a cura di Giuseppe Aiello
“Egli mi invocherà e io gli risponderò” – Salmi 91:15
“Invocami e io risponderò” – Corano 40:60
Le autorità classiche del Sufismo, nelle loro riflessioni sulla preghiera di supplica, hanno presentato alcune ragioni per cui la risposta di Dio potrebbe non apparire sempre nella forma desiderata, nonostante la sincerità della preghiera.
Può darsi che la saggezza, la prescienza e la benevolenza divine Gli impediscano di esaudire il desiderio del supplicante.
Anche se la preghiera può sembrare del tutto giustificata, può comportare conseguenze impreviste e dannose. Queste sono quelle che il supplicante realizzerebbe solo dopo aver ricevuto ciò che ha chiesto, ma che non aveva modo di prevedere in anticipo a causa della sua miopia.
A tal proposito, si racconta la storia del santo asceta Ma‘rūf al-Karkhī (m. 815). Un giorno, durante un’assemblea di discepoli e compagni, un uomo si avvicinò a lui lamentandosi del furto di una borsa contenente una grossa somma di denaro. Chiese al sant’uomo di pregare per la restituzione della refurtiva. Ma‘rūf rimase in silenzio. L’uomo insistette nella sua richiesta. “Cosa dovrei dire (a Dio)?” Ma‘rūf alla fine replicò: “Che Tu gli dia ciò che hai privato dei Tuoi profeti e dei Tuoi puri?”.
Un uomo presente all’assemblea si alzò e chiese al maestro spirituale di recitare comunque una preghiera, forse intuendo la disperazione dell’uomo. Ma‘rūf allora pregò: “O Dio, dagli ciò che è buono (per lui)”.
La natura aperta e generica della du‘ā di Ma‘rūf aveva lo scopo di proteggere l’uomo dalle ripercussioni che una preghiera specifica, diretta alla restituzione di una somma di denaro così ingente, avrebbe potuto avere.
Fu questa stessa consapevolezza a portare Jalāl al-Dīn Rūmī (m. 1273) a dichiarare: “Molte preghiere, se ascoltate, comporterebbero la distruzione, ed è saggezza divina non esaudirle”.
Molte autorità esegetiche e sufi attirarono anche l’attenzione sul valore della preghiera di supplica in sé e per sé, sottolineando la capacità di tale preghiera di creare un legame di comunicazione tra il divino e l’umano.
Gli scrittori più contemplativi notarono che tale legame aveva un valore maggiore di qualsiasi richiesta si potesse formulare. In quest’ottica, la risposta alla richiesta può essere vista come la preghiera di richiesta stessa, attraverso la quale l’essere umano viene introdotto in un’intima relazione con Dio. In effetti, fu proprio questa considerazione a portare un antico saggio musulmano a dichiarare che “il permesso (da Dio) di fare una preghiera di richiesta è migliore, per il servo. del dono stesso (che egli cerca)”.
I pensatori classici riconoscevano anche il valore delle afflizioni che volgevano l’uomo a Dio nella preghiera, consapevoli del fatto che il legame stabilito tra Dio e l’essere umano nella preghiera non sarebbe sorto senza l’esperienza del bisogno e della miseria.
Fu proprio questa consapevolezza che portò Ibn ‘Abbās (m. 687 d.C.) ad affermare che “Dio affliggerà un servo con la povertà, desideroso della sua preghiera supplichevole”, un tema che sarebbe stato sviluppato da scrittori successivi, forse in modo più poetico da Rumi, che disse del supplicante che Dio è “compiaciuto dalla sua voce, dal suo dire ‘Oh Dio!’ e dalle sue preghiere segrete”. Nella misura in cui Dio mette spesso l’essere umano in condizioni di sofferenza, Rumi lo paragonò a coloro che “mettono in gabbia pappagalli e usignoli per udire il suono dei loro dolci canti”. Attraverso questa immagine, il poeta persiano cercò di attirare l’attenzione sul valore dell’afflizione nella misura in cui mantiene l’essere umano legato a Dio attraverso la preghiera supplichevole. Ecco perché Rumi in un’occasione fece dire a Dio del supplicante: “Non è perché sia spregevole che ritardo il Mio dono a lui”.
Qushayri cita persino una tradizione che attribuisce al Profeta (pace e benedizioni su di lui) in cui Dio comanda agli angeli di rispondere rapidamente alle richieste di coloro le cui voci detesta udire, così da non dover sopportare di ascoltarle, mentre comanda agli angeli di ritardare l’esaudimento delle richieste di coloro che ama, a causa del Suo piacere nell’ascoltare le loro umili suppliche.
Fakhr al-Din al-Rāzī sosteneva che lo scopo primario della supplica non risiedesse nel tentativo di ottenere l’oggetto del proprio desiderio, ma nel raggiungere uno stato di “prossimità” (qurba) con Dio. In effetti, considerava lo stato ideale di du`ā quello in cui il supplicante dimenticasse persino l’oggetto della sua preghiera. Nel suo commento a Corano 40:60, dichiarò senza mezzi termini che “finché il pensiero del supplicante è rivolto a qualcosa di diverso da Dio, egli non è un supplicante (in realtà)”.

