a cura di Michele Maino
Di tutti i vizi, l’invidia sembra essere il più subdolo. A differenza degli altri, come la gola, l’ira o la lussuria che potrebbero, al limite, essere visti come scaturigini del bisogno o della debolezza della carne, reazioni alla paura o manovre compulsive di sopravvivenza, l’invidia non è un frutto spontaneo ma procede espressamente da un’architettura psichica infetta e contorta.
La parola deriva dalla sua omografa controparte latina, la cui etimologia è spiegata come una formazione composta dal deverbativo -vidia, da vĭdēre (“vedere”, “guardare”), e dal prefisso “in” impiegato nel suo senso avversativo di “contro”, dunque “guardare ostilmente”, “guardare male”.
Il prefisso “in”, tuttavia, ha anche valore privativo, negativizzante, che anzi è il più comune e che dà forma a parole come, ad esempio, “impuro”, “ignobile”, “insensato” ecc…
Cercando bene, quindi, sembra emergere un secondo livello semantico, più sottile, latente: quello di “non-vedere”.
A illuminare questo senso c’è il termine avidyā, che in sanscrito, lingua “cugina” del latino, è formato da a- privativa e vidyā, “vista”, “conoscenza”, dunque “ignoranza”, “incapacità di vedere”. Nella cultura dell’India antica, o meglio in tutti i sistemi dharmici, Induismo, Buddhismo e Jainismo, avidyā (avijjā in pāli), rappresenta infatti l’ignoranza fondamentale della realtà, il travisamento del mondo fisico e metafisico e dunque la radice della sofferenza come viene espresso, quasi a epitome di un intero universo culturale, nel quinto verso del secondo libro degli Yoga Sūtra di Patañjali: “Avidyā è prendere per permanente, puro, piacevole e pregno di essenza ciò che è invece impermanente, impuro, doloroso e privo di essenza”.
La consapevolezza che chi è invidioso non capisce nulla del mondo e procede maldestramente nella vita causando danni a sé e agli altri, è senz’altro presente anche nel nostro sistema culturale e occhieggia nemmeno troppo dissimulatamente nella letteratura e nelle opere d’arte. Giotto, ad esempio, nel suo ciclo allegorico di affreschi dedicato alle virtù cardinali e teologali e ai vizi cardinali nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, raffigura l’invidia come un’anziana con un serpente che le esce dalla bocca, simbolo della sua attitudine alla maldicenza e alla maledizione, e che le si ritorce contro colpendole gli occhi e mettendo così in evidenza il difetto di “non-vedere”. La mano destra è rapace e svela il desiderio, mentre il sacchetto che quasi stritola con la sinistra suggerisce l’avversione a dare, a restituire, a provare gratitudine.
Le fiamme che divampano alla base della veste rappresentano il dolore che deriva dalla brama insaziabile, dalla cieca furia del saccheggio e della spoliazione di ciò che è altrui, e l’inferno a cui questo vizio inevitabilmente condanna, in vita come dopo la morte.
*“Caeca invidia est…” (Tito Livio, Ab Urbe condita, XXXVIII, 49)
Immagine: Giotto di Bondone, allegoria dell’invidia, affresco, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1306 circa.

