a cura di Franco Giovi
Dedicato alla memoria di Pio Filippani Ronconi, guerriero.
Mi permetto qui di accennare qualcosa su un fenomeno, noto anche nel passato europeo (penso ai Templari, monaci guerrieri) ma che in Giappone è stato un fatto unico, durato il tempo di divenire quasi la spina dorsale di una cultura complessa e che, per certi versi, si è estinto abbastanza recentemente.
Di cosa sto parlando? Dell’anima guerriera, divenuta inconcepibile nei nostri poco luminosi giorni, sfrattata dai luoghi comuni dei molti maître à penser contemporanei, che l’hanno portata al biasimo collettivo o persino al disprezzo e all’orrore (mi sovviene l’irrisione degli straccioni brechtiani verso gli eroi).
Parlo dell’anima guerriera che incontra felicemente lo Zen: nel XII secolo la nobiltà guerriera delle province con i vassalli, costituiti da bushi (guerrieri) o samurai, si affermò sulla nobiltà di corte e impose il costume virile e marziale che manterrà tali caratteristiche sino al XIX secolo.
Al contempo cresceva e si affermava la corrente buddistica dello Zen, altrettanto severa e virile nella disciplina ascetica, libera da speculazioni dottrinarie e da ritualismi.
L’incontro fu spontaneo: il tipo guerriero trovò nello Zen un percorso interiore congeniale alla sua natura, d’altra parte lo Zen trovò tra i samurai, più che in altre classi sociali, individui disciplinati nel «tirare avanti diritti, senza voltarsi indietro e senza porsi alcun problema».
Da allora lo Zen divenne in prevalenza la via interiore del samurai: il bushi, abbracciando lo Zen, diede come risultato un carattere unico e irripetibile nella storia del genere umano.
Nel periodo Kamakura (e nel successivo, detto degli Ashikaga), allo spirito giapponese si offrirono due strade: la via del monaco e la via del guerriero (di fatto, pure l’Occidente ebbe una stagione simile). Poi la seconda, se non finiva precocemente con la morte in battaglia, confluiva naturalmente nella prima: i grandi guerrieri si ritiravano nei monasteri, terminando la vita in meditazione e contemplazione.
In tempi (secoli) di continue guerre, il bushi dal monacale cranio rasato, assai spesso continuava a servire il proprio signore, mentre anche i monaci armati (come i “cavalieri della montagna” della setta Tendai) guerreggiavano per proprio conto. A questo punto il lettore può chiedersi dove fossero finiti la compassione e l’amore universale che sono ancora la bella bandiera del buddhismo.
Allora andrebbe chiarita l’esistenza di un buddhismo popolare, devoto e religioso, e lì accanto il più impercepito ramo del buddhismo iniziatico e reintegrativo.
Lo Zen, in quanto dottrina jiriki (il “fare da sé” senza appoggi esterni, sensibili o metafisici), appartiene al buddhismo operativo. Il buddhismo originario (e in ciò Evola non ha torto) fu prevalentemente dottrina di classi guerriere: l’ascesi richiede un animo kshatriya (forse che ora sia del tutto diverso?). Il Buddha storico fu di stirpe regale e anche il grande Bodhidharma, secondo le leggende, fu di stirpe regale: giunto in Cina, insieme agli insegnamenti del Buddha insegnò pure a combattere a mani nude.
Inoltre è noto che la “retta condotta” non venne considerata come una morale autonoma, ma uno stadio preparatorio che si abbandona “come una zattera” lungo una via che supera le antitesi di “bene” e “male”.
E, ritornando alla specifica ascesi, valeva il detto: «Quando esci di casa dimentica moglie e figli, quando impugni la spada dimentica il corpo». Troviamo maggiori specifiche nell’Hagakure (testo del XVII secolo) che significa “Nascosto sotto le foglie”, indicativo di modestia e segretezza. «…Quando stai sul campo di battaglia chiudi la mente al ragionare, se ti dai al ragionare sei perduto. Il ragionamento ti priva di quella forza con la quale puoi aprirti la strada che porta diritto alla meta»; «Nessuna opera grande è stata mai compiuta senza il divenire pazzo»… che non significa abbaiare alla luna, ma rompere le funzioni della coscienza ordinaria per affidare l’azione all’Io sovraindividuale in una coscienza illuminata.
Quando la dominante idea della morte perde il suo potere, la “mente spirituale” può penetrare entro l’oggetto e supera l’inganno della dualità. Suzuki sostiene che, ad un livello inferiore, dominare l’idea della morte era l’attrattiva maggiore che lo Zen offriva al guerriero, senza le sovrastrutture di religione, morale e ritualismo.
Scrive il principe di Mito: «La gente delle altre classi si occupa di cose visibili, i samurai di cose invisibili, insostanziali» e Aoyama Shigeyoshi (Maestro di dottrine segrete) dice: «Spesso le battaglie in realtà si ingaggiano entro il tama (essenza spirituale) dei guerrieri combattenti… una Forza superiore può agire nel Kendô, nel Judô e nel Karate, e in altre arti marziali meno conosciute».
Un grande guerriero e monaco del XVI secolo, çUesugi Kenshin, cosí esortava: «Quelli che si attaccano alla vita, muoiono; e quelli che sfidano la morte, vivono. La cosa essenziale è la “mente” (shin); guardate in questa Mente e prendetene stabile possesso. Voi comprenderete allora che c’è qualcosa in voi di là dalla morte e dalla vita».
L’andare “di là dalla morte e dalla vita” significa, per chi ha percorso il Sentiero, superare la divisione del mondo in soggetto ed oggetto. Il mondo della diversità (shabetsu) è tale perché l’ignoranza (mumyô) e la mania delle passioni (bonnô), ottenebrano nell’ Io che crediamo di essere – mentre è quasi solo un aggregato di impermanenze immerse nell’angoscia del divenire – la capacità di vedere la natura originale. Questa “natura” è il volto dell’Io Superiore, chiamato “Cuore di Buddha”. Ritrovare tale “cuore”, consumando le aggregazioni caduche ed effimere dell’io illusorio, è il compito dell’ascesi.
Lasciando la presa sull’effimero, si dissolvono ignoranza e mania, e ci si apre alla visione intuitiva (né concettuale, né psicologica, né intellettuale) della identità assoluta (byôdô) risolvente ogni antitesi e dualismo. Questa conoscenza intuitiva suprema è prajna. Risvegliarsi a questa conoscenza è il satori, l’Illuminazione, il fine ultimo dello Zen. In questa esperienza, il supremo paradosso consiste nella visione metafisica che prajna è immanente in ogni uomo e che alterità e identità sono cosa unica: il mondo del divenire e l’Assoluto coincidono.
In sede pratica può essere ricordata questa frase: «Non essere attaccati a nulla è contemplazione; se avete capito questo [il termine “capire” ha sempre il significato di “realizzare”], nell’andare, nello stare, nel sedere e nel giacere non cesserete mai di essere in contemplazione».
Da una diversa angolatura, il risveglio di prajna è chiamato mushin che, tradotto, sarebbe il vuoto mentale (attenzione, qui non si intende una ipotetica cancellazione della mente che, per un pensiero assai superficiale sarebbe persino “pensabile”, ma il dominio e la cancellazione delle funzioni della mente).
In questa condizione viene raggiunta l’identità perfetta tra volontà ed azione: punto d’arrivo delle vie marziali (budô) e arti marziali (bugei) nel segno dello Zen.
Tutto l’addestramento tende a questa meta, che non si possiederà se lo stato di mushin non verrà raggiunto. Ma chi raggiunge questo stato è già sulla via della Liberazione: l’arte non gli serve più: qui si incontrano Zen, Budô e Bushidô.

