di Filippo Goti
Le Chiese neo-evangeliche americane si distinguono per una peculiare triade teologica: il millenarismo, l’interpretazione letterale dell’Antico Testamento e un ferreo sostegno a Israele. Questo trittico non è frutto di coincidenze storiche o inclinazioni culturali passeggere, bensì il risultato di un’elaborazione escatologica ben precisa, sviluppatasi nel cuore del protestantesimo statunitense a partire dal XIX secolo, con radici nella predicazione dispensazionalista.
MILLENARISMO. La visione millenarista — ossia l’attesa del regno di Cristo sulla terra per mille anni, come descritto nell’Apocalisse — ha avuto un grande successo in America grazie alla sua potenza narrativa e alla sua capacità di conferire senso e direzione alla storia. L’America evangelica si concepisce come popolo eletto, destinato a sostenere il compimento profetico. Da qui il forte senso di missione e l’ossessione per i “segni dei tempi”, che porta molti credenti a interpretare gli eventi geopolitici come tappe necessarie dell’avvento e allo scontro finale.
INTERPRETAZIONE LETTERALE. A differenza della tradizione cristiana più antica, che leggeva l’Antico Testamento alla luce del Nuovo (e spesso in senso allegorico), le chiese neo-evangeliche adottano un approccio letteralista. I testi veterotestamentari non sono più anticipazioni che trovano completamento e superamento nella nuova novella portata da Gesù, ma cronache fedeli e prescrizioni eterne. Ciò comporta una sacralizzazione dei racconti storici d’Israele e delle sue alleanze, comprese quelle territoriali, considerate ancora oggi valide e vincolanti.
ISRAELE. Proprio in virtù di tale lettura letteralista, Israele non è più solo una realtà politica contemporanea, ma l’attore centrale del dramma escatologico. Molti evangelici ritengono che la ricostituzione dello Stato d’Israele nel 1948 sia il compimento di una profezia biblica. La sua esistenza e la sua sopravvivenza sono viste come condizioni necessarie per il ritorno del Messia. Questo ha generato un sostegno incondizionato a Israele, non solo in campo religioso ma anche politico e finanziario, rendendo tale alleanza una delle più solide nel panorama geopolitico globale.
Ecco quindi come queste tre componenti, terreno fertile per ogni fanatismo, abbiano determinato la saldatura – ovviamente incentivata e ovviamente pilotata – con quello che possiamo definire il sionismo della Grande Israele. Dove ogni conflitto che coinvolge il “popolo eletto del Dio Tetragrammatico” è visto come un preludio o un decorso dell’ultimo conflitto che coinvolgerà Sion.
Organizzazioni come Christians United for Israel (CUFI), guidate da figure carismatiche come il pastore John Hagee, hanno esercitato un’influenza straordinaria sulla politica statunitense, in particolare durante le campagne elettorali di Donald Trump. Attraverso una visione teologica che interpreta il sostegno incondizionato a Israele come parte integrante del disegno divino, CUFI ha mobilitato milioni di evangelici americani, trasformando la fede in un potente strumento di pressione politica.
Questa alleanza tra religione e strategia elettorale ha avuto effetti tangibili: dalla modifica della piattaforma del Partito Repubblicano per includere il riconoscimento di Gerusalemme come capitale “indivisa” di Israele, fino alla benedizione dell’ambasciata americana a Gerusalemme da parte dello stesso Hagee. Il sostegno a politiche israeliane controverse, come l’espansione degli insediamenti nei territori occupati, è stato giustificato non solo in termini geopolitici, ma come atto di obbedienza spirituale. In questo contesto, Trump ha saputo intercettare e valorizzare il consenso di questa base religiosa, riconoscendone il peso elettorale e integrandone le istanze nella propria agenda politica. Il risultato è stato un patto implicito: sostegno politico in cambio di legittimazione teologica, finanziamenti e appoggio elettorale.
Una dinamica che ha ridefinito i confini tra fede, diplomazia e potere.

