di Daniele Trabucco
16 agosto 2025
Il vertice di Anchorage, in Alaska, tra Donald Trump e Vladimir Putin, pur privo di esiti formali, ha rappresentato un evento di grande rilevanza simbolica e politica. Non è nel risultato immediato che si misura la sua portata, bensì nella capacità di mettere a nudo le contraddizioni dell’attuale ordine internazionale e, in particolare, l’irrilevanza strutturale dell’Unione Europea. L’esclusione di Bruxelles dal tavolo delle trattative non costituisce un incidente marginale, ma l’indicatore di una crisi profonda: l’Europa ha progressivamente rinunciato alla dimensione della decisione politica, rifugiandosi nella retorica dei valori universali, sempre anfibi e contingenti, dei diritti declinati secondo il paradigma della “libertá negativa”, abdicando ai principi ed alla loro attuazione la quale richiede una effettiva capacità ordinativa. È proprio il concetto di forza, inteso ovviamente non come violenza ma come energia ordinatrice, a rivelarsi centrale per comprendere la crisi. La tradizione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, ha sempre legato la legge alla sua capacità di farsi obbedire. La “polis” aristotelica, ordinata al bene comune, non poteva reggersi solo su norme scritte: era la forza della comunità, l’autorità condivisa e riconosciuta, a garantire la stabilità dell’ordine. Analogamente, Tommaso sottolineava che la legge “humana” obbliga in quanto espressione di una ragione sostenuta da un’autorità capace di imporla. In questo senso, la forza non è antitesi del diritto, bensì sua condizione di possibilità: senza forza, la legge è mera esortazione, priva di efficacia. L’Europa, priva di questa forza in quanto mancante di un pensiero “regale”, è rimasta estranea agli sviluppi geopolitici reali, riducendosi a spettatrice di dinamiche che altri dominano. In questo quadro, l’Italia non è stata e non è da meno, manifestando in modo ancora più evidente la propria inconsistenza. Con la stagione tecnocratica di Mario Draghi (2021-2022), la politica estera si è ridotta a un esercizio di fedeltà incondizionata alle linee euro-atlantiche; con Giorgia Meloni (2022-in corso), al contrario, il linguaggio “sovranista” non ha trovato corrispondenza in decisioni effettive. Ciò che è venuto meno non è solo l’influenza nei processi internazionali, quanto la coscienza stessa del proprio ruolo. L’Italia ha rinunciato alla sua storica vocazione mediterranea di mediazione, divenendo marginale non per esclusione altrui, ma per autoannullamento. Ad Anchorage, la sua assenza non è stata ignoranza o dimenticanza: è stata la naturale conseguenza della perdita di un’identità autonoma. Ancora più radicale si presenta la questione ucraina. La narrazione dell’”aggredito innocente” non basta a spiegare una vicenda che affonda le sue radici in una rottura costituzionale e politica mai sanata. Gli eventi di Euromaidan degli anni 2013-2014 non furono una semplice rivolta democratica, bensì un atto di destabilizzazione che scardinò la legalità costituzionale, aprì una frattura profonda nel corpo politico ucraino e consegnò il Paese a logiche esterne. Invece di concepirsi come Stato ponte, capace di integrare le diverse anime etniche e linguistiche e di valorizzare la sua posizione geostrategica, l’Ucraina scelse la via dell’allineamento esclusivo all’Occidente, rinunciando a una politica di equilibrio. Da quel momento, il Paese non fu più soggetto ma oggetto, pedina di una partita geopolitica più ampia, sacrificando la propria autonomia e trasformandosi in campo di battaglia. L’incontro di Anchorage mette, quindi, in luce tre verità ineludibili. La prima: l’Unione Europea è irrilevante, si sta suicidando con le proprie mani (si veda l’adozione delle inutili sanzioni a Mosca) e si sta avviando verso la sua fine. La seconda: l’Italia, smarrita tra retorica e subordinazione, ha rinunciato a ogni funzione diplomatica autonoma. La terza: l’Ucraina è divenuta corresponsabile della propria tragedia per aver scelto la via della rottura invece di quella dell’equilibrio. La lezione che si trae da Anchorage è che la politica internazionale non può ridursi a norme astratte o a slogan ideologici, dal momento che richiede la capacità di coniugare legge e forza, ragione e decisione, politica e regalitá. Oggi, l’Europa e l’Italia, incapaci di incarnare questa verità classica, si condannano all’oblio politico, mentre il dialogo tra Stati Uniti d’America e Federazione Russia, benchè non abbia comportato risultati immediati e concreti, testimonia che lo spazio della diplomazia resta aperto solo a chi possiede ancora la forza necessaria per sostenerlo.

