di Lorenzo Di Chiara
Vorrei spendere due parole sugli elogi dello “spirito mediterraneo” che, specialmente nel periodo estivo, mi capita di leggere in qua e là sulla bacheca di qualche amico.
Andrò dritto al punto, dicendo come la penso in merito ad una questione che spesso provoca perfino polemiche in un contesto nel quale, invece, sarebbe fruttuoso essere aperti ad altre prospettive.
Personalmente, sono portato a tener ben presenti tutti quei grandi uomini di lettere ed artisti del passato (pensiamo solo a Goethe e ad Hölderlin) che, in quanto legati al settentrione del mondo, amarono profondamente e si sentirono irresistibilmente attratti dalle chiarezze mediterranee e dall’azzurro profondo dei nostri mari.
Ma proprio questi alti esempi ci dovrebbero portare a realizzare una consapevolezza: che per amare veramente il “Mediterraneo”, per coglierne l’anima profonda e sentirne – starei per dire – la dimensione tragica, bisogna essere dotati di uno spirito non già “mediterraneo” (si intenda qui ciò che descrive Ludwig Ferdinand Clauss quando parla dell'”uomo della rappresentazione” nella sua Rassenpsychologie), bensì nordico. Bisogna, in altre parole, aver realizzato dentro di sé quella che autori come Hans F. K. Günther e Adriano Romualdi chiamavano “l’unità nordica dei popoli indoeuropei”.
A molti peraltro piace citare Evola: ed Evola cosa diceva? Perché non si riprende lo scritto sul mondo del Nord e lo spirito olimpico pubblicato in “L’arco e la clava” e perché non pure diverse considerazioni contenute ne “Gli uomini e le rovine”?
Ma perché questo? La risposta ce la offre Oswald Spengler:
«Il paesaggio nordico dell’era glaciale è morto, ostile alla vita, poi lentamente si desta alla vita […]. Esso continua però ad essere ostile alla vita, a causa di inverni duri, coltri di neve, masse di ghiaccio […]. La durezza di questo destino, di essere nati qui, ha formato la forza dell’anima […]. Con questi popoli del Nord, con queste stirpi di eroi, di un eroismo etico, pathos della distanza, idea del valore personale, abnegazione e sentimenti virili, spunta una nuova gemma nel mondo dell’uomo».
Questa nuova gemma è, s’intende, lo spirito della civiltà indoeuropea del carro da guerra, di origine nordica. Spirito che si estende anche nel Mediterraneo portando con sé, però, il ricordo e l’attitudine etica della patria primordiale.
Ecco perché sostengo che non possiamo dirci veramente “mediterranei” se non ci accostiamo a questo paesaggio con spirito nordico. Innegabilmente – come ben spiega Spengler e come aveva già compreso il Conte De Gobineau – è dal Nord che scaturisce quell’anima temprata dai più grandi sacrifici che ha fatto grande la storia d’Europa, anche quella apparentemente “mediterranea”. Ed è vero che, durante i secoli della storia, nel Sud si è sempre richiesto, ciclicamente, un apporto di sangue nordico affinché la tensione restasse alta, affinché “non ci si sciogliesse al sole”. Si legge l’epica omerica e ci si esalta con la lirica dorica di Pindaro, ma si dimentica spesso che proprio in questi grandi nomi si esprime un’indole nordica. La voce severa di Sparta, cantata da Karl Otfried Müller, è, in fin dei conti, l’autentica voce del Nord insediatosi nel bel mezzo del Mediterraneo. È la voce del silenzio nordico, la voce che si è scolpita nella nuda colonna dorica senza basamento.
Ma c’è anche dell’altro. C’è lo spirito propriamente teutonico e romantico, del quale noi “classici, felici e chiari” mediterranei non dovremmo mai fare a meno. Non è affatto un caso che il Romanticismo abbia visto la luce nel chiaroscuro delle foreste germaniche. Perché il Nord ci abitua al dolore, alla sopportazione della sofferenza. Wotan è il dio monocolo che soffre per eccellenza, che si è sacrificato per la conoscenza dell’avvenire (come il greco Prometeo), ma che malgrado tutto accetta gioiosamente e tragicamente questo dolore in nome di una vita rigenerata. Il Nord ci pone sempre delle sfide, ci mette faccia a faccia con la morte e il bisogno, ci dice, parlandoci attraverso il suo paesaggio selvaggio e inospitale, che la luce va conquistata (il rito del solstizio d’inverno riscopre il suo senso soprattutto dove di luce ve ne è poca), che ogni palmo di terra deve essere guadagnato con la forza della volontà, col sacrificio personale, con lo slancio eroico di chi non si cura del “presente che fugge” (di cui il “dolce far niente” italiano è una rappresentazione), ma dà a se stesso una progettualità cui prestare il proprio lavoro e la propria cura. Fra tutti, Knut Hamsun è colui che ha colto nel modo più poetico questo lato dell’anima nordica. La Germania si ritenne, non a torto, la terra del mezzo, attaccata da tutte le parti, la terra nella quale ogni quiete è un miraggio: lo spirito prussiano sgorgò da lì. Ed è sempre il Nord ad insegnarci l’essere per la morte di cui parla Heidegger, a ricordarci che, in fondo, siamo degli esseri finiti e a tempo che tuttavia esistono per combattere per la propria affermazione terrestre, per il proprio superamento esistenziale. Nietzsche, è vero, amava il Mediterraneo: ma era un nordico. La dottrina della volontà di potenza e dell’eterno ritorno, benché gli facesse fatica riconoscerlo per spirito di polemica contro i suoi, è nordica.
Se non si tiene presente tutto questo, a mio giudizio, si rischia seriamente di “morire di eternità”; si rischia di venire meno a quella sana tensione che non può fare a meno di riguardarci, giacché noi non siamo né dèi né animali: siamo esseri storici, finiti, provvisori, esseri che tuttavia proprio di questa finitudine e provvisorietà possono fare l’arma per la propria vittoria.
E tutto questo, questo spirito di lotta perseverante e senza compimento, solo il Grande Nord può insegnarcelo.

