(tratto da Guillaume Faye, Stefano Vaj, Per farla finita con la civilizzazione occidentale, Moira, 2024)
“L’Amerika è in noi”. Questo monito, fatto implicitamente ed esplicitamente proprio da Giorgio Locchi, Faye stesso, e molti altri, può essere letto in vari modi.
Uno di questi, magari salutare ma in fondo secondario e moralistico, invita ad un “esame di coscienza” individuale su quanto i nostri personali stili di vita, gusti, linguaggio, abitudini di consumo, e – cosa più rilevante – la nostra mentalità, possano restare condizionati ed influenzati in tal senso, ad onta di dichiarate rivendicazioni e scelte di campo di marca identitaria.
Un significato molto più importante di tale affermazione è però quello che soprattutto nella zona UE individua nella cultura dominante, nei rapporti di potere, nei meccanismi di funzionamento delle nostre società, negli stessi regimi politici in essere, una parte integrante e qualificante del sistema occidentale, di quel Sistema per uccidere i popoli che Faye ha descritto ed anticipato nel suo seminale saggio omonimo, più volte riedito in italiano ed il cui testo è non da oggi integralmente accessibile sul Web.
In questo senso, il richiamo al “dominio straniero sulle nostre terre” è retoricamente legittimo, ma proprio nella misura in cui – poi non così diversamente da più tradizionali esempi storici del fenomeno – le classi dirigenti che le amministrano localmente si identificano con appartenenze ed interessi sovrannazionali; così da cessare, tendenzialmente e in varia misura, di far parte dei popoli che abitano la regione cui i loro esponenti sono preposti, in cui magari sono nati, e del cui stato-fantoccio esibiscono il passaporto.
Certo, gli “amerikani” rappresentano un simbolo, una incarnazione esemplare, una utile esternalizzazione polemica della civilizzazione occidentale. Wagner o Nietzsche hanno usato criteri essenzialmente confessionali per identificare ed additare il tschandala la cui considerazione era loro utile soprattutto come ammonimento e pietra di paragone per chi voglia definire e condividere una propria diversità. Quando Giorgio Locchi e Alain de Benoist additano invece nel Male americano, cui è stata intitolata la traduzione italiana del saggio Il était une fois l’Amerique, la malattia che ci affligge, trovano in tale definizione una felice sintesi di quella che in effetti negli USA rappresenta addirittura la “natura profonda” della relativa pseudo-identità collettiva. Anzi, la relativa descrizione, insieme a quella contenuta nelle pagine di Faye che seguono, di ciò in cui effettivamente consiste la civilizzazione occidentale, ci consentono di rimandare al concetto di “male americano” ivi adottato senza ulteriori illustrazioni da parte nostra.
A livello poi non simbolico ma concreto, del sistema occidentale gli USA costituiscono tuttora l’epicentro, il quartier generale, la “sede legale”, il crocevia economico-culturale. Le loro forze armate, grazie ad un investimento annuo pari da solo a quasi la metà di tutte le spese militari del globo, rappresentano il principale braccio militare del relativo sistema di potere, e coordinano alla bisogna l’impiego, a livello operativo o di deterrenza, degli ascari reclutati localmente dagli stati “alleati”. La loro moneta e il sistema finanziario correlato rappresentano un architrave fondamentale del processo di globalizzazione portato avanti dall’Occidente in funzione delle sue ambizioni mondialiste. Il loro governo, benché come nel resto della sfera occidentale tenda ad assumere sempre più un ruolo teatrale rispetto agli intrecci reali tra la sfera dello “stato profondo” e le lobby economiche, e non, che si interfacciano con esso, gestisce anche un potere esecutivo reale; fa e disfa i fiduciari politici del sistema stesso in giro per il pianeta; e si vede affidata la repressione attiva, per quanto possibile, delle “devianze” che via via emergono a livello internazionale o nelle politiche interne degli altri paesi.
Nondimeno, la meccanica identificazione anche da parte di alcuni “patrioti europei”, per esempio di marca liberalconservatrice o gollista, degli Stati Uniti d’America come “potenza straniera”, intesa semplicemente all’affermazione competitiva di interessi nazionali, o magari “imperiali”, che sarebbero del resto naturalisticamente radicati in un dato “geopolitico”, corrisponde ad una visione della storia e della politica internazionale che era già caricaturale, superficiale ed ingenua nella Belle Epoque. E ciò in particolare nella sua totale ignoranza delle appartenenze di natura invece etnoculturale, ideologica, di classe, religiosa in senso ampio, regionale, economica, etc. Questo porta a sua volta a confondere, di nuovo ingenuamente (ma ancora più spesso strumentalmente), territori, popoli, regimi, ceti ed etnie dominanti, governi, etc., come se fossero una cosa sola, in una bandierina colorata, il cui significato viene astratto, nella logica del Risiko, da chi siano coloro che concretamente la impugnino, e dagli interessi ed idee concreti che effettivamente la medesima bandierina possa di volta in volta rappresentare – ad onta del fatto che mutamenti al riguardo portano spesso a far sì che ne siano addirittura cambiati o ritoccati persino i colori…
La relativa finzione poteva forse risultare “patriotticamente” utile in un certo periodo della storia europea, come la simmetrica ed altrettanto astratta ignoranza di tutto ciò che non fosse appartenenza di classe poteva essere utile alla logica marxista. Ma il mondo attuale rende la finzione stessa ormai insostenibile, e quel che è peggio gravemente fuorviante, tanto quanto il tipo di “internazionalismo proletario” sostenuto dalla Prima e Seconda Internazionale era stato smentito dall’evoluzione che ha condotto alla prima guerra mondiale. E ciò vale tanto più per gli USA, e per l’insieme del sistema di potere in essere, che domina il loro territorio, come del resto quello della zona UE, solo in modo più completo e diretto di altri.
Da un punto di vista europeo, infatti, ciò che è davvero rilevante, ad un livello più direttamente politico, è il potere occidentale sul continente e il lungo conflitto tra il primo e i “buoni europei” di Nietzsche e di Drieu La Rochelle, come ben illustrato per la storia recente da Piero Sella in L’Occidente contro l’Europa. Schematizzando e generalizzando in modo forse eccessivo fenomeni e sviluppi profondamente diversi, a partire dalle guerre napoleoniche si può addirittura sostenere che il sistema occidentale stesso sia davvero nato proprio dal ripetuto scontro tra ambizioni politiche ed effettivamente “imperiali” di soggetti diversi sul suolo europeo, e centri di potere di natura essenzialmente internazionale. Questi centri di potere sono stati regolarmente capaci di cavalcare quinte colonne parimenti europee, spesso attive all’interno dei soggetti stessi, ma soprattutto rappresentate da soggetti statali utilmente contrapponibili all’affermazione del relativo progetto. Ora, dato che, fuori da visioni ridicolmente angeliste, i progetti stessi non possono che essere tesi ad affermare quanto meno una tendenza egemonica di chi effettivamente li incarni – salvo addirittura comportare essi stessi minacce centraliste, omologanti, anti-identitarie, etc. –, la cosa si è del resto regolarmente nutrita di conflitti di interesse reali. Cosicché il nazionalismo, bene o male inteso, può certo giocare contro il sistema di interessi internazionali di cui si diceva; ma a seconda dell’attore coinvolto e delle contingenze storiche può anche giocare a suo favore, poco importa se si tratta di russi e inglesi contro francesi; francesi e inglesi e italiani e russi contro imperi centrali; inglesi, francesi, americani e sovietici contro tedeschi, ungheresi e italiani; americani e zona UE contro russi; e così via.
Lo scenario maturato tra le due guerre mondiali e soprattutto con la conclusione della seconda ha però visto progressivamente coincidere il polo geografico del sistema, ormai sulla via di prendere piena, inadulterata coscienza di sé, appunto con gli USA, come Stato che meglio corrisponde allo “zero politico ed etnoculturale” incarnato dal sistema occidentale. E in effetti è attorno agli USA – specie a seguito della fine della parentesi rappresentata dalla competition con l’Unione Sovietica, e con il rapido smantellamento di varie residue sovranità anche del mondo non-allineato che essa consentiva –, che è andato via via organizzandosi il mondo “unipolare”.
Al tempo stesso, questo americanocentrismo ha comportato un cambiamento di prospettiva anche per la parte dell’Europa oggi più direttamente coinvolta nel relativo meccanismo, che rende la sua posizione odierna più simile a quella dell’America latina, e più vistoso il regime coloniale cui è soggetta. La cosa le consente certo positivamente di meglio “visualizzare” un centro (esterno) della civilizzazione e dei poteri che la dominano tuttora, ma facilita anche il potenziale equivoco insito nel considerare la situazione attuale dell’Europa come un mero, tradizionale asservimento ad una potenza straniera.
Del resto, fuori dalla logica del Risiko già richiamata, l’attuale posizione della “capitale occidentale” non corrisponde a qualche legge di natura. L’epicentro de (l’allora nascente) sistema occidentale è già stato in Europa, in particolare a Londra – e in minor misura, a partire almeno dal 1870, a Parigi. Certo, malgrado le provocazioni avanzate per amor di paradosso da qualche liberal americano di secondo piano in occasione dell’elezione di Trump, è del tutto fantasioso che il suo quartier generale possa davvero ritrasferirsi sul nostro continente – oggi magari a Bruxelles e Francoforte… -; ma se anche mai ciò dovesse accadere la cosa ovviamente risolverebbe il problema dei “buoni europei” circa tanto quanto avrebbe ragione di felicitarsi un milanese se la mafia trasferisse il centro dei propri affari dalla Sicilia alla capitale lombarda. Anzi, tale improbabile scenario appare vieppiù come una jattura perché, come dice Faye, l’occidente per il resto del mondo è una infezione – certo ovunque diffusa ma, punto fondamentale, in modi e gradi diversi –, ed è facilmente riconoscibile nelle espressioni rispettivamente del “partito americano” e dell’american way of life; ma per l’Europa è un cancro, una crescita essenzialmente diversa dal suo tessuto socioculturale “autentico”, ma al tempo stesso autoprodotta. La sua “esternalizzazione simbolica” è perciò da considerare tutto sommato benvenuta, anziché da vedere con rammarico.
Rispetto allo scenario improbabile quanto appunto pernicioso di uno spostamento in direzione opposta del suo baricentro, un cambiamento invece davvero in essere rispetto all’americanocentrismo è semmai è quello di una ulteriore delocalizzazione e “virtualizzazione” di ciò che Faye già aveva descritto sin dall’inizio degli anni ottanta come un sistema sostanzialmente acefalo, e che viaggia oggi sulla smaterializzazione e globalizzazione delle comunicazioni, dei contatti, delle monete, delle gerarchie, degli ordinamenti, dei luoghi di conservazione ed elaborazione dei dati. Sempre meno rilevanti appaiono così la collocazione fisica dei protagonisti dei circuiti decisionali e i residui di “appartenenza nazionale” che tale collocazione potesse comportare, creando da un lato un’illusione di “decentramento”, dall’altro rendendo sempre più la nazionalità non la partecipazione ad una comunità politica, ma il mero indice e pretesto di una ennesima cordata, cartello o lobby tra i tanti che competono trasversalmente per promuovere il peso e il potere dei propri appartenenti apicali.
E la cosa è ovviamente strumentalizzata a livello di politica politicante dai fiduciari e dalle istanze locali dello stesso, identico, unitario sistema di potere, ai fini delle (ben reali) rivalità e concorrenze interne al sistema stesso. Come è naturale, troviamo qui in prima fila i feudatari politici più infidi, riottosi e/o ambiziosi, specie quando gli stessi rispetto agli USA o più in generale al mainstream occidentale siano in grado di intestarsi atteggiamenti almeno vagamente frondisti e “riformatori”, del tipo che consentiva al partito degli Orléans di capitalizzare il malcontento nei confronti dei Borboni, pur essendo in tutta evidenza espressione della stessa famiglia, dello stesso ceto e dello stesso regime politico. Ma non diversa è la logica con cui un’associazione di banche d’affari, internazionali quanto tutte le altre in termini di azionariato, filiali, clientela, cultura, ma accomunate per ragioni storiche o casuali dal fatto di avere la propria sede legale in Francia, sollecita oggi la solidarietà tra propri membri, ma anche del pubblico e dei politicanti del paese interessato, rispetto agli interessi delle banche concorrenti dislocate invece in Lussemburgo o in Inghilterra.
Al riguardo, in linea puramente teorica l’esistenza di contrapposizioni dialettiche vere o apparenti nei gangli del sistema potrebbe essere, come è stata in passato, sfruttata anche da forze del tutto avverse, qualora però prima un diverso “polo”, imperniato su valori effettivamente conflittuali, esistesse. Nel frattempo, la funzione effettiva e principale del tifo attivamente suscitato da componenti specifiche del sistema occidentale, che si tratti delle istituzioni UE rispetto al governo americano, dei governi di ciascun paese rispetto alle suddette istituzioni o uno rispetto all’altro, dei partiti occidentalisti l’uno contro l’altro nei singoli paesi, quando non di società industriali o cartelli cultural-finanziario-commerciali o chiese o organizzazioni criminali in concorrenza tra loro, è sempre quella di conservare, consolidare e mobilitare il consenso per il sistema stesso nel suo complesso.
Il fenomeno politico e prima ancora psicosociale che qui entra in gioco è quello che è stato ben descritto da Marx con il termine “falsa coscienza”. Tale meccanismo funziona particolarmente bene quando è addirittura possibile “visualizzare geograficamente” l’entità da mobilitare; e consente al duca di Bretagna, o al capo della cosca dei trapanesi, o al presidente del consiglio della repubblica italiana, di suggerire ai propri servi della gleba, alle proprie vittime, o ai propri sfortunati cittadini, che il “nemico” e la fonte delle loro sventure non sarebbe il regime feudale, la mafia, o il ceto dei politicanti della zona UE, ma il ducato di Borgogna, la cosca dei palermitani, o la “solita Germania”. Non diversamente avviene per un certo tipo di “europeismo” invocato al tempo stesso sia in vista di un certo grado di “autonomia” e “concorrenza” rispetto alle istanze strettamente statunitensi del mondo occidentale, sia (naturalmente ed a maggior ragione) in funzione della mobilitazione isterica delle varie istanze locali del sistema contro le resistenze, le crepe, le opposizioni, le deviazioni rispetto alla disciplina unipolare, o per dirla altrimenti rispetto alle minacce al cosiddetto “ordine mondiale”. Laddove, sempre in gradi e modi certo diversi, tutte queste cose contro cui i sinceri europeisti sono chiamati a mobilitarsi rappresenterebbero semmai un elemento utile a chi nutra desideri di emancipazione, per quanto possibile, dall’insieme dell’ordine stesso, del tutto a prescindere dalla loro natura, cause ed obiettivi.
Se la falsa coscienza in questione si ammanta perciò tipicamente a tutti i livelli di colori “patriottici”, tale tematica si trova comunque in palese contraddizione con se stessa. Il processo di unificazione italiana ha visto ad esempio i patrioti lombardi e veneti agire contro il Regno Lombardo-Veneto, di cui gli interessati erano indiscutibilmente cittadini, e che gli stessi hanno perciò tecnicamente tradito a favore di entità statali diverse e nemiche che ne contrastavano gli interessi, il potere e la sovranità; e che hanno finito per aggredirlo, invadendone il territorio, sparando nella direzione delle loro case e famiglie, e combattendo con le “loro” forze armate – nel senso di soldati reclutati nelle loro stesse terre e in quelle facenti parte dello stesso soggetto politico. La cosa ovviamente comportava in ben pochi milanesi l’idea balzana di considerarsi franco-piemontesi; ma, a seconda dei casi, rappresentava o l’espressione di una percepita appartenenza condivisa ad una comunità pure al momento del tutto ideale – quale potrebbe essere quella che porta vari abitanti della zona UE a solidarizzare con le forze europee in questo momento combattute sul campo dalle cancellerie occidentali e dai loro lacchè ucraini –; o, semplicemente, un’espressione dell’idea primordiale del “nemico del mio nemico” – quale potrebbe essere quella che porta molti a solidarizzare con i tentativi di affermare una loro sovranità ed identità da parte di soggetti scontatamente del tutto estranei alla propria sfera etnoculturale e geopolitica immediata.
Atteggiamento quest’ultimo quanto mai “naturale” non solo sul piano strategico, ma anche emotivo e psicologico, e che trova storicamente un’eco persino nell’inno nazionale adottato dalla repubblica italiana, quando il relativo testo risorgimentale parla in modo un po’ estemporaneo di “sangue polacco” destinato negli auspici dell’autore a bruciare il cuore all’aquila asburgica, senza con questo minimamente intendere che polacchi e italiani andassero considerati compatrioti o che non vi fossero distinzioni tra le rispettive cause. Ma si tratta in ultima analisi di un atteggiamento invariabilmente comune a tutti i movimenti di liberazione nazionale che la storia ricordi, in Europa come nelle altre aree del pianeta, non escluse le due Americhe, e non pare necessario soffermarsi oltre sul punto.
Per contro, il suddetto pseudopatriottismo di destra invita oggi a “stringersi a coorte” attorno ai vessilli dei rispettivi stati-fantoccio o della cosiddetta Unione Europea – che come è ovvio, al netto di improbabili sviluppi futuri, attualmente certo non è un’unione e non è europea, non più di quanto l’Impero Indiano della regina Vittoria fosse un “impero indiano” – proprio come ieri facevano i deprecati “austriacanti” per la bandiera lombardo-veneta o per l’aquila asburgica, con argomenti del resto del tutto simili. Ma, guarda caso, solo ieri gli stessi ambienti, talora le stesse persone, auspicavano, invocavano e nel caso lodavano atteggiamenti del tutto opposti in seno alle popolazioni che erano parte del Comecon/Patto di Varsavia, dell’Unione Sovietica, e della stessa Russia; ridicolizzavano il tentativo delle relative classi dirigenti di presentarsi come difensori dei loro interessi – nonché, accessoriamente, di ideali universali –; e predicavano non solo l’opportunità, ma addirittura il dovere di lavorare per potenze nemiche e per il sabotaggio dei regimi in essere nei rispettivi paesi, in vista di una “liberazione” che almeno nel caso russo poteva al massimo riferirsi al potere personale del georgiano Stalin, dell’ucraino Kruscev o dell’ucraino Breznev, ad ovvio scapito per altro della potenza e della sovranità del soggetto politico di comune appartenenza.
Ciò detto, la sociologia ci insegna quanto sia facile che in un campo di concentramento il kapò della Baracca 42, l’amico delle guardie che amministra per loro conto e proprio personale vantaggio l’ordine nella baracca, e contemporaneamente il tiranno immediato dei suoi compagni di prigionia, finisca per essere reinterpretato da questi ultimi come il loro “rappresentante” e “difensore”. Dopo tutto non è lui che si fa carico del fatto che siano prevenuti comportamenti che potrebbero provocare sanzioni generalizzate da parte delle guardie stesse, o della richiesta che i pezzi di pane più grossi non siano regolarmente riservati “a quei bastardi della Baracca 43”?
A livello di politica politicante questo effetto è tradizionalmente sfruttato da molti partiti (ex) separatisti, autonomisti, localisti che compromettendosi con il potere centrale si vedono da questo in cambio appaltare la politica locale, talora anche attraverso concessioni di privilegi reali come nel caso del Sud Tirolo italiano, in modo da dare uno sfogo elettorale ed innocuo al relativo desiderio di indipendenza ed anzi coinvolgerlo nel rafforzamento di governi centralisti, occidentalisti, “europeisti”, etc. Ma mentre per il resto il perseguimento mafioso di vantaggi per il proprio distretto elettorale o per la propria regione da parte dei candidati ai parlamenti nazionali è un sottinteso, comunicato con le strizzate d’occhio e il darsi di gomito, è interessante come proprio nella propaganda dei partiti e nei governi più fanaticamente “europeisti” è assolutamente esplicito l’impegno ad andare al Consiglio UE o addirittura al relativo parlamento non per sostenere una certa visione su come meglio realizzare gli interessi “europei”, ma per contrattare, in modo più efficace di quanto farebbero i rappresentanti del partito avversario, il massimo possibile di vantaggi per il proprio paese in un gioco a somma zero.
Questa realtà è oggi particolarmente evidenziata per esempio dalle discussioni relative agli sbarchi di immigrati illegali in Italia, in cui oltre un certo livello di soglia la gradita e provocata importazione di un esercito industriale di riserva che meglio garantisca lo sfruttamento degli autoctoni si trasforma in allarme sulla perdita del consenso almeno passivo da parte di chi vede minacciati anche servizi e condizioni di vita basilari. In tale scenario, lo slogan “Deve intervenire la Unione Europea!” non fa infatti ovviamente riferimento ad un sostegno all’Italia in un’azione di contrasto agli sbarchi stessi, contrasto che del resto consisterebbe in una modestissima operazione di polizia internazionale certo alla portata di singoli governi che mandano portaerei all’altro capo del pianeta per contribuire alla prevenzione di potenziali sbarchi ben più aggressivi a… Taiwan; ma all’idea che nel quadro degli interessi geopolitici ed ideologici occidentali il politico “europeista” sia semplicemente chiamato a sbolognare e trasferire quanto più possibile le conseguenze negative dell’invasione incontrollata in corso su altri cittadini UE che non facciano parte dell’elettorato per i cui interessi pretende di “lottare”.
Ma, cambiando ancora di scala, il medesimo effetto psicologico si verifica in certa misura anche al livello della UE e della narrazione delle sue istituzioni rispetto al rapporto con gli USA, specie quando appunto il governo di questi ultimi – che in questo caso non ha un… ambasciatore americano cui rendere conto e cui appoggiarsi – è portato a tenere seppur secondariamente conto dei propri specifici interessi, sulla falsariga del resto di quanto avviene per Israele rispetto agli interessi delle comunità e lobby ebraiche su scala globale. Sotto questo profilo, in una interessante conferenza ad inviti organizzata a Milano nel 2018 contro un “euroscetticismo” all’epoca in primo piano nel dibattito pubblico, Antonio Padoa Schioppa ha avuto occasione di sottolineare, in modo ancora più chiaro di quanto faccia Faye e ovviamente dal fronte opposto, come la sfida riguardi oggi l’affermazione planetaria di una civilizzazione occidentale rispetto a cui, a fronte del residuo “nazionalismo” almeno delle istanze politiche e istituzionali degli Stati Uniti d’America o per esempio del Regno Unito, l’Unione Europea già oggi rappresenta un superamento radicale non solo della sovranità degli Stati membri, ma anche e soprattutto della tentazione di porsi come entità sovrana essa stessa – ovvero portatrice di interessi distinti da quelli della civilizzazione in questione e del sistema di potere (economico, culturale, burocratico, etc.) ad essa sotteso. E ciò grazie da un lato a fattori culturali (gli stessi padri dell’“europeismo democratico” del dopoguerra erano tutti convinti internazionalisti), dall’altro a complessi e peculiari meccanismi che oggi isolano quasi totalmente le relative istituzioni dagli umori dei sudditi: dal grado inaudito di autonomia della BCE rispetto a qualsiasi altra banca centrale, alla possibilità di azionare il veto di uno staterello qualsiasi rispetto a tentazioni pericolosamente decisioniste, o viceversa al ricatto e al condizionamento del potere centrale sulla pur limitata residua autodeterminazione elettorale dei singoli paesi.
Eppure, proprio questa identificazione “perfetta”, da “prima della classe”, della zona UE con il sistema e i valori e la “fedeltà alla linea” occidentali, che raggiunge in particolare il parossismo nella società e nel sistema politico tedesco, viene spesa dai suoi politicanti (anche) alla stregua di un tentativo di ricavarsi un ruolo più “indipendente” all’interno del relativo contesto rispetto agli USA o alle istituzioni internazionali da questi più strettamente controllate, come la NATO. Del resto, tale ruolo finisce in molti casi per coincidere con quello dello zelota fanatico rispetto appunto a regimi resi più sensibili a considerazioni di Realpolitik dal fatto di dovere tenere in conto, fosse pure secondariamente, l’esigenza di garantire una propria autoperpetuazione locale più consensuale e indolore possibile – e perciò in certa misura soddisfare i bisogni specifici di abitanti, territori, aziende, etc., localizzati nella propria giurisdizione. Laddove il mero commissario coloniale – foss’anche nel momento in cui la colonizzazione non sia più riferibile ad una potenza straniera precisa, ma ad un potere internazionale diffuso – non ha evidentemente tale tipo di esigenza, ma al contrario solo quello di tutelare gli interessi, le idee, il potere di coloro da cui è preposto.
In ogni caso, l’auspicata espansione del ruolo della zona UE da parte di politicanti e opinion leader locali per lo più non è affatto un punto di frizione, ma è invece totalmente convergente non solo con la dinamica generale del sistema occidentale, ma anche con gli stessi interessi “nazionali” degli USA e con i desideri espliciti dei governi americani. Tale situazione è particolarmente vistosa nel campo della difesa, in cui l’auspicato “riarmo” dei paesi della NATO europea corrisponde semplicemente ad un maggiore scarico dei giganteschi costi coinvolti sulle economie periferiche del sistema. Il caso tipico riguarda qui l’acquisto, o addirittura lo sviluppo congiunto, di sistemi d’arma inutilizzabili ed inutili al di fuori del dispositivo strategico volto al contrasto con i “rogue States” in attuale o potenziale contrasto con l’Occidente, del resto in un potenziale scenario da terza guerra mondiale – in cui la zona UE fungerebbe per l’Occidente da prima linea sacrificabile, come già l’Europa occidentale all’epoca della guerra fredda.
Risulta ovvio per esempio come i cacciabombardieri di ennesima generazione che ci vengono rifilati siano sistemi utili quanto un cannone contro le zanzare della malaria per contrastare per esempio l’invasione su barconi da cui è concretamente minacciata l’Europa meridionale, e, a maggior ragione, per pattugliare le strade onde limitare le conseguenze sociali della suddetta invasione.
Ma soprattutto si tratta di sistemi tipicamente non utilizzabili in funzione di una lotta di liberazione dei paesi interessati. Non solo perché le forze armate europee quand’anche improbabilmente convertite a tale obiettivo non ne controllano la indispensabile logistica, e perché leggende metropolitane piuttosto plausibili garantiscono che il loro firmware addirittura impedirebbe di attaccare bersagli taggati come “alleati” dal relativo “Friend or Foe Identification System”; ma soprattutto perché, quand’anche potesse ottenere appoggi esterni, una lotta siffatta non potrebbe che assumere le caratteristiche di una guerra asimmetrica. Istruttiva è al riguardo la vicenda della famosa aviazione di Saddam Hussein, con aerei di “penultima” generazione pagati centinaia di milioni di dollari, che del tutto ragionevolmente non si è mai levata in volo di fronte alla prospettiva di essere interamente spazzata via nel primo quarto d’ora senza colpire un singolo bersaglio, e che perciò ha avuto un ruolo esattamente pari a zero nella difesa del paese dall’aggressione americana, in confronto con i famosi IED (“improvised explosive device”, cioè in sostanza una pentola a pressione riempita di polvere da sparo) che si sono perciò rivelati di una utilità incommensurabilmente superiore per un costo unitario di otto o nove ordini di grandezza inferiore.
Anche sotto questo profilo, mostra tutti i suoi limiti quel tipo di “europeismo” antiamericano imperniato su uno “us vs them” che oltre ad avere per lo più natura puramente (e fantasiosamente) “concorrenziale” resta prigioniero della già richiamata fantasmagoria delle bandierine colorate. Sì, gli abitanti e le imprese degli USA godono (sino ad un certo punto) dei privilegi tradizionalmente riconnessi alla posizione dei sudditi situati nel territorio metropolitano rispetto ai sudditi coloniali. Sì, in una frazione proporzionalmente maggiore di costoro sono più direttamente implicati nei meccanismi decisori che coinvolgono la propria vita e l’orientamento generale del sistema, meccanismi d’altronde anche per loro tanto più tirannici proprio perché diffusi e di regola obbligati – come nel caso dell’amministratore di una società che proprio come in Europa “sceglie” di sfruttare manodopera immigrata, laddove una scelta diversa nel caso di una piccola-media impresa padronale porterebbe semplicemente alla sua sostituzione da parte della concorrenza che lo fa, e in caso contrario alla sua sostituzione da parte degli azionisti, previa una facile scalata in borsa nel caso la società sia quotata. Ma pare ovvio che se il regime USA è in primo luogo espressione degli interessi e delle idee occidentali, e in secondo luogo fa i propri interessi in tale ambito, solo come lontano terzo, e solo per le ragioni strumentali evidenziate, si preoccupa davvero di mantenere e diffondere vantaggi specifici per la popolazione e il territorio cui è anche formalmente preposto.
In questo senso, sembra davvero grottesco considerare il lavoratore blue collar di origine irlandese ridotto sul lastrico dalle politiche federali, o il membro di una tribù di nativi americani rinchiuso in una riserva, o il ribelle redneck dai pur aberranti riferimenti culturali, o anche l’“africano” più o meno immaginario che passa direttamente da un sottoproletariato disperato alla popolazione a lungo termine del sistema carcerario in proporzione più grande del mondo, come (parte del) Nemico Principale dei “buoni europei”. Al netto di una propria falsa coscienza in media ancora più grave e irrimediabile della nostra, infatti ne è semmai la prima vittima.
Ed è simmetricamente altrettanto grottesco il fatto di considerare invece esponenti delle cerchie più interne dell’oligarchia occidentale (se non altro nel ruolo di suoi “funzionari”) come Mario Monti, Emmanuel Macron o Mario Draghi, quali rappresentanti o alfieri, in ragione del loro passaporto o dei loro (occasionali) incarichi locali, di una qualche identità o sovranità del rispettivo paese di origine – vedi qui anche l’incredibile battuta del presidente del consiglio italiano in carica al momento in cui scriviamo quando con riferimento all’ultimo incarico europeo di Draghi si era detta sicura della propensione dell’interessato ad avere un “occhio di riguardo”, che tra l’altro comporterebbe un flagrante tradimento dell’imparzialità richiesta dal suo mandato, per gli “interessi italiani” rispetto a quelli degli altri paesi membri…
Di converso, proprio la potenza, estensione, ricchezza, e relativa stabilità politica americana fanno sì che gli USA – al di là della lunatic fringe locale, e più interessanti di essa – contino ed ospitino intellettuali postumanisti raffinati ed iconoclasti, ricercatori di punta, analisti meno allineati, tycoons prometeici e politicamente scorretti sulla falsariga del protagonista di Citizen Kane (alias Quarto Potere) di Orson Welles, giornalisti o bloggers relativamente indipendenti, romanzieri e registi visionari. Ancora protetti in certa misura, a seconda dei casi, dalla tenure (ovvero dalla sostanziale inamovibilità dei docenti universitari che abbiano ivi ottenuto l’ordinariato), dal Primo Emendamento, da qualche miliardo di dollari, o dal successo commerciale, tutti costoro manifestano non di rado un grado di condizionamento mentale, o almeno pratico, nettamente inferiore a quello che riscontriamo nella “periferia” rappresentata dalla zona UE. E naturalmente non esiste ragione di non considerare, a fianco dello studioso cinese che medita sulla tradizione confuciana, quello americano che pone in luce l’eredità di Heidegger rispetto al suo collega tedesco che si curva invece sulle profondità del pensiero di Woody Allen. Tanto più che proprio nell’ambito occidentale se uno vuole accedere oggi ad analisi critiche della narrazione dominante, per esempio sulla crisi ucraina o sulle dinamiche interne dei paesi meno allineati al modello occidentale, le trova di sicuro più facilmente in lingua inglese che in italiano, in francese o in tedesco, e che ambienti statunitensi immersi nel relativo melting pot ma memori delle proprie radici invitavano nella fase finale della sua vita l’“antiamericano” Guillaume Faye a parlare o tenere corsi più spesso di quanto lo facesse la Francia ben più politicamente corretta quand’anche talora pretesamente “frondista”…
Le categorie del politico individuate da Carl Schmitt nel celebre scritto omonimo consistono notoriamente nella diade di amicus e hostis. Si tratta di due categorie ideali, la cui identificazione concreta certo ammette dibattito, zone grigie, conversioni e riallineamenti, ma che finiscono inevitabilmente per definire degli spartiacque. Inoltre, in tale concezione la distinzione davvero fondamentale è quella tra hostis e inimicus. Se il secondo è il rivale, il concorrente, l’avversario filosofico o personale o elettorale o processuale, il primo è innanzitutto l’avversario (potenzialmente) bellico. Dopotutto, parafrasando il celebre detto di Carl von Clausewitz, la politica (in senso forte) non è che la continuazione della guerra con altri mezzi. Ora, tale secondo tipo di avversario può certo trovarsi all’esterno della società interessata. Ma nella misura in cui qualcuno si consideri politicamente avversario per esempio di chi si trovi al governo nella sua zona, l’hostis diventa un nemico interno.
Per “nemico interno”, come già accennato, non alludiamo – o almeno non intendiamo alludere principalmente – ad una sorta di metaforico nemico interiore, sulla falsariga della distinzione islamica tra “piccola Jihād” e la “grande Jihād” che il buon musulmano sarebbe chiamato a combattere all’interno della sua anima individuale, come in espressioni quali “uccidi l’occidentale che è in te”. Ci riferiamo invece alla realtà assolutamente prosaica del regime in essere e dei centri di potere (burocratici, istituzionali, economici, militari, culturali…) che lo innervano, e che nel nostro caso costituiscono l’espressione immediata, diretta, tangibile della civilizzazione occidentale che si trovano di fronte i suoi avversari, quella che concretamente li opprime, e quella e contro cui inevitabilmente si trovano a lottare.
In questo senso, molta parte dell’“antiamericanismo primario”, e più in generale del sovranismo nazionale, regionale o “europeista” oggi attivo nella zona UE, tende ad invertire i termini del problema. I rivoluzionari di ogni epoca e colore non si sono mai opposti al regime locale perché “amico dello straniero”, ma sono viceversa sempre stati ostili allo straniero, anzi concretamente a quello straniero, che appoggiava, garantiva, difendeva il potere del regime locale che politicamente avversavano. Così che la “liberazione”, anche solo parziale, anche solo per un istante, anche sulla base di una piattaforma ripugnante, anche solo di un metro quadrato di territorio, rispetto al potere del regime stesso, sia esso quello della sovrastruttura coloniale rappresentata dalla UE o quello dei singoli Stati membri, rappresenta tendenzialmente un valore in sé per un oppositore, dato che richiama almeno inconsapevolmente una pulsione collettiva verso l’affermazione di una qualche forma di ribellione e sovranità popolare in contrapposizione ad esso, dalla Brexit allo sfortunato tentativo di secessione catalano, in attesa ed in vista di un suo rovesciamento complessivo.
La storia, almeno sino a che non ne saremo definitivamente usciti, prende le strade che crede – e nella storia europea abbiamo almeno un caso, precisamente quello russo, di esattori e pretoriani locali di un potere straniero che si sono effettivamente trasformati negli artefici dell’indipendenza della zona loro affidata. Ma – fermo beninteso il fatto che qualsiasi sviluppo positivo, non importa quanto improbabile, resta benvenuto quando e se dovesse davvero avere luogo – l’apparente “massimalismo” di questa constatazione è improntato semplicemente al realismo. Lo stesso realismo contro cui si urtava futilmente il “moderatismo utopistico” del marchese di La Fayette, che voleva fare la rivoluzione con Luigi XVI e il consenso di alto clero e aristocrazia. O quello ancora peggiore di Vincenzo Gioberti, repellente nel sottofondo ideologico quanto ridicolo nell’aspirazione di vedere i governanti degli Stati italiani preunitari non essere abbattuti e debellati con le strutture cui erano preposti come in effetti è poi successo, ma “convertirsi” e formare spontaneamente e in diretto contrasto con le idee e gli interessi di cui erano portatori una “confederazione italiana”, addirittura presieduta dal papa (!), che liberasse (da loro stessi?) ed unificasse il loro complessivo territorio, perché “dopotutto nessun altro se non loro potrebbe mai farlo”.
Nel quadro della falsa coscienza di cui viene promossa la diffusione nei popoli europei un processo psico-ideologico ancora più diffuso resta comunque l’affermazione su scala sociale della sindrome di Stoccolma, che come noto porta il rapito a considerarsi “dalla stessa parte” dei rapitori (sulla base della razionalizzazione del fatto che in fondo i rapitori sono quelli che lo nutrono e lo tengono in vita, e che si oppongono ai rischi inerenti a tentativi di liberazione, blocco del riscatto, indagini, etc., che coinvolgono anche lui). E così porta direttamente gli sconfitti a diventare pretoriani dei vincitori, gli occupati a identificarsi con l’occupante, gli sfruttati a solidarizzare con lo sfruttatore, le minoranze ideologiche perseguitate, processate, pestate, incarcerate, a sostenere almeno in linea di principio la legittimità del sistema repressivo che le colpisce, e così via.
Sotto questo aspetto è decisivo il potere culturale amministrato oggi in modo sempre più stringente e pervasivo, specie nella zona UE, ma che naturalmente continua ad esercitare un’influenza capillare anche nelle zone relativamente meno asservite del continente, e che è funzionale all’affermazione della Nuova Società dei Consumi (di nuovo definita e descritta da Faye nell’omonimo saggio la cui traduzione italiana è facilmente reperibile sul Web), cioè la reincarnazione del consumismo in una società pauperista, epimeteica, securitaria, luddista e di penuria, fondata sul passaggio ai “consumi simbolici” e ai soft status symbol che ha luogo contemporaneamente all’allargarsi dello iato tra l’oligarchia degli onepercenters e la massa della popolazione. Passaggio necessario, in vista del consolidamento planetario di un Brave New World occidentale in cui al baratro ed alla polarizzazione sociale creato dai meccanismi economici in essere, funzionalmente anche alla distruzione dei residui vincoli comunitari rispetto a quelli di classe, è destinato a far riscontro un appiattimento del tenore di vita e della prosperità relativa delle varie zone. Come è reso inevitabile anche dalla disindustrializzazione e “specializzazione” monoculturale delle aree già corrispondenti ai paesi “sviluppati” e privilegiati nel quadro di una riorganizzazione globalista dell’economia del pianeta.
In questo senso, tale profondo processo di trasformazione ideologica, che nel presente volume Faye prefigura in modo incredibilmente visionario all’atto delle sue prime avvisaglie e con decenni di anticipo – il testo qui pubblicato per la prima volta in italiano è del 1984 (!) –, assolve un’ulteriore funzione, che è quella di scaricare frustrazioni e conflitti interni in “fughe in avanti” rappresentate da versioni più estremiste dei temi centrali della narrazione occidentale.
Si va qui dal rilancio dell’affermazione universale della religione dei Diritti dell’Uomo contro le residue sovranità locali, alla lotta al riscaldamento globale attraverso la (pretesa o reale) riduzione delle emissioni, alla promozione della libertà individualista di “andare e venire” emigrando liberamente nella zona di proprio interesse, al tentativo di strangolamento economico dei paesi meno allineati anche attraverso azioni dal basso volte ad ottenere boicottaggi “spontanei” e moralistici dei paesi stessi da parte delle multinazionali, per finire con il “ripristino rafforzato” (in nome della lotta allo hate speech, alle fake news, ai negazionismi, alla propaganda nemica, etc.) del controllo sull’informazione, già messo parzialmente in crisi da Internet, mediante la creazione di barriere rispetto alla circolazione di contenuti provenienti dall’“esterno relativo” della narrazione occidentale, sia in senso internazionale sia in senso ideologico.
Sotto questo profilo, il wokeismo stesso – che come già il movimento no-global rappresenta un reindirizzamento della frustrazione e della contestazione nei confronti della essenza della civilizzazione in via di affermazione in una frustrazione e contestazione rivolta alla sua perdurante “imperfezione” rispetto alle aspirazioni soggiacenti – non ha assolutamente nulla di anti-occidentale. Men che meno vuole davvero cancellare la “cultura occidentale”. Ciò che è impaziente di veder compiuto è il processo di cancellazione di quanto di europeo, troppo europeo, è ancora presente, talora del resto in modo caricaturale e ripugnante, nel retaggio complessivo della civilizzazione contemporanea, e dei processi, periodi, personaggi, forze, che ne hanno consentito l’affermazione. Non a caso, non solo non vi è assolutamente traccia di correnti woke fuori dallo spazio più direttamente occidentalizzato; ma i relativi sostenitori non promuovono o difendono in alcun modo l’autodeterminazione politica, religiosa, sociale, etnica, giuridica e di costume dei popoli che si rimprovera ai propri padri di aver “colonizzato”, rendendo così una beffa il concetto stesso di “identity politics” come promosso da tale ambiente (in cui comunque il termine identità fa prioritariamente riferimento alle identità neotribali di tipo femminista o di genere, a quella basate sulle abitudini sessuali o alimentari, a quelle costruite intorno a particolari forme di handicap o devianza, etc).
Per ciò che riguarda la zona UE, alcune di tali pressioni “progressiste” pongono però chi almeno in certa misura vi resista in una ambigua posizione di “conflitto di interessi” con le plausibili ed ovvie aspirazioni del “sud del pianeta”, dei “paesi in via di sviluppo”, del “terzo mondo”, ma anche semplicemente dell’Africa o della Cina, ad opporsi appunto all’espropriazione, alla colonizzazione, all’alienazione ed allo sfruttamento mondialista, così da incrinare quanto più possibile ogni forma di solidarietà popolare anti-occidentale ed anti-oligarchica del tipo considerato da Alain de Benoist, prima ancora della caduta del blocco sovietico, in Europe, Tiers monde, même combat. L’imposizione dei meccanismi globalisti ad opera della WTO, degli USA, e naturalmente della UE, impediscono beninteso all’europeo di coltivare il caffè o produrre microprocessori a casa sua; ma la comprensibile riluttanza a pagare un prezzo crescente, e magari “equo e solidale”, a chi li produce viene dirottata in sostanza sull’idea che la soluzione non sia di provvedersi dei mezzi per la propria prosperità ed indipendenza economica, bensì di tentare di mantenere situazioni di sfruttamento internazionale di cui ancora sino a ieri poteva ricavare qualche vantaggio indiretto; o addirittura di accentuarle, nella misura in cui non producendo più nulla localmente non ha più nulla – a parte prestiti o prodotti finanziari il cui profitto è intercettato da pochissimi – da offrire in cambio.
Eppure, l’irrigidirsi tetanico della civilizzazione occidentale è non solo effetto, ma anche causa di una sua fragilità sempre più evidente, e forse ineliminabile. A trent’anni dalla pubblicazione da parte di Francis Fukuyama di La fine della storia e l’ultimo uomo, le potenzialità identificate da Faye ai fini di una rigenerazione della storia – e in particolare di una rigenerazione della storia dei popoli, della cultura, delle stirpi e dello spirito europei – restano appunto ancora e solo potenzialità. D’altronde, restano. Mentre l’affermazione definitiva del Regno dell’Ultimo Uomo a quanto pare resta… elusiva, se non addirittura si allontana.
Sia chiaro: a questo proposito, le illusioni creano, oltre che equivoci pericolosi, delusioni. Le delusioni creano smobilitazione. La smobilitazione facilita il perpetuarsi e l’aggravarsi dello status quo.
Le illusioni consistono innanzitutto nell’idea che in Europa la civilizzazione e il sistema occidentali possano essere prontamente e definitivamente debellati da un qualche mirabolante ciclo di chemioterapia, o dall’intervento di un “chirurgo” esterno; e che essi non siano in grado in tutte le loro metastasi di opporre a qualsiasi azione di contrasto una “resilienza” che si concretizza, fuor di metafora, in una serie di reazioni automatiche di tipo giuridico ed economico, ma anche in infiniti contingency plans e processi di riequilibrio utili non solo a superare, ma nei limiti del possibile persino a sfruttare, le “crisi” che via via si aprono e le opportunità che in esse sia possibile individuare.
Illusioni ancora peggiori creano gli approcci che si fermano agli aspetti più teatrali del sistema stesso. A questa categoria appartiene per esempio l’idea che per cambiare davvero qualcosa basti andare al governo di un dato paese; o magari “organizzarsi” o “diventare ricchi”, e acquisire il controllo formale di una data azienda; o ancora “convertire” (o… eliminare), come nelle fantasie del socialismo utopistico e moralistico premarxista, esponenti significativi del relativo sistema di potere, come se di esso fossero timonieri e responsabili, e non meri funzionari e ingranaggi facilmente sostituibili.
Una particolare versione della illusione relativa ad una “conversione”, ad un “cambio di senso” degli strumenti del dominio occidentale sulle nostre terre e sui nostri popoli consiste come abbiamo visto nell’idea alquanto assurda che tale conversione possa prodursi spontaneamente dal loro “rafforzamento competitivo” all’interno di tale sistema, rafforzamento che a questo punto dovrebbe diventare un obiettivo primario, se non esclusivo, di identitari, indipendentisti, nazionalrivoluzionari e patrioti. Quasi come se un più entusiastico appoggio da parte della popolazione al sindaco di Milano, ruolo mentre scriviamo occupato da un tipico esponente dell’estremismo turbo-occidentalista e mondialista, potesse mai renderlo più propenso a proclamare la metropoli città-stato. Forma di wishful thinking, questa, che marca una regressione ed una rinuncia rispetto ad aspirazioni più radicali – ma, come si è visto, più realistiche –, su linee che sono bizzarramente parallele a quelle della sinistra occidentale post- e ex-marxista. Con la sostanziale differenza che le conclusioni di quest’ultima rappresentano una effettiva presa di coscienza anziché, come nel nostro caso, una ricorrente forma di alienazione e di resa. Ma di tutto questo si è già detto, e non vi insisteremo oltre.
Infine, una tradizionale difficoltà dei movimenti rivoluzionari che risulta tanto più radicalmente applicabile al superamento del status quo occidentale consiste nella limitata qualità ed integrità delle risorse umane disponibili, a livello umano, intellettuale, sociale, morale, culturale, etc.: se, come dice Pareto, “nella società dei ladri il miglior ladro è re”, è di converso anche vero che in tale società chi è migliore si avvierà tendenzialmente, ed almeno statisticamente, alla relativa carriera.
Non c’è nulla di strano in questo. Ogni società seleziona i suoi quadri sulla base dei suoi valori, rendendo l’ossequio ai medesimi una scelta attraente per chi sia al suo interno sia più capace e ambizioso – benché invero nel nostro caso la sempre più limitata mobilità sociale nelle società europee contemporanee rappresenti da questo punto di vista un vantaggio e un parziale contrappeso. Cristiani e giacobini, bolscevichi e fascisti, indipendentisti, restauratori, fondamentalisti, partigiani, secessionisti, etc., non hanno certo avuto accesso all’inizio delle rispettive parabole alla crème de la crème delle società in cui erano costretti ad operare. E ciò del tutto a prescindere dai contenuti affermati, a cui era probabile si accostasse almeno inizialmente una quota ben più che proporzionale di lunatici, sociopatici, mercenari, o semplicemente mediocri frustrati in cerca di riscatto. La cosa non ha impedito che in molti casi avessero alla fine successo; ma spiega l’aura “miracolosa” che sempre circonda le rivoluzioni riuscite, benché successivamente storici condizionati dal senno del poi finiscano per presentarle come inevitabili.
Stanti perciò i limiti del materiale umano con cui ogni auspicio di cambiamento si trova a lavorare, in una politica politicante occidentale pure spesso del tutto ufficialmente impegnata in progetti e su posizioni su cui media, opinion leader, partiti, industria culturale, etc., faticano a creare consenso persino nell’alienatissimo pubblico della zona UE, il mantenimento di una facciata legalitaria e “democratica” diventa così sin troppo facile. In particolare perché per la ragione suddetta i vari processi di oscuramento, esclusione, demonizzazione, marginalizzazione, infiltrazione, ricatto, corruzione, divisione, cooptazione, isolamento, incriminazione, tradimento, recupero, strumentalizzazione, e così via, ottengono di solito agevolmente i risultati desiderati su leader e ambienti populisti di varia matrice. E sterilizzano ed alla fine compromettono il successo che pure in varie occasioni non avevano faticato ad ottenere – e che di regola era stato preparato anche da decenni di oscuro e paziente lavoro metapolitico. Anzi, tale approccio almeno nella zona UE è in linea di massima persino più efficace dei metodi “spicci” cui pure i poteri forti occidentali esitano sempre meno a ricorrere quando necessario.
Similmente, in campo internazionale non solo i centri di potere occidentale hanno facile gioco nello sfruttare a proprio vantaggio conflitti storici, geopolitici, etnici, economici del tutto reali; ma gli stessi paesi o movimenti armati con cui meno simpatizza la narrazione occidentale sono invariabilmente afflitti dalla miopia, compromissione, viltà, corruzione e soprattutto sudditanza culturale di larghi strati delle rispettive classi dirigenti. Così che nella propria frustrazione o irritazione o risentimento per l’emarginazione ed al tempo stesso le ingerenze che subiscono nei loro rapporti con il potere mondialista faticano ad immaginare “soluzioni” che non corrispondano semplicemente al tentativo di alzare con successo il prezzo di una loro possibile resa, di un loro possibile collaborazionismo.
D’altronde, qualunque siano le debolezze e le difficoltà e la mancanza di visione delle opposizioni che continuano ad emergere in ogni dove, quand’anche si tratti scontatamente di opposizioni relative, contingenti, confuse, ciò su cui almeno negli ultimi anni abbiamo potuto con certezza contare è proprio sulla propensione del sistema stesso a creare sempre più reazioni immunitarie; e a tenere “in riga”, sulla linea di una condivisa ostilità nei suoi confronti, governi, popoli, insiemi etnoreligiosi, classi dirigenti, aree geografiche, movimenti culturali, che da parte loro non avrebbero magari chiesto di meglio che perseguire le loro rivalità interne o regionali, continuare a tradire il loro possibile destino, e chiudere a tarallucci e vino qualsiasi contenzioso potessero avere con l’ufficialità occidentale e la vulgata internazionalista da essa sostenuta. In questo senso, proprio l’invadenza e l’arroganza occidentale ha anche recentemente fatto miracoli nel mettere la sordina a rivalità secolari, nel creare convergenze almeno contingenti tra mondi ideologici e religiosi radicalmente diversi, nel ripristinare linee di dialogo tra regimi mutuamente ostili, nell’abolire isolamenti politico-economico-militari mantenuti per decenni con l’attiva collaborazione di paesi pure a loro volta non proprio in odore di santità, o colpiti da misure analoghe.
Le trasformazioni e i riallineamenti concomitanti alla crisi ucraina, e all’acuirsi parallelamente di problemi concorrenziali tra USA e Cina, hanno così già generato conseguenze politiche relativamente rapide; stanno più gradualmente provocando conseguenze economiche di grande portata; e infine nel lungo periodo certo non agevolano l’omologazione socioculturale del pianeta e la auspicata globalizzazione della civilizzazione occidentale. Sviluppi questi ultimi che è ormai possibile, anche se non inevitabile, siano correlativamente destinati a conoscere una benvenuta battuta di arresto, a favore di progetti radicati nelle identità condivise di comunità popolari, capaci di mobilitare ed esprimere, certo agonalmente tra loro, le proprie specificità e risorse collettive. In questo senso, se il recupero delle “tradizioni” nel mondo occidentale (del resto fruibili trasversalmente in tutta la sua estensione, dai camerieri coreani travestiti da gondolieri ai bambini italiani che il giorno di Halloween si sentono americani perché pronunciano correttamente la la minaccia “trick or treat”…) si colora ancora facilmente dello sfruttamento di un folklore completamente sterilizzato, è innegabile che l’identitarismo, tra l’altro spesso declinato al futuro, si fa già in molte occasioni cemento anche politico e comunitario in sfida ai mitemi ed alle mode veicolate dai modi di vita e dall’industria culturale occidentale.
In questo processo pare di buon auspicio che si ritrovi in prima linea – in certa misura suo malgrado e dopo aver rappresentato nel periodo 1990-2014 uno degli esempi di destrutturazione civile, etnocidio ed integrazione occidentale più avanzati – un’area come quella russa, che da sempre si pone al confine dello spazio etnoculturale e politico europeo, così che il nostro continente e i suoi alterni attori ritornano teatro cruciale per le ambizioni occidentali ma anche per ciò che ne ostacola la definitiva affermazione, innescando almeno un minimo iniziale di riappropriazione locale delle relative risorse, e rendendo possibile il “disallineamento”, in gradi diversi, di Bielorussia, Serbia, Moldavia, Ungheria, Slovacchia, e di vari ambienti e minoranze di altri paesi.
Roger Keeran ben illustra in Socialism Betrayed: Behind the Collapse of the Soviet Union come il sucidio dell’Unione Sovietica, e di riflesso del relativo blocco, per quanto possa aver trovato fattori scatenanti in questa o quella crisi, o nella amplificazione caotica di eventi contingenti, tragga fondamentalmente origine da involuzioni ideologiche, precisamente in senso occidentale e “liberale”, già presenti nel periodo kruscioviano, e cui si è trovata vulnerabile in ragione del problematico retaggio della sua ideologia ufficiale. Nel cadere a pezzi del relativo soggetto politico e sistema di alleanze, lo stesso “cuore” russo del medesimo si è visto rapidamente trasformato nella variante sudamericana delle società occidentali che una volta veniva chiamata “repubblica delle banane”: a livello economico, turboliberista, mafiocapitalista e fondata su una monocultura sottopagata (con gli idrocarburi a fare le veci della frutta tropicale); a livello internazionale, direttamente dipendente da Washington; a livello di costituzione materiale, anarco-autoritaria in salsa liberaldemocratica; a livello sociale, brutalmente oligarchica a vantaggio di una classe al tempo stesso parzialmente ammessa nei centri di potere occidentali, e loro rappresentante e garante nel paese.
Oggi, per quanto possano essere comprensibilmente sgradevoli per le popolazioni più direttamente coinvolte – e per quelle che altrove le vedono concorrere e servire da alibi ai fini della loro crescente proletarizzazione –, la guerra in corso e le sanzioni con cui è accompagnata da parte del sistema occidentale vedono insediarsi un potenziale processo di trasformazione politica, economica (“la guerra è sempre socialista”), e più limitatamente socioculturale. Tale processo è ben più radicale e rapido di quello che la classe dirigente russa tuttora in essere – e che è, e non non potrebbe essere, altro che il prodotto del periodo gorbacioviano e eltsiniano – avrebbe mai avuto la forza politica di imporre, quando pure mai ne avesse avuto l’intenzione. Ed è un processo che, come ci spiega di nuovo un analista americano, Gilbert Doctorow, nel saggio Wars Make Nations (accessibile anche in italiano sul Web), resta aperto sulla prospettiva di una rivoluzione nazionale e sociale.
La cosa al momento non va certo molto oltre la prospettiva di una potenza regionale essenzialmente preoccupata per le proprie particolari “terre irredente”, e manca in Russia in larga misura rispetto al resto del continente quel tipo di “vision” che ha portato la Prussia o il Piemonte ad impegnarsi nella unificazione e liberazione di zone foss’anche più limitate a partire dalla metà dell’Ottocento. Ma nulla impedisce di confidare nella capacità delle azioni di cancellerie e media occidentali di alimentare riflessioni utili a minare anche questa forma di provincialismo pervicace e residuale. Nel frattempo, tali azioni, come accenno nel mio saggio Artificialità intelligenti. Chi ha paura della IA e perché, hanno portato tra l’altro all’unico annuncio finora relativo ad una piattaforma europea pubblicamente accessibile in materia di intelligenza artificiale, che nella stessa Federazione Russa del periodo anteriore allo scoppio della crisi sarebbe stata impensabile, a favore di quelle di Microsoft/Open AI e di Google.
Per ciò che invece più immediatamente riguarda le aree in cui vive la maggioranza dei lettori di questo libro, continuiamo purtroppo a subire le conseguenze del detto secondo cui il frutto marcisce a partire dal nocciolo. Così, intanto che come sempre le resistenze restano più pronunciate nelle terre di confine, la “centralità” geografica e culturale mitteleuropea rispetto al suddetto spazio rende ahimè disgraziatamente più pronunciata che mai l’alienazione occidentalista degli abitanti, e la presa occidentale sui territori interessati, da nord a sud delle relativa fascia. Compresa naturalmente la parte della medesima che ricade nel territorio della repubblica italiana, che oltre a ritrovarsi particolarmente sotto attacco dal punto di vista della ricollocazione massiccia di popolazioni estranee, dal punto di vista economico, e dal punto di vista delle interferenze internazionali, ha visto di recente stroncato con successo il pur timido affacciarsi, quasi senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale, di un trasversalismo populista al di là degli schieramenti “emiplegici” di destra e sinistra; traversalismo populista che comunque costituisce il presupposto inevitabile per tentativi di traduzione politica di posizione identitarie, comunitariste e sovraniste – e di cui perciò vanno instancabilmente ricreati i presupposti culturali, ideali e metapolitici, cui il presente volume vuole in seppur minima misura contribuire.
La nuova “spaccatura” ideologica e internazionale del mondo unipolare che viene quotidianamente propagandata e rappresentata prima di tutto dalle agenzie culturali occidentali e dai suoi megafoni locali, anche molto al di là della realtà, riapre però anche qui, come in tutto il continente, quella possibilità di scelta in cui in ultima analisi consiste la libertà storica.
Una libertà storica che, se lo vorremo, potrà – con il contributo tutti gli europei di buona volontà, e giusta la massima secondo cui ciò che non ci uccide ci rende più forti – consentirci di chiudere in Europa un ciclo apertosi proprio in Europa, e di farla finita una volta per tutte con la civilizzazione occidentale.

