di Luciano Tovaglieri,
Segretario Nazionale di IGNIS – Fuoco Italico
La “guerra alla droga” come pretesto: il caso Venezuela e i precedenti afghani
L’attacco statunitense a una piccola imbarcazione nel sud dei Caraibi — 11 morti secondo Washington — ha riacceso lo scontro fra Stati Uniti e Venezuela. La Casa Bianca sostiene che quel mezzo fosse gestito dalla gang venezuelana Tren de Aragua e diretto a rifornire gli Stati Uniti di stupefacenti; Caracas nega. Nel frattempo, il Pentagono ha rafforzato la postura militare nella regione: dieci F-35 sono stati inviati a Porto Rico per sostenere operazioni “anti-cartelli”, mentre due F-16 venezuelani hanno volato vicino a un cacciatorpediniere USA, in un episodio definito “altamente provocatorio” da funzionari americani. La linea ufficiale è quella della “guerra alla droga”; la sostanza, però, è più complessa.
Le rotte reali degli stupefacenti
Se davvero l’obiettivo fosse il narcotraffico, la mappa delle rotte spingerebbe a guardare altrove. I report più recenti dell’UNODC e della DEA indicano che la gran parte della cocaina diretta negli Stati Uniti nasce in Colombia e transita attraverso il Messico. La rotta caraibica esiste, ma pesa molto meno rispetto al corridoio Pacifico-Messico. Per quanto riguarda gli oppioidi, la quasi totalità del fentanyl intercettato in territorio americano proviene da cartelli messicani, che lo sintetizzano con precursori chimici cinesi. Nel 2024, solo nei primi otto mesi, la dogana statunitense ha sequestrato quasi nove tonnellate di fentanyl ai varchi di confine meridionali. Sono numeri che mal si conciliano con l’idea di un Venezuela trasformato in “rubinetto” primario delle forniture.
L’ombra dell’Afghanistan
Le contraddizioni diventano ancora più evidenti se si guarda all’Afghanistan. Durante i vent’anni di occupazione USA e NATO, a parole si diceva che la missione comprendeva anche la lotta al narcotraffico. I numeri raccontano altro: sotto la presenza militare occidentale, la coltivazione di papavero è esplosa fino a livelli record, tanto che nel 2017 l’ONU parlò di un aumento del 63% rispetto all’anno precedente. L’eroina afghana rappresentava più dell’80% del mercato mondiale.
Poi è accaduto un fatto rivelatore: appena le truppe americane hanno lasciato Kabul e i talebani sono tornati al potere, la produzione di oppio è crollata drasticamente, fino a quasi azzerarsi in alcune province, a seguito di un divieto imposto dal nuovo regime. A conferma che, volendo, la riduzione era possibile.
Non sono mancate testimonianze dirette, circolate negli anni scorsi fra giornalisti investigativi e osservatori locali, secondo cui parte dell’eroina afghana lasciava il Paese su cargo militari occidentali, spesso sotto copertura di missioni logistiche. Ipotesi mai dimostrate in sede ufficiale, ma che hanno alimentato la convinzione che la droga sia stata, in determinati contesti, più tollerata che combattuta, e persino usata come merce di scambio per rapporti con gruppi armati quando faceva comodo.
Dietro la retorica: petrolio e geopolitica
Il Venezuela, a differenza dell’Afghanistan, non è un Paese di produzione primaria di droga. È però il Paese con le maggiori riserve petrolifere certificate al mondo, oltre 300 miliardi di barili, una ricchezza che fa gola tanto agli Stati Uniti quanto all’Europa. Con Maduro, Caracas ha scelto la via dell’indipendenza da Washington e il rafforzamento dei legami con Russia, Cina e più in generale con l’universo BRICS. Mosca ha firmato nel 2025 un partenariato strategico con Caracas; Pechino ha rilanciato investimenti nel settore oil & gas, consolidando un asse che riduce lo spazio d’influenza statunitense nel “cortile di casa”.
Alla luce di questi elementi, l’attuale escalation appare meno come una crociata contro la droga e più come un capitolo della lunga lotta per il controllo delle risorse energetiche e per contenere l’avvicinamento del Venezuela al blocco multipolare emergente. La cocaina e il fentanyl sono la copertura retorica; il greggio e le alleanze geopolitiche il vero terreno di contesa.

