a cura di Carlo Weiblingen
In modo sempre più preciso e stringente, la pagine appena lette hanno colto un insegnamento: anche quando è dio, il guerriero è per sua natura esposto al peccato; è costretto, per la sua funzione ed a vantaggio del bene generale, a commettere dei peccati; ma ben presto supera questo limite e pecca contro gli ideali di tutti i livelli funzionali, compreso il suo. La nostra prospettiva non sarà tuttavia completa e proporzionata se non esaminassimo la nozione di peccato in rapporto agli dei di ciascuna delle tre funzioni.
La singolarità del dio guerriero apparirà ancora meglio: Mitra, Varuna, per definizione non peccano: gli Asvin non pensano a peccare; solo in Indra si incontrano sia la tentazione che i mezzi per agire male.
Come potrebbero peccare Mitra, Varuna o gli altri Aditya? Essi fanno corpo col rta, l’ordine sia morale che cosmico e rituale, che essi hanno creato, conservano, reintegrano. Più dolce, più sfumato e rassicurante con Mitra, più rigoroso, perfino terribile con Varuna, il principio d’azione di questi dei è sempre il rta; nel caso di Varuna esso è quasi, si direbbe, la “sua passione”. Essi sono nel rta meno di quanto il rta non sia in loro. Ora, il peccato si definisce soltanto in rapporto al rta, di cui è violazione, negazione (anrta). Le azioni di questi dei, per quanto sorprendenti appaiano talvolta alla coscienza moderna, sono conformi al rta. Le violenze, i colpi improvvisi, le punizioni impietose di Varuna e tutto ciò che lo apparenta agli asura demoniaci, lui, il grande Asura, non sono dei peccati.
Come potrebbero peccare gli Asvin al terzo livello? L’intera loro funzione, l’intera loro natura è d’essere benevoli e benefattori, come i gemelli greci. Gli inni loro rivolti non sono che dei cataloghi, delle serie di allusioni ai numerosi servizi che hanno reso. D’altra parte, per peccare, occorre opporsi al rta e questi dei così utili si interessano poco all’ordine del mondo. Non conoscono che umili casi particolari, il Tale, il Tale e il Talaltro, in preda a precise difficoltà. Né il poeta né il lettore si curano di discutere se essi operino in modo conforme o no al rta: sì, senza dubbio, perché sono buoni; ma la cosa non ha importanza: come i buoni santi taumaturghi delle nostre leggende occidentali, l’ambito delle loro attività, è quello della carità, anziché della giustizia.
Indra, in se stesso, e i suoi guerrieri, hanno ricevuto un incarico cosmico o sociale ben diverso. Non possono ignorare l’ordine, poiché la loro funzione è di custodirlo contro le infinite iniziative demoniache o ostili. Ma per svolgere questo compito, devono innanzitutto possedere e mantenere, per proprio conto, delle qualità che assomigliano molto ai difetti dei loro avversari. Anche nella battaglia, per non incorrere in una sicura disfatta, devono rispondere all’audacia, alla sorpresa, alle finte, ai tradimenti, con operazioni dello stesso stile, solo più efficaci; ebbri o esaltati, devono porsi in uno stato nervoso, muscolare, mentale, che moltiplica e amplifica la loro potenza, che li trasfigura, ma anche li sfigura, li rende estranei nel gruppo che proteggono; e soprattutto, consacrati alla Forza, sono vittime trionfanti della logica interna della Forza, che dà prova di sé solo oltrepassando i limiti, anche i propri, anche quelli della propria ragion d’essere, e che si rassicura non solo essendo forte davanti a questo o quell’avversario, in tale o talaltra situazione, ma forte in sé, più di tutti – superlativo pericoloso per un’entità del secondo rango.
Ricordiamo tuttavia il punto, da tener presente, in cui le fatalità del guerriero riottengono un vantaggio: quando il rta è in sé duro, inumano, o quando la sua applicazione rigida produce il summum ius del proverbio occidentale, opporsi al rta, riformarlo o violarlo è certamente un peccato, nella prospettiva di Varuna, ma un progresso, nel linguaggio degli uomini. In un capitolo di Mitra-Varuna (VI, Nexum et mutuum), dove certi fatti giuridici romani sono stati trattati con leggerezza, ma di cui il resto e l’impostazione generale conservano una loro validità, si è studiata questa opposizione benefica di Indra e Varuna, della morale dell’Eroe alla morale del Sovrano, in special modo le tradizioni indiane che attribuiscono a Indra il merito di aver salvato in extremis delle vittime umane oppure di aver sostituito il rituale in cui muore solo un cavallo al vecchio rituale varunico di consacrazione regale, contrassegnato dalla pratica o dal ricordo di sacrifici umani.
“Non ci si meraviglierà, scrivevamo circa trent’anni fa, che il dio delle società maschili, che sono peraltro per tanti aspetti terribili, appaia, nella favola indiana, come un dio misericordioso, in opposizione al Legatore mago, come il dio che scioglie le vittime regolari, le vittime umane di Varuna: il guerriero e lo stregone o, su un altro piano, il soldato e il poliziotto attentano in eguale misura, quando occorre, alla libertà e alla vita dei loro simili, ma ciascuno opera con procedure che all’altro ripugnano. E soprattutto il guerriero, per il fatto che si mette ai margini o al di sopra del codice, si attribuisce il diritto di risparmiare, il diritto di rompere, fra gli altri meccanismi normali, quello della giustizia rigorosa, insomma il diritto di introdurre entro il determinismo dei rapporti umani questo miracolo: l’umanità”.
[Georges DUMEZIL – Ventura e sventura del guerriero]

