di Lelio Antonio Deganutti
Di fronte al dramma che si consuma nella Striscia di Gaza, la parola genocidio torna con forza nel dibattito pubblico. Ma cosa intendiamo, davvero, quando la pronunciamo? È fondamentale distinguere tra due forme di genocidio, diverse nella loro manifestazione ma ugualmente distruttive nella sostanza.
Due tipi di genocidio
La prima è il genocidio per estinzione. È ciò che comunemente si immagina parlando di genocidio: l’annientamento fisico di un popolo, la sua cancellazione biologica e culturale. Ma questo tipo di genocidio è, in realtà, un ideal-tipo, per usare un concetto di Max Weber. Uno strumento teorico, euristico, utile per analizzare la realtà, ma che raramente si manifesta nella sua forma assoluta. Il genocidio per estinzione è un modello-limite: l’eliminazione completa di un gruppo umano come corpo fisico e simbolico.
Poi c’è un genocidio per distruzione, molto più frequente e insidioso: non si cancella un popolo fisicamente, ma lo si priva della possibilità di esistere come soggetto storico. Si eliminano la sua volontà politica, la sua capacità di autodeterminazione, i suoi strumenti materiali e simbolici per costruire un futuro. Non si uccidono necessariamente tutti gli individui, ma si distrugge la condizione collettiva per decidere, vivere, rappresentarsi. È la morte della storia di un popolo, prima ancora del suo corpo.
Gaza: la distruzione di un popolo come soggetto
Quello che accade a Gaza oggi non è solo una guerra, né solo una crisi umanitaria. È un processo sistematico di smantellamento delle condizioni di esistenza politica del popolo palestinese. La distruzione delle infrastrutture civili, la paralisi delle istituzioni, il soffocamento economico, l’assedio prolungato, l’isolamento, il bombardamento delle scuole e degli ospedali, non puntano solo a colpire Hamas o a rispondere a un attacco, ma a impedire che quel popolo possa mai ricostruire un soggetto politico.
In questo senso, Gaza oggi è un caso emblematico di genocidio per distruzione. Come lo furono, in forme e tempi differenti, la Shoah ebraica, il genocidio armeno, o lo sterminio degli indiani d’America, privati delle loro terre, dei loro strumenti sociali, e della possibilità di essere altro che sopravvissuti marginali nel racconto della storia dominante.
Il dovere di nominare
Riconoscere questo non è un atto ideologico, ma una scelta di rigore morale e intellettuale. Dare il nome giusto a ciò che accade significa non anestetizzare la coscienza, non accettare l’inerzia dell’orrore.
Il genocidio per distruzione è più difficile da vedere, perché non sempre si traduce in fosse comuni o camere a gas. Ma è altrettanto reale, e spesso più duraturo, perché uccide la possibilità stessa di futuro. E questa, nel XXI secolo, è una delle forme più perverse del potere: decidere chi ha diritto di essere storia e chi no.
Tratto da: Assadakah News

