di Lelio Antonio Deganutti
Settembre 11, 2025
L’arte del Gandhāra fiorì nella regione oggi a cavallo tra Pakistan settentrionale e Afghanistan orientale, approssimativamente tra l’ultimo secolo a.C. e il IV-V secolo d.C. (con echi fino ai secoli VII-VIII). Fu in quest’area che si incrociarono culture persiana, indiana — e, decisamente, ellenistica.
È questo sincretismo culturale che permise un’innovazione cruciale nell’iconografia buddhista: la rappresentazione del Buddha in forma umana. Prima del Gandhāra, si preferivano modalità aniconiche — simboli come la ruota del Dharma, l’albero della Bodhi, il trono vuoto. Solo nel Gandhāra prende forma la figura umana del Buddha in statue e rilievi.
Statue del Buddha come un dio greco: caratteristiche dell’incontro
Molti elementi stilistici delle statue gandhariche sembrano mutuati da modelli greco-ellenistici o romano-ellenistici:
La resa del panneggio — pieghe profonde, naturali, che richiamano le vesti dei filosofi o delle divinità greche e romane.
L’anatomia idealizzata: muscolatura sottile ma definita, proporzioni che riflettono ideali estetici dell’arte greca classica.
Volti armonici, lineamenti regolari (naso diritto, mascella definita, labbra morbide), occhi a mandorla o socchiusi che danno un’espressione meditativa ma anche maestosa.
I capelli modellati a ciocche ondulate, a volte raccolti in chignon — ushnīṣa — che somiglia a come venivano rappresentati i capelli divini nelle statue ellenistiche.
Questa fusione non è mera imitazione: è un dialogo produttivo. Il Buddha non viene rappresentato come un dio greco, ma molte sue immagini — specialmente i Buddha in piedi o seduti in atteggiamenti di insegnante — richiamano pose, gesti, simbologia visiva che uno spettatore contemporaneo riconoscerebbe come “divina” nel mondo greco-romano. È come se il Maestro venisse raffigurato usando la grammatica visiva del pantheon ellenistico.
Un caso eccezionale: perché unico
L’arte del Gandhāra è probabilmente l’unico (o almeno il più significativo) caso in cui il buddismo integra l’immagine antropomorfa del Buddha prima di sviluppi interni successivi in altre regioni. Mentre nell’India settentrionale (es. Mathura) si sviluppavano tradizioni iconografiche autonome, il modello gandharico, con la sua enfasi sulla forma umana e l’uso del linguaggio artistico greco, rappresenta una fusione che risulta davvero unica.
Il ruolo del MAO (Torino) nell’interpretazione visiva
Il Museo d’Arte Orientale (MAO) di Torino offre ottime testimonianze di questa fusione tra ellenismo e buddismo:
All’interno del museo, la sezione dedicata all’Asia meridionale include una sala Gandhāra con statue in scisto, stucco e terracotta, e decorazioni provenienti dallo stupa di Butkara.
Una delle opere più rappresentative è una Testa di Buddha in stucco (sec. IV‑V d.C.), proveniente dalla regione del Gandhāra. Il volto, dalle linee sobrie e armoniche, mostra il perfetto equilibrio tra essenzialità espressiva e modellazione naturale: occhi a mandorla, labbra morbide, naso curvilineo appena accentuato. Nel suo insieme, il volto trasmette serenità (tipica dell’iconografia buddhista) attraverso modalità stilistiche egregiamente classiche europee.
Attraverso esposizioni come “Buddha. Frammenti, derive e rifrazioni dell’immaginario visivo buddhista”, il MAO invita il pubblico a riflettere su quanto questo linguaggio visivo sia stato il risultato di interazioni culturali profonde e mutevoli, e non di semplici “prestiti” estetici.
L’arte del Gandhāra rimane un fenomeno eccezionale: mai prima o poi è esistito un contesto nel quale il buddismo, nel rappresentare il suo fondatore, abbia adottato forme che echeggiano le divinità ellenistiche con tale naturalezza. Le statue del Buddha — iconograficamente “umane”, ma stilisticamente “divine” nel senso greco-ellenistico — incarnano una mediazione culturale che parla di scambi, conquiste, diffusione delle idee.
Tratto da: Totapulchra

