PARASSITI GEOPOLITICI

di Daniele Perra

Mi soffermo un attimo sull’affermazione di Donald J. Trump che, sostenendo la tesi del suo vice JD Vance, dichiara che gli europei sarebbero dei “parassiti”. Prima di tutto mi pare doveroso sottolineare il fatto che tali idee non siano particolarmente originali. Già Kissinger considerava gli europei come alleati deboli e inadeguati, troppo concentrati sullo sviluppo economico (e, di conseguenza, potenziali diretti concorrenti degli USA) e poco responsabili sul piano militare. Questi, anche secondo il vecchio stratega da poco scomparso, avrebbero dovuto spendere di più in armi anche per “armonizzarsi con gli interessi economici e globali degli Stati Uniti”. Esattamente ciò che chiede all’UE il presidente USA. Interessante anche il fatto che Washington voglia un’Europa più armata ma, al contempo, priva di sovranità militare, sotto suo diretto controllo per ciò che concerne gli approvvigionamenti energetici, separata dalla Russia (con la quale solo gli USA possono trattare) e totalmente divisa sul piano politico. Con buona pace dei grotteschi “patriots” europei, a Washington (a Trump e Vance stessi) poco interessa che questi raggiungano posizioni di potere in seno alle istituzioni europee; l’importante è che rappresentino una costante spina nel fianco per impedire una reale unità politica (i principali Stati europei devono sempre rimanere reciprocamente ostili – stessa strategia utilizzata in Sud America).

Infine, è curioso il fatto che l'”impero” parassitario per eccellenza (una Nazione, tra l’altro, nata e costruita sullo schiavismo) accusi qualcun altro di essere un parassita, ma questo appartiene al campo della “geopolitica critica” ed allo studio della propaganda come strumento per (ri)affermare precise relazioni di potere. Ad ogni modo, sul tema del parassitismo statunitense, riporto quanto scritto tempo fa in un articolo pubblicato sul sito informatico di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” dal titolo “Modelli geopolitici a confronto”.

Buona lettura.

Il teorico cinese Wang Huning è stato uno dei primi a sostenere la tesi secondo la quale per capire la strategia nazionale americana sia necessario in primo luogo capire il modo americano di essere Nazione: ovvero, osservare con attenzione il loro stile di vita prima di dare credito a ciò che appare nelle pubblicazioni geopolitiche dei loro Think Tank.

Huning, durante il suo soggiorno negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, giunse alla conclusione che il fondamento dello stile di vita americano è l’idea di ricchezza o prosperità. Tale prosperità (apparente o reale) si mantiene solo attraverso il flusso continuo di capitale internazionale nelle casse statunitensi. E per fare in modo che questo flusso di capitale si mantenga costante si rende necessario che la posizione egemonica del dollaro non venga in alcun modo intaccata. Questa è la reale fonte di potere che, per ora, mantiene gli Stati Uniti forti e prosperi.

Questo, naturalmente, comporta il quesito: come è stato possibile raggiungere tale posizione? La risposta va ricercata nella storia contemporanea. All’inizio della Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti erano uno dei Paesi con il più grande debito al mondo. Al termine del conflitto, invece, gli Stati Uniti erano un Paese creditore sul piano globale. Nel 1917, l’Intesa ricevette da Washington una linea di credito di 2,3 miliardi di dollari. Nel medesimo periodo, la Germania, sconfitta nella Battaglia dello Jutland (1916) e già sottoposta al blocco navale britannico, ottenne poco più di 27 milioni di marchi in aiuti esteri.

Di fatto, gli Stati Uniti sono stati tra i primi ad intendere la guerra esclusivamente come impresa economica nel momento in cui gli Imperi tradizionali europei, ancora convinti che la vittoria sarebbe stata determinata solo ed esclusivamente dalla forza degli eserciti sul campo (cosa possibile solo in caso di guerra lampo), erano ormai divenuti incompatibili con la base economica del capitalismo. La Prima Guerra Mondiale, dunque, è stato anche il primo conflitto in cui il flusso di capitale ha avuto un ruolo più importante del flusso di sangue inteso nel senso letterale del termine. Gli stessi Stati Uniti intervennero solo nel momento in cui erano ormai certi che non ci sarebbe stata nessuna sostanziale differenza tra vinti e vincitori (usciti entrambi con le ossa rotte dal conflitto). Questo perché l’obiettivo reale era quello di scalzare la Gran Bretagna dal ruolo di potenza talassocratica egemone sul piano globale. Obiettivo che sarà raggiunto solo a seguito della Seconda Guerra Mondiale e dopo che la stessa Gran Bretagna (grazie a quello che viene forse erroneamente definito come grande politico e stratega, Winston Churchill) contribuirà in modo determinante al suicidio suo e dell’Europa in generale.

Il 15 agosto 1971 è un’altra data fondamentale per la storia contemporanea e, soprattutto, per i fini di questa analisi. Quel giorno, il Presidente Richard Nixon annunciò la chiusura della cosiddetta golden window spezzando il legame tra dollaro e oro e tradendo il sistema creato a Bretton Woods. A partire da quella data, gli Stati Uniti hanno ottenuto il potere teorico di poter stampare dollari a volontà. Non solo, a seguito del conflitto arabo-israeliano del 1973 e di un accordo con l’OPEC, gli Stati Uniti ancorarono il dollaro al commercio globale del petrolio trasformando la loro moneta nell’unica valuta per il regolamento internazionale del traffico petrolifero. Così facendo, hanno imposto al mondo il principio secondo il quale per comprare petrolio servono dollari. Dunque, se un Paese ha bisogno di petrolio, ha bisogno anche dei dollari per poterlo comprare. La globalizzazione economica, in questo senso, è stato l’inevitabile risultato della globalizzazione del dollaro.

In questo senso, gli Stati Uniti, afferma l’ex generale dell’aeronautica dell’Esercito di Liberazione Popolare Qiao Liang, hanno dato vita alla prima civiltà finanziaria trasformando tutte le valute del mondo in accessori del dollaro. A partire dagli anni ’70, inoltre, hanno iniziato a delocalizzare le industrie manifatturiere di basso e medio livello nei Paesi in via di sviluppo (favorendone il consumo di ambiente e risorse) tenendo sul proprio territorio solo quelle con un alto valore aggiunto in termini tecnologici. Gli effetti nefasti di tali politiche hanno avuto modo di riflettersi sulla stessa economia americana nel momento in cui la crisi del 2007 ha messo in evidenza la sua natura esclusivamente virtuale a fronte dell’azzeramento del settore produttivo. Una tendenza che sia l’amministrazione Obama che quella Trump hanno cercato (fallendo) di controbilanciare. Di conseguenza, le fortune/sfortune statunitensi ancora per molto tempo si baseranno sulla capacità di Washington di concentrare/convogliare il flusso di capitali internazionali sul suo territorio generando crisi geopolitiche ed eliminando potenziali concorrenti.

In altri termini, gli Stati Uniti hanno dato vita ad un impero vuoto, totalmente parassitario, fondato sulla produzione di dollari mentre il resto del mondo produce la merce che viene scambiata con i dollari. La globalizzazione afferma Qiao Liang non è altro che una moda finanziaria tenuta in ostaggio dal dollaro americano.

PARASSITI GEOPOLITICI
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Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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