di Giuliano Noci
La globalizzazione è stata celebrata come un motore di progresso: miliardi di persone sono uscite dalla povertà, la crescita economica ha toccato vette mai viste, e le aspettative di vita sono aumentate. Ma dietro questo quadro ottimistico si nasconde un paradosso: il benessere complessivo è stato distribuito in modo profondamente diseguale. Mentre un’esigua élite ha prosperato grazie ai mercati internazionali, la classe media si è sgretolata, e il potere d’acquisto della maggioranza è crollato. Questo squilibrio non è un caso: è il risultato di un modello economico orientato all’export e alla deregolamentazione, che ha privilegiato i profitti aziendali e gli interessi dell’1% a scapito del restante 99%. Il sistema si regge su un circolo vizioso: redditi stagnanti, consumi insufficienti e un indebitamento sempre più alto, sia per le famiglie che per le imprese. Inoltre, la crescente subordinazione degli Stati ai capitali privati – simbolo di cui Elon Musk è una figura emblematica – ha ulteriormente aggravato la situazione. Rimediare a questa deriva richiede un cambio di paradigma. Occorre riscoprire Keynes, restituendo centralità agli Stati per sostenere le economie interne e ridurre le disuguaglianze. Serve anche superare l’egemonia del dollaro come valuta di riserva globale, un sistema che amplifica gli squilibri sia per gli Stati Uniti che per il resto del mondo. Senza interventi radicali, il costo occulto della globalizzazione continuerà a erodere le fondamenta della stabilità globale.

