di Marcello Veneziani
02 Aprile 2025
Intervista a cura di Davide Sabatino (con Geminello Preterossi)
Marcello Veneziani, lei nel suo libro intitolato La Cappa, pubblicato nel 2022, traccia un quadro abbastanza fosco e tragico del nostro presente. In un passaggio di questo testo, infatti, si legge:
«Espiantata la religione, perduto il timor di Dio, sradicato il legame comunitario e territoriale con una patria, una famiglia; perduto ogni orizzonte ulteriore, o inaccessibile ogni apertura spirituale, culturale, metafisica; la vita resta desolata, in un deserto. Vivere senza movente per le masse, uccidere o uccidersi senza motivo per le menti più disturbate. Il nichilismo di un’epoca si fa nichilicidio nelle sue punte più degenerate».
Considerando le ripercussioni che il sistema nichilistico-consumistico ha sulla vita della maggior parte delle persone, e prendendo atto della mancanza culturale di visioni spirituali alternative a questo sistema: quali sono le contraddizioni più evidenti di questa Megamacchina infernale che è diventato il “Capitalismo dei disastri”, come l’ha soprannominato Naomi Klein? Da quali punti critici partirebbe lei per approfondire il tema del risveglio spirituale legato ad un discorso più politico-rivoluzionario?
La prima osservazione che mi viene da fare è che viviamo in un’epoca di sostituzione dei mezzi rispetto ai fini. Nella nostra società gli strumenti, i mezzi, quali l’economia e la tecnologia, sono diventati gli scopi stessi dell’organizzazione sociale. Essi sono i fini supremi che hanno in qualche modo esautorato la politica, la cultura, i grandi temi collegati alla civiltà, alla tradizione e alla religione. In pratica si è voluto sostituire, anche nelle pratiche di vite, gli orizzonti finali dell’umanità con gli strumenti dell’economia e della tecnologia. Questo è il primo elemento che emerge nella nostra società. Il quale produce quell’alienazione radicale che caratterizza la nostra epoca.
Quanto all’idea di rivoluzione, essa viene ormai applicata soltanto agli oggetti, agli strumenti. Si usa infatti il termine rivoluzione solo a proposito della tecnologia, ma non si parla più di rivoluzione dei soggetti. Della rivoluzione intesa come elemento umano che riesce a cambiare gli assetti storici e politici, non se ne parla. Si è creato un determinismo che ha una base, diciamo, tecnologica e utilitaristica. Questo determinismo, inoltre, produce una sorta di espulsione di tutti i temi che hanno caratterizzato la condizione umana da quando noi abbiamo consapevolezza, cioè i temi collegati al senso del sacro, al pensiero, al senso storico, al legame comunitario e politico; tutto questo è diventato il patrimonio di un passato (ormai irripetibile), mentre il presente è giudicato soltanto attraverso la chiave dell’espansione di questi due mezzi tecnici, che sono per l’appunto, da una parte, l’economia, la finanza e il mercato globale; dall’altra, la tecnica, con il dominio planetario della tecnologia. Entrambi questi mezzi, dunque, costituiscono oggi gli unici nuovi elementi di riferimento per umanità.
Un finto ecumenismo sembra regnare sovrano fra i discorsi dei politici, quando, in realtà, tutti sanno che si tratta di una omologazione ai diktat dell’economia e dell’ordine politico neoliberista. È d’accordo sulla tesi secondo cui non esiste politica senza la consapevolezza dell’esistenza di un nemico?
R. In effetti, l’assenza del conflitto è uno dei lati più drammatici della nostra epoca. È come se il sottinteso fosse che noi abbiamo un’unica direzione da seguire e che, di conseguenza, il conflitto non esiste, non può esistere. Ciò che esiste è soltanto l’etichetta del bandito, del delinquente, del criminale. O, comunque, di colui che si sottrae a quest’ordine stabilito. Il quale, a sua volta, è fondato unicamente sull’idea dell’assenza di un futuro diverso rispetto al presente.
Dunque il conflitto viene ucciso nel momento in cui non si dà la possibilità dialettica di un confronto tra posizioni diverse. Un confronto che preveda sia la confluenza sia il conflitto. La possibilità dello scontro dev’esserci per forza quando si fa politica. Altrimenti nel momento in cui non c’è più questa possibilità, perché la direzione è unica e obbligata, praticamente si dà scacco matto alla politica. In pratica, una politica senza conflitto non ha più senso d’esistere, poiché non deve progettare niente, non deve raccogliere le tensioni e le aspettative di un popolo, non deve rappresentare il senso di una comunità (né l’appartenenza né tantomeno la prospettiva di un futuro di questa comunità). Quindi sparendo la politica sparisce anche il “nemico”. Esso non c’è più, perché il nemico, inteso in questo modo, è sempre colui il quale ha un percorso diverso rispetto al nostro. Nel momento in cui io riconosco l’esistenza di un nemico, gli conferisco anche legittimità. In quanto riconosco il fatto che lui abbia un percorso antagonista rispetto al mio. Quando si vuole cancellare la figura del nemico, perché si sostiene che esiste soltanto il criminale, il bandito, cioè colui che si sottrae a questa sorta di legge universale inderogabile, allora si è fatto cessare in una sola volta il criterio politico, l’idea di rivoluzione, il futuro e quindi, in ultima istanza, la libertà. Perché alla fine è il principio della libertà quello che viene negato quando si squalifica il proprio avversario politico usando l’etichetta di “demonio”.
È stato evocato il termine “sconfinamento”. Anche lei Veneziani utilizza spesso questa parola in relazione alla nostra epoca. La sociologia parla ormai da diversi anni della “liquidità” come di una delle caratteristiche predominanti nella società consumistica. Penso, ad esempio, agli studi molto importanti del sociologo polacco Zygmunt Bauman. E, in particolare, al suo famoso libro Modernità liquida (Laterza, 2002). È possibile ripartire da questo recupero del concetto di rivoluzione fisica e spirituale? Quali sono gli ostacoli principali che incontra la donna o l’uomo che si avvia in questa direzione?
Volendo tentare un discorso complessivo su quello che sta accadendo, io credo che se paragoniamo la nostra epoca alle epoche precedenti e se confrontiamo anche i sistemi di vita di oggi con quelli di ieri, ci troviamo di fronte sicuramente a dei motivi anche di fierezza e di orgoglio del presente. Noi viviamo nell’epoca con il maggior benessere, e quindi nell’epoca più longeva che la storia abbia mai conosciuto. Eppure, al tempo stesso, quello che noi avvertiamo è che stiamo quasi raggiungendo un punto di non ritorno. Ovvero stiamo perdendo delle condizioni che costituivano il modo di essere e di pensare degli uomini collegati al senso religioso, al senso politico, al senso delle radici, delle identità, della cultura. E la cosa più preoccupante è che non stiamo sostituendo questo universo di principi e di riferimenti con nulla se non con la pura espansione della potenza tecnico-economica.
La mia impressione è che il punto di non ritorno verso cui stiamo andando sia un punto di totale disumanizzazione in cui un giorno non ci accorgeremo più di aver smesso di pensare alla rivoluzione, smesso di pensare alla politica, smesso di collegarci alla storia, cioè smesso di riattivare le funzioni vitali basilari che attengono all’umanità; ma piuttosto ci renderemo conto di aver proprio smesso di pensare come uomini, delegando a intelligenze artificiali il compito di organizzare il nostro avvenire.
Stiamo scivolando in una condizione post-umana o dis-umana senza neanche accorgercene. Come fosse una comodità o un modo di vivere più agevole, più tecnologicamente avanzato rispetto al quale non ha senso porsi domande, perché ciò significherebbe soltanto rimpiangere il passato e attestarsi su posizioni che storicamente sono ormai superate. È questo il lato più drammatico della nostra epoca: il fatto che stiamo arrivando a un punto di non ritorno oltre il quale avremo la compiuta atrofizzazione di tutte quelle facoltà spirituali, mentali, di libertà, di dignità e di intelligenza che hanno costituito, nel bene nel male, l’umanità che conosciamo.
Perciò, da un lato, le condizioni materiali di esistenza, perlomeno in Occidente, sono le migliori rispetto a quelle di ogni altra epoca passata; ma, dal lato opposto, le condizioni spirituali, culturali e mentali della nostra esistenza procedono nella direzione di una totale alienazione. In un contesto simile qualunque discorso sulla rivoluzione, sull’evocazione dell’idea della figura di Cristo o, più semplicemente, la stessa idea di un cambiamento nemmeno inteso come rivoluzione ma come banale riforma della politica, diventa qualcosa di impraticabile. In quanto le cose si fanno indipendentemente dalle volontà dei soggetti e al di là dei processi storici e politici.
Forse, Veneziani, dobbiamo cogliere questo rifiuto di specchiarsi nel proprio orizzonte spirituale come un segno dei tempi apocalittici che stiamo attraversando? Se dovessimo arrivare a una conclusione un po’ netta di questa nostra densa conversazione, possiamo dire, senza tema di smentita, che oggi è la tradizione la vera rivoluzione?
Io credo che in effetti la tradizione possa costituire davvero un elemento importante per generare una rivoluzione. Perché la tradizione oggi è la vera trasgressione. Tutto ciò che in quest’epoca è in qualche modo controllato dal canone globale, se ci pensiamo, è esattamente il contrario dell’idea di tradizione. Quest’ordine globale permette solo ciò che si conforma al proprio tempo e che si separa da ogni tempo antecedente o che segue il nostro. Viviamo una continua e permanente frattura con il passato, con il futuro e con il senso dell’eterno che dovrebbe scaturire dal sentimento religioso della nostra vita. Ed è proprio lì che si verifica questa forma plumbea qual è la Cappa, cioè questa negazione di ogni altro orizzonte possibile rispetto a quello disumanizzante. Riuscire a ricollegare il presente al passato, il presente al futuro, il presente a qualcosa che trascende il presente e che quindi ha desiderio di eternità, costituisce davvero la vera rivoluzione rispetto alla nostra epoca.
Naturalmente tradizione non vuol dire culto del passato, ripetizione stanca e meccanica di ciò che è accaduto. Né può vuol dire tornare indietro. Semplicemente significa imparare a stabilire il senso della continuità e ritenere che noi ci troviamo all’interno di una catena rispetto a cui non siamo né l’anello terminale né l’apice dell’umanità. La verità è che noi siamo soltanto una parte di questa lunga storia. Occorre perciò ritrovare il senso del nostro limite e riaprirsi a questa idea della continuità.
In tal senso, credo che la tradizione rappresenti l’unica possibile rivoluzione che possiamo auspicare per l’oggi. Sicuramente la più radicale. Essa, se bene intesa, rimette in discussione l’idea che l’uomo sia soltanto un soggetto creato dal Caso. Chiarisce che l’essere umano non si auto-gestisce, non si auto-crea né si auto-distrugge. Al contrario, per la visione tradizionale l’umano è sempre dipendente da un sistema di relazioni, di eredità e di principi. I quali, naturalmente, vengono rielaborati dal soggetto con la sua intelligenza e con la sua libertà; ma, tuttavia, costituiscono il segno della sua appartenenza a un mondo che lui non ha creato e all’interno del quale si trova a vivere. La vera rivoluzione, quindi, consiste proprio nell’uscire da questo paradigma dominante, che non so se definire moderno, ultra-moderno o di fine della Modernità, ma che di certo ci ha ormai inglobato e ogni giorno di più ci sta costringendo a dimenticare la nostra umanità.
(Da AA.VV. Cristo in politica, ed. Paoline).
Tratto da: Marcello Veneziani Blog

