a cura di Hopus
E se ti dicessi che per i Greci “verità” significava “non dimenticare”?
Quando oggi diciamo “verità”, pensiamo a qualcosa di oggettivo, dimostrabile, magari scritto in un libro o stabilito da una sentenza.
Ma per i Greci dell’antichità, la verità (ἀλήθεια, aletheia) era qualcosa di molto più profondo: era ciò che non si è dimenticato.
La parola ἀλήθεια deriva da:
λῆθη (lethe), che significa oblio, dimenticanza;
e il prefisso α- privativo: non-oblio, dis-velamento.
La verità, dunque, non si scopre: si ricorda.
Proprio come un sogno che riaffiora.
Come un’iniziazione che ti svela chi sei sempre stato.
Non a caso, i riti misterici orfici ed eleusini promettevano ai loro iniziati il ricordo della vera origine dell’anima. Le lamelle funerarie orfiche ammonivano:
“Non bere dalla fonte di Lete (oblio). Cerca quella di Mnemosyne (memoria).”
Platone stesso, nel Fedro, diceva che il conoscere è anámnēsis, cioè ricordo.
E le Muse, patrone dell’arte e della poesia, erano figlie di Mnemosyne, la Memoria.
La verità, per loro, non era una formula da imparare, ma un velo da sollevare.
Un’epifania che accade solo quando smetti di dimenticare.
Forse è per questo che i Greci non temevano la morte, ma l’oblio.
E forse è per questo che, ancora oggi, ricordare è un atto sacro.
Perché tutto ciò che vale la pena sapere… lo sapevamo già.
Solo che l’avevamo dimenticato.
Fonti
Platone, Fedro 249c–d
Lamine orfiche di Thurii (IV–III sec. a.C.)
Esiodo, Teogonia 55–60
Heidegger, L’essenza della verità
Burkert, Antichi culti misterici

