a cura di Luigi Leonetti
I paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale hanno subito, nel corso degli anni, una violentissima e martellante, azione rieducatoria. Quello che è stata instillato nei tedeschi, negli italiani e, negli ultimi, anni esteso praticamente a tutte le genti (compresi popoli che non hanno avuto ruolo attivo nella seconda guerra mondiale), è stato un generalizzato e totalizzante senso di colpa per quello che è universalmente noto come “l’olocausto”. Sono ben pochi i sociologi, teorici della comunicazione, storici o psicologi che non abbiano speso parole durissime nei confronti non solo del Terzo Reich, ma del popolo tedesco tutto così come ormai non si contano più i numerosi libri che parlano, se non dell’olocausto, almeno di quale sia la grande dignità del popolo ebraico. La rieducazione delle generazioni successive a quella che visse la seconda guerra mondiale è stata portata a compimento grazie ad un attacco a trecentosessanta gradi che ha coinvolto tutti i canali d’informazione dall’analisi storica al giornalismo, dalla sociologia alla psicologia, ma quello di gran lunga più persuasivo è quello che oggi definiamo non più “dell’arte” ma “dell’intrattenimento” (cinema, spettacoli televisivi, narrativa, musica). Di gran lunga Hollywood è stata una voce tanto influente da modificare i costumi di tutto il mondo omologandoli a quello americano. Non sarebbe insensato definire Hollywood il “Ministero di Cultura e Propaganda” dell’Internazionale ebraica, e il mezzo di cui dispone è dei più efficaci in assoluto, dato il coinvolgimento sinestetico che l’esperienza cinematografica comporta senza fornire necessariamente informazioni vere.
E infatti il cinema, è stato dal dopoguerra ad oggi, il mezzo principe di ogni campagna rieducatoria a stelle e strisce, non solo concernente in esclusiva i fatti della Seconda Guerra Mondiale. Si pensi soltanto, con riferimento alle tensioni internazionali attuali, quanti siano i personaggi negativi incarnati da attori cinesi o medio orientali, si pensi al periodo maccartista e ai trionfalismi anticomunisti celebrati negli anni ottanta dalle pellicole d’azione, oltre che, ovviamente, alle innumerevoli pellicole sull’olocausto. Va ricordato come, quasi a simbolico battesimo, le prime riprese cinematografiche riguardanti i campi di concentramento nazisti portino la firma di un cineasta di mestiere come Alfred Hitchcock…
…Eclatante, ma non isolato, è il caso della parola “nazionalsocialismo” ormai universalmente sostituita dalla sua forma contratta: “nazismo”, una parola monca non direttamente riconducibile ad un modello politico (socialismo nazionale), e che viene comunemente identificata con un generico sistema fondato sull’odio, la paura, la ghettizzazione e l’intolleranza verso i deboli. Sono moltissimi i film americani (che, piaccia o no, condizionano il linguaggio comune di tutto l’occidente), in cui si usa la parola “nazista” o “fascista” in contesti del tutto incoerenti con quello che le due parole, originariamente, significavano. In soldoni: nazismo(o fascismo)=male. Non si parla più di politica, ma di una sorta di dimensione spirituale negativa, una qualità umana sinonimo di malvagità. Un nazista non è un individuo interessato a un certo discorso politico, né un militante che ha vissuto negli anni del Terzo Reich in Germania, ma un “cattivo”, nel senso puro e totale che solo i bambini sanno dare a questa parola.
Se questo processo di indottrinamento, per quanto discutibile, è tipico nella prassi dei vincitori di una guerra, e sebbene la produzione di prodotti filmici o letterari da esportazione sia stata già di per sé di enorme portata nei cinquanta anni successivi alla fine della guerra, è con 1993, con l’uscita, cioè dello Spielberghiano Shindler’s list (opera benedetta anche da Bill Clinton che lo dirà la principale ispirazione per l’intervento in Bosnia) , che si passa da una produzione non sistematica, alla canonizzazione di un nuovo tipo di opera, ormai totalmente libera dai paletti della credibilità storica. Da allora, non passerà anno senza che vengano proposti al pubblico almeno un paio di film sull’olocausto, meglio se in concomitanza con le celebrazioni per il giorno della memoria. Curioso che il film venga accreditato come “documento”, quando si tratta della riduzione cinematografica di un romanzo di Thomas Keneally . Come “narrativa” il romanzo è catalogato, e così viene definito all’alba della sua prima edizione, datata 1986. Ma la definizione di “romanzo” viene sostituita dalle parole “opera” o “documento” sulle fascette promozionali in concomitanza con l’uscita del film del ‘93. Per quanto nel nostro Occidente, col superio ormai da anni colonizzato dalla lobby atlantico sionista, il film non abbia suscitato particolari scalpori, in paesi non ancora o non del tutto americanizzati, è stato percepito come una grande manifestazione di odio antitedesco, tanto che il primo ministro malese Mahahtir Mohamad ravvisò nell’opera uno strumento di colonizzazione culturale in quanto film che elogiava solo le virtù di un unico popolo e ne vietò l’importazione, ma l’indignazione planetaria e l’accusa di antisemitismo lo costrinsero a ritrattare nel giro di una manciata di mesi…
…Interessanti anche le opere di ripulitura ai danni di chiunque abbia preso le distanze dal film, a partire dalla ottantaseienne Vedova Shindler che smentì l’esistenza di una lista stilata dal marito, mentre asseriva di essere a conoscenza di una lista in cui si entrava dietro pagamento. Costretta a vedere più volte il film anche alla presenza di Clinton, finirà, forse per esasperazione, o forse perché ben foraggiata, a sposare la causa del film.
Nel giro di pochissimo, premiato con Golden Globe e Oscar vari, il film diventa un vero e proprio strumento didattico a uso e consumo delle scuole di mezzo mondo, in una sorta di lavaggio del cervello collettivo. La cosa curiosa, è osservare quanto le dichiarazioni degli spettatori usciti dalla sala, dei critici e degli storici spesso confondano “l’accaduto” con “il narrato”, e finiscono col considerare il film (da un punto di vista strettamente tecnico di ottima fattura) un documento. Ancora più significativo è osservare come molte dichiarazioni degli spettatori usciti dalla sala vertano più sull’indignazione, il disprezzo, il risentimento nei confronti dei nazisti (se non proprio del popolo tedesco) che non sulla qualità del film. Ma l’uscita al cinema e la proposizione nelle scuole è solo l’inizio giacché in più paesi, due anni dopo l’uscita del film, verranno effettuate delle serate a tema con la trasmissione del film senza interruzioni pubblicitarie, preceduto e seguito da dibattiti e documentari sulla Shoah.
L’immedesimazione emotiva è pure il meccanismo su cui fanno leva i musei dell’olocausto spuntanti in un po’ tutto il mondo, persino a due passi da Hiroshima, a suprema beffa della più dolorosa memoria recente del Giappone. L’obiettivo è chiaramente colonizzare le coscienze creando una sorta di “complesso” una sorta di precedente, un peccato originale che possa gravare su tutti dato lo storicamente inedito tentativo di trasformare il lutto di un popolo in un lutto di tutte le genti…
…Se le opere artistiche a tema sono tante, e abbiamo visto come oggi sia sicuramente un vero e proprio filone letterario/cinematografico quello delle storie a tema olocaustico, può essere interessante fare una digressione su quella che è in un certo senso il capostipite di tutte le opere “popolari” sulla materia e certamente il più noto: il Diario di Anna Frank.
La storia intorno a questo testo è piuttosto torbida e ricca di curiose e poco edificanti vicende giudiziarie che hanno visto protagonista il padre Otto relativamente ai diritti a lui spettanti su opera di intelletto, ma quello che interessa rilevare in questa sede è la violentissima campagna di repressione perpetrata contro chiunque abbia osato sollevare dei dubbi sulla veridicità del documento (dubbio assolutamente legittimo trattandosi di un prodotto letterario la cui vicenda riguardante stesura e ritrovamento è abbastanza rocambolesca e piena di zone d’ombra)vedendosi poi appioppare l’etichetta di “antisemita”, anche quando a parlare sono stati tecnici e studiosi di grafologia o di psicologia.
A ciò si aggiunga la reiterata sottrazione dei testi originali , tutelati dalla fondazione “Anna Frank” che si è occupata di recente di far uscire nuove edizioni aggiornate (?) del “diario” (oggi i diari), a perizie”.
Oltre a ciò, la certezza che ne esistano almeno dieci diverse bozze (due della quali ad opera del padre per eliminare parti scabrose) che sicuramente non aiutano a ritenere degno di fede un testo così rimaneggiato, sempre ammettendone la reale esistenza originale che, data la torbidezza delle acque intorno, meriterebbe perlomeno la possibilità di poterne dubitare l’esistenza. Nonostante tutto ciò, nonostante il legittimi dubbi, nonostante la consapevolezza che negli anni in cui il testo sarebbe stato scritto in Polonia le biro non fossero arrivate, porre dei semplici interrogativi sulla veridicità delle vicende narrate el’autenticità del testo è costato a molti la reputazione e spese processuali, e di recente si è definito ogni attacco a quell’opera “equivalente a un atto di terrorismo”(Rosellina Balbi).
Negli anni ottanta, quasi a voler rinvigorire la strenua difesa dell’autenticità del diario dimostrando che non si trattava di un caso isolato, si è avuto un florilegio di svariati miracolosi ritrovamenti analoghi, che hanno rimpolpato la schiera di opere di presunte “autentiche” memorie olocaustiche. Dato il volume di quei testi, i rocamboleschi ritrovamenti e le altrettante zone d’ombra sui ritrovamenti stessi o sull’identità degli autori, sono enormi i dubbi relativi alla autenticità di molti di essi come per il loro capostipite.
Di storie più o meno simili, tutelate da editori compiacenti e salutate come testi sacri da un’opinione pubblica appecorata ne sono state pubblicate moltissime, ma è interessante la vicenda del romanzo “sopravvivere coi lupi” di Miriam Defonseca, storia di una ragazzina ebrea scampata ai campi di concentramento. L’autrice la definisce “autobiografica” fino al 2008, quando le presunte origini ebraiche dalla Defonseca vengono smentite a tutta pagina dai giornali. Le bizzarre argomentazioni addotte dall’autrice per giustificarsi (rifiuto della propria famiglia, dolore, confusione senile), vengono prese per buone dalla critica ufficiale che fa prontamente uscire una nuova edizione dell’opera di fiction storica.
Ed è proprio quest’ultima espressione la chiave di lettura del monumentale impianto narrativo, letterario, cinematografico che si muove intorno all’olocausto. Quello che ormai ci viene mostrato non è documento storico e non è narrativa in senso stretto, ma una sorta di “zona grigia” entro la quale vengono inserite informazioni difficilmente verificabili o falsificabili tali da creare un substrato emotivo la cui eliminazione è ardua.
E questa “zona grigia”, se ha dei limiti stabiliti dalla verificabilità dei dati quando si parla di Storia in senso stretto, non conosce praticamente confini nel contesto più propriamente definito d’intrattenimento: dai film “di evasione” ai videogiochi, senza ignorare il mondo dei fumetti. In questi territori la licenza è data per scontata (si pensi alle pellicole definite “nazi-erotiche” degli anni settanta come “Ilsa la belva delle SS”, o semplicemente alla quadrilogia di Indiana Jones)e ha un pesante valore propagandistico, data la diffusione e soprattutto la violenza del mezzo: una stanza buia in cui si rimane immobili, in silenzio, bombardati da musica e immagini per il cinema, un ipnotico e “automatizzante” isolamento sensoriale per i videogiochi delle ultime generazioni, un silenzioso e autarchico silenzio per la lettura di libri o fumetti.
Particolarmente interessante, per l’effetto che può sortire su delle coscienze in via di sviluppo, è il caso dei videogiochi, vere e proprie “terre di nessuno”, mondi virtuali non raggiunti dall’occhio di un critico, un insegnante o un genitore, ma al contempo spaventosamente persuasive e suscettibili di “educare” un giovane con messaggi reiterati ossessivamente. Il mondo video ludico è forse quello che ha maggiormente contribuito, negli ultimi trent’anni alla costituzione di una sorta di superio antinazista, avendo preso per mano un’intera generazione dalla prima metà degli anni ottanta in poi con le simulazioni militari in cui è possibile rivivere le esperienze della seconda guerra mondiale (nella maggioranza dei casi schierati dalla parte dei “buoni” Alleati), o si deve fermare una qualche fantascientifica rinascita del nazismo (su tutti l’arcinota saga di Castle of Wolfenstein, nata nell’81 ed evolutasi di pari passo con l’evoluzione degli home computer, basata su storie riguardanti i soliti scienziati pazzi al soldo dei nazisti, mostri e eroici soldati pronti a spazzare via l’ingiustizia dalla faccia della terra)…
…Quello che forse un tempo era più legittimo definire “complotto” ma che oggi è lo stato delle cose contro il quale ben pochi protestano è un dispiegamento di forze su ogni piano del vivere civile: politica, polizia, istruzione, spettacolo, produzione accademica, informazione, economia. Dal secondo dopoguerra ad oggi queste entità impersonali hanno lavorato e tutt’ora lavorano per portare compimento una guerra contro lo spirito identitario (oggi europeo, ma presto mondiale, vista la luce in cui i giornali mettono da qualche anno Chavez), una lotta che ha luogo da duemila anni al servizio della profetica allucinazione sionista. E’ vero che non è facile districarsi da questa ragnatela informativo-istituzionale ed è altrettanto vero che chi lo fa si vede puntato contro l’indice dalle pecore che Orwell descriveva ne “la fattoria degli animali”, ma è altrettanto vero che, nonostante tutto ciò, esistono coscienze che per indole o per esperienze personali riescono a maturare una coscienza autonoma rispetto al Pensiero Unico. E quindi, di tanto in tanto, compaiono figure non allineate che sicuramente portano del nutrimento alle menti non del tutto addormentate. Le menti che, colte dal pessimismo, ritengono irreversibile il processo in corso sbagliano non nel considerare effettivamente drammatica la velocità della precipitazione attualmente in corso, ma nel ritenere che non sia possibile, se non invertire il processo in atto, perlomeno traghettare in mezzo a questo caos dei valori antitetici a quelli dell’establishment, con l’auspicio che possano germogliare esseri migliori nei prossimi tempi. Specie alla luce dell’attuale crisi economica, una vera e propria resa dei conti che potrebbe dare un drammatico scossone allo stato attuale delle cose. E’ in questa ottica che va organizzata l’unica possibile risposta alla marea atlantista: resistenza e trasmissione dello spirito europeo a coloro che verranno.

