Nel 1924, mentre Christmas Humphrey fondava a Londra la Buddhist Society (prima associazione occidentale dedicata alla diffusione del Buddismo in Europa), a Roma veniva costituita la Federazione Jiu Jitsuista Italiana (FJJI, che divenne Federazione Italiana Lotta Giapponese per poi confluire nella Federazione Atletica Italiana – FAI, nel 1931).
In quegli anni anche gli insegnamenti Chan e Zen iniziarono a circolare negli ambienti intellettuali come “filosofia pratica per la vita quotidiana”, a confronto con teoremi di teosofia e psicanalisi, ma solo dopo la seconda guerra mondiale ne furono trascritti in lingua inglese i precetti e diffusi testi inglesi dedicati all’insegnamento.
All’inizio del XX secolo apparvero anche i primi romanzi wuxia (武俠, letteralmente “eroe marziale”), pubblicati a puntate su alcuni giornali per poi essere ripresi dal cinema muto. Primo fra tutti il film L’incendio del monastero del loto rosso (火燒紅蓮寺; 1928–1931), opera di 27 ore in 16 parti: narra la storia di un gruppo di artisti marziali che si alleano per difendere il loro tempio dai predoni durante la dinastia Qing.
A partire dal dopoguerra, numerosi studiosi “occidentali” si recarono in Giappone per studiare lo Zen, mentre eminenti monaci emigrati fondarono scuole in America ed in Europa, tradussero gli scritti dei loro maestri e ne raccontarono le vicissitudini.
Contestualmente apparvero su riviste, romanzi e manuali, oltre al jujitsu, anche judo e karate, poi taekwondo e svariati stili di arti marziali cinesi, genericamente definiti “Kung Fu”.
Negli anni 60-70 il nuovo interesse per le pratiche di meditazione alimentò la creazione di centri e gruppi Zen in Europa, a partire da Inghilterra, Germania e Francia, gestiti da monaci o insegnanti asiatici e dai loro allievi.
Nel 1965 il Prof. emerito dell’Università Imperiale di Tokyo Nagaya Kiichi (長屋喜一, 1895-1993, insegnante buddista laico della scuola Zen Rinzai), tornò a Berlino, dove aveva studiato nel 1922, per portare lo Zen in Germania.
Il venerabile Thích Nhất Hạnh (1926-2022, della scuola Thiền Lâm Tế) esiliato dal Vietam poco dopo aver creato l’Ordine dell’Interessere (Tiep Hien, una comunità di buddisti impegnati socialmente) arrivò in Francia nel 1966, dove fondò una comunità di monaci e laici nei pressi di Bordeaux.
Taisen Deshimaru Rōshi (弟子丸泰仙, 1914-1982, scuola Zen Sōtō, discepolo laico di Kōdō Sawaki Rōshi 澤木興道, 1880-1965), arrivò a Parigi nel 1967, per “portare il vero Zen in Occidente” e tre anni dopo creò l’Association Zen Internationale (AZI).
La tradizione Seon coreana si diffuse grazie al proselitismo di Seung Sahn (숭산, 1927–2004, fondatore della scuola Zen Kwan Um, 관음선종회) che svolse attività in Europa a partire dagli anni ’70, principalmente in Polonia e Germania.da “Zen in Europe” di Alioune Koné
A partire dagli anni ‘70, in concomitanza con il boom economico di Hong Kong, i film di arti marziali raggiunsero l’apice della popolarità anche in Europa. La perfezione tecnica degli stili, sceneggiati per il grande schermo da veri maestri di arti marziali, attirò nuovi allievi e le scuole ed i dojo si moltiplicarono in tutto il mondo. Probabilmente nessuno dei primi iscritti a quei corsi sapeva che avrebbe ricevuto in dono, insieme a pratica e disciplina, anche una nuova filosofia di vita.
Nè chi si approcciava alla meditazione o allo studio dello zazen in quegli anni sapeva dell’esistenza dei “fratelli spirituali” che nel frattempo si stavano formando nelle palestre/retrobottega/garage della stessa nazione.
In quegli anni l’Europa accolse le scuole Chan, Seon, Thiền, Zen e quelle delle arti marziali asiatiche, in sedi separate e si formarono comunità separate.
Le pratiche si diffusero singolarmente, “scollegate” tra loro, ma profondi vincoli storici e filosofici uniscono questi insegnamenti, primo fra tutti l’etica cui fanno riferimento ed i principi morali a cui si ispirano, radicati nella filosofia delle Cento Scuole di Pensiero (诸子百家, VI secolo – 221 a.C., culla della dottrina taoista), nella tradizione Chan e nei suoi derivati, Seon, Thiền e Zen.
Per risalire alle radici della filosofia zen ed al modo in cui queste si sono intrecciate con lo sviluppo delle arti marziali, occorre tornare al V secolo a.C., quando in India nasceva Gautama Buddha (VI-V secolo a.C.) ed in Cina si diffondeva il Taoismo (道教), nelle vesti di teoria filosofica (senza imposizione di dottrine vincolanti).
Nel 142 d.C. la setta Tianshi Dao (天師道, Via dei Maestri Celestiali ) nel tentativo di appropriarsi di quelle dottrine, ne mistificò alcuni significati trasformando il taoismo in “religione”, poi la dinastia Wei del nord (北魏, 386-534 d.C.) ne fece la propria religione di stato, ma questo non contaminò l’essenza dei precetti originali del “Tao” che, nel corso dei secoli, furono tramandati come parte integrante di altri insegnamenti.
Il princìpio-cardine del taoismo (wu wei, 無爲 la non-azione), “raccomanda” di agire solo quando questo non contrasti con le “Leggi della Natura”: Wu wei è l’attività del Saggio (聖人, o Santo) che compie soltanto azioni virtuose (德治) e opera spontaneamente all’unisono con le forze universali del Tao (道 o Dao, “la Via”). La saggezza abita in chi sa discernere tra azione virtuosa ed azione “in contrasto con il Tao” ed opera ottimizzando le risorse fisiche e spirituali proprie, altrui e del pianeta.
Il Tao è la Via da percorrere per aderire alla Coscienza Universale, ma è anche la coscienza che pervade il viandante e la meta che egli dovrà raggiungere.
Ne consegue che turbando gli equilibri naturali (自然, Ziran), l’essere umano contribuirà alla sua stessa sconfitta, mentre rispettandoli e coltivando quella parte di sè che ne contiene l’essenza, non solo potrà preservare il proprio “Qi innato” (元氣 o “Qi prenatale”, energia destinata ad esaurirsi nel corso della vita), ma potrà naturalmente acquisire energia vitale aggiuntiva. Tutte le arti marziali tradizionali insegnano il corretto uso dell’energia ed alcune pratiche (ad es. Qi-gong, Daoyin, Taijiquan, Xingyiquan, Baguazhang, Bajiquan, Yiquan, Liuhebafaquan, Luohan Qigong, Rouquan) si basano su insegnamenti che discendono, totalmente o parzialmente, da teorie taoiste.
Quando, attraverso le antiche rotte (Via del Tè e dei Cavalli 茶马古道 e Via della Seta 丝绸之路) che collegarono India e Cina durante la dinastia Han (漢朝, 206 a.C.-220 d.C), giunsero dall’India i primi monaci buddisti, la Cina ne accolse gli insegnamenti con grande favore, perché i sutra delle principali dottrine indiane, concettualmente sovrapponibili a quelle taoiste, potevano essere agevolmente tradotte in cinese utilizzando il vocabolario taoista, facendo “coincidere il senso”.
L’esistenza del leggendario monaco indiano Bodhidharma (菩提达摩, vissuto tra il V ed il VI secolo, considerato il padre delle arti marziali Shaolin) è confermata dall’“epitaffio di Fǎrù” (法如 墓誌銘, datato 638-689), su cui Bodhidharma viene indicato quale fondatore del buddismo Chan.
Il suo nome è seguito da quello di Huìkě (慧可, 487-593 d.C.), primo patriarca della Scuola Chan, citato anche nella “Continuazione delle Biografie di Eminenti Monaci” (續高僧傳, 645 d.C.) che collocano Huìkě all’interno del monastero Shàolín (少林寺).
A Huìkě viene tradizionalmente attribuita la creazione dello stile “Rou Quan” (少林柔拳, “pugno morbido di Shàolín”, anche detto “Rou Gong” 柔功, uno degli antichi nomi del Tàijíquán), mentre la paternità di altre tecniche, introdotte per compensare l’immobilità della meditazione quotidiana e come strumento di autodifesa per i monaci, fu a lungo attribuita a Bodhidharma, a cui fu attribuito anche un manoscritto del XVII secolo, chiamato Yijinjing (易筋经, lett. “Classico del cambiamento di muscoli e tendini”).
Secondo gli storici Tang Hao (唐豪, 1896-1959), Xu Zhen (徐震, 1898-1967) e l’esperto di arti marziali Ryuchi Matsuda (松田 隆智, 1938 – 2013), varie inesattezze nella prefazione del manoscritto, la cui unica copia superstite risale al 1827, sollevano dubbi sul presunto autore Bodhidharma il cui nome, tra l’altro, non compare su nessun altro scritto tra quelli rinvenuti. Appare invece plausibile che gli esercizi dell’Yijinjing, molto simili a quelli del Daoyin (导引), siano ascrivibili ad un insegnante taoista. che gli storici individuarono in un monaco di nome Zongheng (宗衡, detto anche “Taoista di Zining” 紫凝道人), vissuto durante la dinastia Ming (明朝, 1368-1644) nell’area del Monte Tiantai, Zhejiang (天台山, 浙江).
Qualunque ne sia stata l’origine, è innegabile che l’insegnamento delle arti marziali all’interno del monastero Shaolin abbia segnato una grande svolta nella storia del Chan e delle sue pratiche: tutte le tecniche introdotte nel tempio da artisti marziali, guerrieri di passaggio o create dagli stessi monaci, annotate su rotoli e, successivamente, integrate con spiegazioni dettagliate e disegni, furono tramandate per la prima volta in forma scritta.
Le arti marziali del tempio Shaolin, che durante le dinastie Song (宋朝 960-1279 ) e Jīn (金朝 1115-1234) fu gestito da maestri della scuola chan Caodong (曹洞宗), furono “esportate” in Giappone da uno degli eredi Caodong, il monaco giapponese Dōgen Zenji (道元禅師; 26 gennaio 1200 – 22 settembre 1253) che nel 1227 vi fondò la scuola Zen Sōtō (曹洞宗), una delle tre scuole Zen tuttora esistenti.
È sopravvissuta fino ad oggi anche la scuola zen Rinzai (臨済宗), fondata nel 1192 da Eisai Myōan (明菴栄西, 1141–1215), erede della scuola chan Línjì (臨濟宗), che nacque e prosperò grazie al sostegno di Minamoto no Yoritomo (源頼朝, 1147-1199, primo shogun del Giappone), dei suoi eredi e dei suoi samurai, che accolsero quell’insegnamento con grande favore.
La meditazione offriva un metodo per calmare la mente, acquisire forza ed entrare in battaglia con la giusta concentrazione; mentre i precetti buddisti diedero un nuovo significato al termine “guerra”, inducendo ad abbandonare la tortura e le uccisioni inutili.
Le filosofie zen, che nel corso del XIII e XIV secolo si diffusero in tutto il Giappone, influenzarono la cultura dei samurai in modo irreversibile e la maggior parte dei valori etici che contraddistinse la casta e le arti marziali tradizionali giapponesi nei secoli a venire, è ascrivibile a quelle influenze (fatta eccezione per il riscatto dal disonore attraverso il suicidio, derivante dal confucianesimo).
Del termine “bushido” (武士道, definizione con cui vengono genericamente chiamati gli antichi valori dei samurai) si ha traccia solo a partire dal 1616, quando fu trascritto per la prima volta nel “Kōyō Gunkan” (甲陽軍鑑), cronaca delle imprese militari del Clan Takeda (武田氏, XII secolo-1582).
Durante il periodo Tokugawa (徳川時代 o periodo Edo, 1603-1868), lo shogunato estese il suo supporto alla scuola zen Ōbaku (黃檗), fondata dal maestro chan e calligrafo di origine cinese Ingen Ryūki (隠元隆琦, 1592–1673), anch’essa ancora attiva in Giappone.
Anche in Corea l’insegnamento delle arti marziali nei monasteri, derivato dalle tradizioni cinesi e giapponesi, li protesse nei secoli dalle aggressioni di rivali, predoni ed invasori, ma nulla poté contro gli espropri e le persecuzioni dei loro stessi sovrani.
Dal 1392, il primo governante della dinastia Joseon (Taejo 태조 1335-1408), sostenuto dal movimento neoconfuciano, soppresse gradualmente il buddismo: ridusse il numero dei templi ed i monaci furono letteralmente ricacciati sulle montagne, vietando loro di mescolarsi con la società.
Nel 1592 il Giappone invase la Corea e nel giro di 20 giorni l’esercito giapponese raggiunse la capitale Hanseong (한성, l’odierna Seul), mal difesa da un esercito “incompetente e pavido”. Il re Seonjo di Joseon (조선 선조, 1552-1608), in fuga dalla città, rivolse una richiesta d’aiuto alla nazione e dal monte Myohyang (묘향산) rispose l’anziano maestro seon Hyujeong (휴정, 1520–1604).
Nonostante duecento anni di persecuzione antibuddista, oltre 5000 monaci si offrirono per soccorrere il re di Joseon e, coordinati da Hyujeong e dal suo discepolo Yujeong (유정, 1544 – 1610) osarono affrontare i guerrieri esperti di Toyotomi Hideyoshi (豐臣秀吉, reggente imperiale 1585-1591). Quando il suo maestro fu troppo vecchio per combattere, Yujeong prese il comando delle milizie monache e nel 1604 fu inviato in Giappone da re Seonjo per negoziare la pace, riportando in patria 3500 coreani imprigionati da Tokugawa Ieyasu (徳川家康, shōgun negli anni 1603-1605).
A metà del XIX secolo svariati equilibri sociali si ruppero: il Giappone dovette, suo malgrado, accettare rapporti commerciali con l’Occidente e piegarsi alla modernizzazione; il governo cinese, impegnato nella gestione delle rivolte interne, non si difese dagli stranieri e dovette cedere territori e privilegi a Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti; in Vietnam Napoleone III (1808–1873) diede inizio alla colonizzazione francese mentre la Corea, per non inasprire il conflitto tra governo Joseon e Stati Uniti, dovette suo malgrado rinunciare all’isolazionismo.
Per incoraggiare la partecipazione della popolazione alla corsa all’industrializzazione, i governi di Cina e Giappone utilizzarono vari tipi di propaganda (movimento di auto-rafforzamento 自強運動, 1861–1895 e Bunmei-kaika 文明開化 ,lett. “civiltà e illuminismo”, 1871- 1912) per osteggiare le istituzioni religiose e promulgarono leggi contrarie alle tradizioni nazionali. L’ineluttabilità dell’occidentalizzazione apparve come una strada a senso unico ed effettivamente dopo le due guerre mondiali nulla tornò com’era prima, nè per l’insegnamento zen, nè per quello delle arti marziali.
Nel 1949, dopo la vittoria del Partito Comunista Cinese nella guerra civile, Chiang Kai-shek (蔣中正, 1887-1975) si ritirò con alcune migliaia di soldati a Taiwan e proclamò Taipei capitale della Repubblica di Cina (中華民國), mentre a Pechino Mao Zedong annunciò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese (中华人民共和国, 1949-1976).
Solo le organizzazioni religiose taiwanesi ebbero la possibilità di operare liberamente, per questo negli anni 1945-49 molti eminenti monaci lasciarono per sempre la Cina continentale.
Tra essi il maestro Yin Shun (印順 導師, 1906-2005) che divenne uno dei principali esponenti del Buddismo Umanista (人間 佛教, filosofia che integra le pratiche chan con la vita quotidiana) ed il patriarca chan Sheng Yen (聖嚴, 1931–2009) che nel 1985 a Taipei fondò l’Istituto di Studi buddisti Chung-Hwa (中華佛教研究所) e nel 1989 vi istituì la fondazione internazionale Dharma Drum Mountain (法鼓山), con comunità monastiche e templi affiliati in tutto il mondo.
Durante gli anni turbolenti della rivoluzione culturale (1966-1976), al fine di allinearle alla dottrina maoista, anche le arti marziali furono sottoposte ad una radicale trasformazione da parte della Repubblica Popolare Cinese.
La RPC sostenne unicamente gli sport regolamentati dall’ Associazione Cinese del Wushu (中国武术协会) e promosse gli aspetti competitivi delle arti marziali come se fossero normali “sport”, definendoli “Guoshu” (國術 lett. “arti della nazione”), in modo che fossero associate all’orgoglio nazionale e private degli aspetti inerenti al conseguimento individuale.
Le scuole indipendenti delle arti marziali tradizionali furono disincentivate ed un gran numero di maestri scelse di migrare verso Taiwan, Hong Kong, Stati Uniti ed Europa per insegnare alle comunità cinesi d’oltremare. Con il passare del tempo, le scuole accettarono allievi di tutte le nazionalità.
Anche in Vietnam il destino dello zen (thiền) e delle arti marziali fu determinato dalla politica. Proibite durante occupazione e protettorato francesi (1858–1954), le arti marziali furono insegnate e praticate di nascosto, in difesa di comunità locali e templi buddisti, esposti dal 1955 ai saccheggi del regime corrotto di Ngô Đình Diệm (1901-1963).
Nel 1964 la neonata Chiesa Buddista Unificata del Vietnam1 ripristinò i diritti della popolazione buddista, ma già nel 1975, quando il Vietnam unificato divenne la Repubblica Socialista del Vietnam, il governo impose nuove gravi restrizioni, e molti monaci si rifugiarono all’estero, dove crearono comunità importanti. Tra essi il Venerabile Thich Nhat Hanh (1926-2022), che ottenne asilo politico in Francia per sè e per i suoi 400 discepoli, ed il Venerabile Thich Tam Chau (1921-2015), che si trasferì con la sua comunità negli Stati Uniti ed in Canada.
Nel 1975 anche il patriarca del Vovinam Việt Võ Đạo, maestro Lê Sáng (1920-2010) ed il suo direttore tecnico, maestro Trần Huy Phong (1938-1997) furono imprigionati per motivi politici e le pratiche in Vietnam furono bandite, ma questo causò un’accelerazione dello sviluppo del Vovinam Việt Võ Ðạo nel mondo, così come del Võ Cổ Truyen, Việt Võ Ðạo e Võ Thiếu Lâm, diffusi a partire dagli anni 70 da varie associazioni e federazioni anche in Italia.
Nel 1953 una nuova società rilevò il “Dai Nippon Butoku Kai” (大日本武徳会, lett: “Grande Società Giapponese di Virtù Marziali”, sospesa dal 1946 per ordine del generale Mac Arthur, 1880–1964), rinnovando il proposito di preservare le tradizioni che furono proprie di questa associazione. Il nuovo DNBK, oltre al ripristino delle culture marziali classiche ed antiche, si prefisse “promozione degli ideali filosofici e umanitari” delle arti marziali tradizionali attraverso la diffusione dei valori del Budō e nel 1974 avviò la sua espansione all’estero.
Nel 2008 la Fondazione Nippon Budōkan diffuse in lingua inglese le linee guida per la pratica delle arti marziali giapponesi e fornì una sintesi del concetto “budō”:
I praticanti del budō si impegnano strenuamente per unire mente, tecnica e corpo, sviluppare la propria identità, migliorare il proprio senso della moralità ed adottare un comportamento rispettoso e cortese: se perseguiti con fermezza, questi intenti ammirevoli diverranno parte del carattere del praticante.
Le arti Budō tracciano un percorso di autoperfezionamento.
L’elevazione dello spirito contribuirà alla prosperità, all’armonia sociale ed infine gioverà alla gente del mondo.
Agli inizi del XXI secolo, nei paesi occidentali la percezione del valore delle arti marziali come strumento di autodifesa diminuì, forse perché il tempo da dedicare alla pratica fu considerato eccessivo o perché si diffuse l’idea che spray al peperoncino e teaser potessero essere validi surrogati.
Ma l’autodifesa è ora necessaria più che mai, non solo per la propria sicurezza personale, ma anche per acquisire consapevolezza delle proprie azioni, liberando se stessi dai condizionamenti esterni e da impulsi di varia natura.
Le “forme” delle arti marziali (kata 型 , poomsae 품새- , quyền , taolu 套路), pur essendo eseguite contro un avversario immaginario, richiedono allenamento costante, prolungato nel tempo e la massima concentrazione e, oltre a potenziare la difesa, consolidano anche l’equilibrio psico-fisico di chi le attua. Qualunque siano le sequenze da eseguire, concentrarsi su azioni ripetute e sulla perfezione della loro realizzazione, equivale ad una sorta di meditazione. Inoltre, mentre la pratica quotidiana delle forme aiuta ad imprimere nella memoria muscolare i movimenti fondamentali per una reazione efficace, la mente si disciplina, svuotandosi di tutti i contenuti non necessari.
Il Raja Yoga di Patanjali (metodo trascritto tra il II secolo a.C. ed il VI secolo d.C.) prescrisse isolamento ed introspezione come primi requisiti per il raggiungimento della “chiara visione”.
L’isolamento mentale di chi pratica le arti marziali tradizionali (“vuoto mentale”, inteso come sottrazione della propria mente agli stimoli esterni), finalizzato ad un’azione neutrale, liberata da odio e paura, è la prima “arma” che l’allievo riceve come ricompensa per i propri sforzi: egli diventa “abile” nel controllare la parte più sfuggente di se stesso, la propria mente.
Gradualmente il controllo aumenta e permette di utilizzare il “faro” della lucidità anche per guardare oltre, trovando la radice di inquietudini e pensieri “non utili” al conseguimento desiderato, sia nel proprio operato “marziale” che in altre circostanze.
Ma gli spazi interiori possono restare inesplorati per tutta una vita, se non si conquistano gli strumenti per accedervi o non si dispone del tempo necessario per utilizzarli ed in effetti, la “conoscenza di sé” consigliata da Socrate, è riservata solo a chi può affrancarsi regolarmente dagli impegni quotidiani per dedicarvisi.
E va detto che, per chi si approccia allo studio delle arti marziali, è fondamentale comprenderne gli esiti perché, se il principale dei propri obiettivi fosse “vincere”, la scelta andrebbe orientata verso tecniche che si prefiggono unicamente questo scopo, verso quei metodi combinati o misti studiati apposta per infliggere il massimo danno all’avversario e favorire l’attacco invece di potenziare la difesa.
Chi sperasse, in cuor suo, di sferrare il primo colpo, non potrà mai far parte di una scuola di arti marziali tradizionali, né utilizzare la parola “Zen” per la sua pratica.
Lo Zen impone che, nel rispetto della legge di causa ed effetto, l’azione non debba in alcun modo essere offensiva e nessuna “re”-azione potrà essere perfetta se nell’animo di chi la compie manca la virtù dell’equilibrio interiore.
Conseguirlo non è facile né veloce: chi sceglie i ripidi sentieri delle arti marziali tradizionali affronta un percorso di studio senza scadenze ed un nuovo stile di vita.
Tratto da: ZenWorld.eu

