di Chiara Nalli
«È giunta l’ora di smettere di assecondare l’autoritario presidente serbo. L’Europa deve aumentare la pressione su Aleksandar Vučić per evitare un ulteriore arretramento democratico». Titola così un infuocato editoriale comparso lo scorso 18 agosto sul «Financial Times» e sottoscritto dall’intera redazione, a commento della prosecuzione delle contestazioni rivolte contro il presidente Aleksandar Vučić. Una settimana dopo, il «Guardian» rincarava la dose, affermando che «i serbi che manifestano meritano più sostegno e solidarietà dall’Unione Europea di quanto ne ricevano. Autocratico e cinico, Vučić rappresenta una presenza maligna nella politica dei Balcani occidentali. Oltre i confini della Serbia, coltiva da tempo un’insidiosa e destabilizzante agenda etno-nazionalista in relazione al Kosovo e alla Repubblica Serba di Bosnia. In patria, è diventato sempre più una minaccia per la democrazia». Parallelamente, un gruppo di sedicenti “intellettuali” riuniti attorno alla figura di Dušan Janjić, fondatore e presidente del comitato esecutivo del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, ha fatto pervenire a diverse ambasciate straniere e alla redazione del quotidiano serbo «Danas» una sorta di “manifesto” in cui si invoca una «transizione pacifica del potere», implicante la consegna delle leve gestionali del Paese a una commissione di esperti. Per l’ambasciatore russo a Belgrado Alexander Botsan-Kharčenko, questi indizi inducono a ritenere che «le affermazioni secondo cui la Serbia è sull’orlo di una guerra civile non sono del tutto prive di significato. L’Occidente ha bisogno di destabilizzare il Paese attraverso provocazioni, in modo che Belgrado perda il controllo della situazion». Ha inoltre sottolineato che «una caratteristica sorprendente e astuta della rivoluzione colorata in atto in Serbia è che i leader non sono ancora visibili […]. Questo è intenzionale. Ecco perché è impossibile stabilire un dialogo con loro».
Tratto da: Il Contesto

