a cura di Giuseppe Aiello
In un passaggio del Fut ūḥāt in cui Shaykh Al Akbar Ibn ‘arabi descrive vari tipi di santo (walāya), trae sorprendentemente la sua tipologia spirituale dall’etimologia di diversi termini coranici solitamente intesi come “miscredenti” (kāfir ūn), “impudenti” (fujjār), “invidiosi” ( ḥāsid ūn), o “stregoni” (sā ḥir ūn). I versi contenenti questi termini assumono quindi un significato radicalmente positivo secondo questa lettura “letterale” paradossale ma sempre linguisticamente corretta.
Ibn ʿArab ī giustifica questa lettura spiegando brevemente il suo metodo: “Prendiamo ogni qualità degna di colpa nel suo significato assoluto, e poi la determiniamo affinché sia lodevole. ”Ma, aggiunge, questa operazione ermeneutica non deriva dalla sua mente immaginativa, come in realtà è implicita dalla formulazione stessa della Rivelazione: “Tutto deriva dalla benedizione del Libro Madre (umm al-kitāb). ” Per lo Shaykh al-Akbar, l’ambivalenza radicale del vocabolario coranico è un aspetto della sua perfezione. Attraverso questa paradossale semantica, la Rivelazione fornisce al lettore, se presta molta attenzione all’etimologia o ai dettagli grammaticali della sua formulazione apparente, la profonda e unica esperienza di perplessità che ne manifesta la perfezione.
[Vandamme, Gregory. “Mu ḥy ī d-D īn b. ʿArabo ī. ” in Ermeneutica Cor ʾānica dal XIII al XIX secolo]

