista di second’ordine» – è stato lui a trionfare, come dimostra il perdurare della sua fama.

Ancora, tanti scrittori britannici dell’epoca di Orwell si sono occupati di politica, ma lui è uno dei pochissimi le cui opinioni oggi non appaiono improponibili e grottesche; ad animarle vi è inoltre un costante elogio di alcune virtù ritenute fondamentali quali il buon senso, l’onestà intellettuale e la “decenza”, quest’ultima da intendersi come la capacità di saper cogliere del bene anche in ciò che si detesta.

Questi e molti altri sono i temi che caratterizzano Fuori dalla balena, una raccolta di scritti orwelliani prodotti dal 1929 al 1949, in larga parte inediti, tradotti e curati da Marco Settimini. Il merito di un simile gioiellino – il cui titolo è una benevola canzonatura di quello di un saggio che Orwell pubblicò nel 1940, Nel ventre della balena – va alla piccola casa editrice Aspis, non aliena a simili iniziative di pregio, che regala ai lettori un volume di sicura presa, in grado di mostrare abbastanza bene i mille e più riverberi della complessa personalità dell’autore.

Dopo una nota autobiografica, a mo’ di introduzione, Fuori dalla balena si apre con un ritratto ironico e disincantato di un recensore di libri, un impiego che Orwell conosceva bene e di cui mostra il lato ingrato e sfiancante. A una pagina di diario del 1949, in cui lo scrittore, pur consapevole di vantare una bibliografia invidiabile, confessa di non essere mai riuscito a liberarsi della sensazione di aver sprecato troppo tempo in futilità, seguono una serie di articoli dedicati ad alcune personalità letterarie verso le quali nutriva un sentimento di amore e odio: di T. S. Eliot si critica la poesia più recente, accusata di essersi irrigidita in un dogmatismo asfissiante, mentre di Henry Miller, il cui disimpegno esistenziale era lontano anni luce dall’attitudine di Orwell, si loda la prosa ritmica e il coraggio di includere nei suoi romanzi pure la realtà più degradata. Si parla anche di Kipling, di Tolstoj, di Shakespeare, di Conrad, di Yeats, di Lawrence e persino di Evelyn Waugh, sul quale Orwell, poco prima della morte prematura, aveva progettato di scrivere un articolo di cui rimangono solamente una manciata di appunti (Orwell aveva in gran stima l’opera di Waugh, sebbene questi fosse un reazionario e un cattolico; a quanto pare, però, il suo apprezzamento non era ricambiato). 

La seconda parte di Fuori dalla balena si occupa invece del rapporto tra arte e società. La dimostrazione della fondamentale ingenuità di H. G. Wells, romanziere che auspicava l’avvento di uno stato mondiale, anticipa una serie di pezzi dedicati ad Hitler, alla disamina dell’antisemitismo condotta da Sartre (a dir poco contradditoria), al crollo qualitativo della letteratura panflettistica e all’autobiografia di Salvador Dalì, in molti punti disonesta eppure capace di rivelare l’indole del suo bizzarro autore.

Dopo un paio di componimenti lirici – Orwell fu anche poeta –, il finale, più “politico”, è tutto all’insegna della scienza, della libertà di parola, della descrizione della terribile condizione degli strati più miseri della popolazione e delle abitudini alimentari inglesi. Quest’ultimo tema, apparentemente fuori luogo, è in verità una perfetta esemplificazione della “englishness” di Orwell, ma pure la dimostrazione di come, a partire dagli aspetti più ordinari dell’esistenza, lo scrittore sapesse ricavare preziose indicazioni circa le virtù e i vizi dell’umanità.

Insomma, Fuori dalla balena, concluso da una postfazione di Federico Scardanelli, è un libro che merita di essere letto. Costituisce un intrattenimento raffinato ma anche un’occasione di riflessione su tematiche che, in qualche modo, rimangono attuali. Al di là di tutto, si scoprirà la lucidità di un intellettuale d’eccezione la cui produzione letteraria non potrà mai essere ridotta agli interessi di una sola parte.

Il libro: George Orwell, Fuori dalla balena, a cura di Marco Settimini, Aspis, Milano 2021, 286 pagine, 25 Euro.

Tratto da: Radio Spada

FUORI DALLA BALENA
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Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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