di Lelio Antonio Deganutti
28 Giugno 2025
Nel mondo contemporaneo, la tensione tra valori dichiarati e azioni concrete degli Stati occidentali si è fatta sempre più evidente. Alla luce degli ultimi anni di conflitti, alleanze ambigue e doppie morali, cresce l’impressione che la politica dell’Occidente sia scivolata definitivamente nella realpolitik: quella concezione della politica estera fondata non su principi etici o giuridici, ma sulla nuda logica degli interessi e dei rapporti di forza. A quasi quattro secoli dalla pubblicazione del Leviatano, Thomas Hobbes sembra aver avuto la meglio: nella giungla delle relazioni internazionali, domina il più forte, e il diritto è ciò che il potere impone.
La morte lenta del diritto internazionale
Il diritto internazionale — nato nel dopoguerra come strumento per garantire la pace e l’ordine tra le nazioni — oggi appare svuotato di efficacia. Le Nazioni Unite sono ridotte a un’arena diplomatica impotente, dove il veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza paralizza ogni azione concreta. Gli esempi sono numerosi:
Interventi militari unilaterali, spesso giustificati con pretesti morali, avvengono senza mandato ONU (Jugoslavia, Iraq, Libia, Siria).
Sanzioni economiche vengono imposte da alcune potenze senza approvazione collettiva, diventando strumenti di pressione geopolitica anziché di giustizia.
Il diritto all’autodeterminazione dei popoli è invocato o ignorato secondo convenienza (vedi Kosovo vs. Palestina vs. Crimea vs. Nagorno-Karabakh).
La Corte Penale Internazionale è riconosciuta o rigettata a seconda degli interessi: i crimini dei “nemici” sono giudicati, quelli degli “alleati” dimenticati.
Questa applicazione selettiva delle norme mina la credibilità del diritto internazionale e lo trasforma in uno strumento decorativo, utile solo quando coincide con l’interesse delle grandi potenze.
L’Occidente tra valori proclamati e interessi perseguiti
Le democrazie occidentali continuano a presentarsi come paladine della libertà, della legalità e dei diritti umani. Ma il divario tra retorica e prassi si allarga:
Si condanna l’aggressione russa in Ucraina (giustamente), ma si tace su altre occupazioni o repressioni se perpetrate da alleati strategici.
Si sostiene la democrazia, ma si finanziano regimi autoritari amici. Si difende la libertà di espressione, ma si reprimono media alternativi quando mettono in discussione la narrativa ufficiale.
In nome della “stabilità”, della “sicurezza energetica” o del “contenimento dell’avversario”, tutto diventa giustificabile. Il diritto dei popoli si dissolve dietro le quinte della geopolitica.
Hobbes ha vinto?
Thomas Hobbes sosteneva che, in assenza di un potere sovrano capace di imporre l’ordine, gli uomini vivono in uno stato di natura in cui la vita è “solitaria, povera, brutale e breve”. Lo stesso vale per gli Stati: senza una autorità sovranazionale dotata di forza coercitiva, non esiste vera giustizia tra le nazioni. Solo equilibri di potere, instabili e provvisori.
Alla luce dell’attuale panorama mondiale, sembra che la visione hobbesiana si sia pienamente realizzata. Le istituzioni sovranazionali non hanno più autorità reale. Le regole sono piegate o ignorate. E la pace non è garantita dal diritto, ma dalla deterrenza militare e dall’interesse reciproco.
Una via d’uscita è ancora possibile? Il richiamo di Jünger
Nel panorama attuale, dove il diritto internazionale sembra soccombere sotto il peso della forza, la via d’uscita appare angusta e impervia. Ma non necessariamente inesistente.
Il pensiero di Ernst Jünger, lucido osservatore del XX secolo, offre uno sguardo disilluso ma profondo sulle dinamiche di potere e sul destino dell’individuo moderno. In opere come Il Trattato del Ribelle (Der Waldgang), Jünger individua nella figura dell’“anarca” — distinto dall’anarchico — un modello di resistenza interiore e di libertà autentica. L’anarca non si illude di poter cambiare il sistema con la forza, né si sottomette ad esso: si sottrae, lo attraversa come un estraneo, rimanendo fedele a una legge superiore.
“Chi ha superato la paura è libero. E chi è libero può scegliere.”
— Ernst Jünger, Il Trattato del Ribelle
In questo senso, la ribellione non è violenta ma spirituale: è un atto di sovranità personale in un mondo dominato da forze impersonali e opprimenti. L’anarca non cerca il potere, ma la dignità; non combatte per conquistare, ma per non essere conquistato.
Applicato al mondo contemporaneo, questo insegnamento suggerisce che una rigenerazione dell’ordine non verrà dall’alto, dalle istituzioni decadenti o dalle superpotenze, ma dal basso: dalla coscienza dei singoli, dai popoli che rifiutano di piegarsi alla logica della forza e riscoprono una fedeltà a principi eterni.
Hobbes può aver vinto sul piano delle strutture di potere, ma non sul piano dell’anima. Finché esisteranno uomini e donne capaci di pensiero critico, di coraggio morale e di fedeltà a un ordine più alto del tornaconto, il diritto non sarà morto: sarà in esilio, ma vivo.
La storia non è finita. Può ancora nascere un nuovo ordine. Ma non sorgerà da vertici diplomatici o da guerre preventive, bensì da un ritorno alla verità, alla misura e alla libertà interiore. Come scriveva Jünger, “il bosco è ovunque”: bisogna solo trovare il sentiero.
Tratto da: BYOBLU24

