a cura di Giovanni Turchetti
Nel riconoscere la propria natura, l’uomo tradizionale riconosceva anche il suo “luogo”, la propria funzione e i giusti rapporti di superiorità e inferiorità. Le caste, o gli equivalenti delle caste, in via di principio, definivano delle funzioni, dei modi tipici di essere e di agire. In fondo, il principio romano ben noto “suum cuique tribuere” riporta esattamente alla stessa idea: ad ognuno il suo. Gli esseri, essendo disuguali, è assurdo che tutto sia accessibile a tutti, e ognuno, sia atto a qualunque funzione. Ciò implicherebbe una deformazione, uno snaturamento.
Le difficoltà che sorgono in coloro che hanno in vista le condizioni attuali, ben diverse da quelle del sistema, di cui si va parlando, si legano al fatto di rappresentarsi i casi, nei quali il singolo manifesta vocazioni e doti diverse, di quelle del gruppo in cui per nascita e per tradizione si trova. Appunto è questa la controparte dell’etica dell’esser sé stessi: il ridurre al minimo la possibilità, che la nascita sia davvero un caso e che il singolo si trovi come uno sradicato, in dissonanza con il suo ambiente, con la famiglia se non perfino con sé stesso, col proprio corpo, e la propria razza.
Il mondo moderno tuttavia ha seguito proprio la via opposta, la via di una sistematica trascuranza della natura propria, la via dell’individualismo, dell’attivismo e dell’arrivismo. L’ideale qui non è più l’esser quel che si è, bensì il “costruirsi”, l’applicarsi ad ogni specie di attività, a caso, ovvero per considerazioni affatto utilitarie. L’individualismo, essendo a base di una tale veduta, cioè l’uomo atomizzato, senza nome, senza razza e senza tradizione, si è avanzata logicamente la pretesa dell’eguaglianza, si è rivendicato il diritto di poter essere, di massima, tutto ciò che un qualsiasi altro può anche essere.
Julius Evola, Fedeltà alla propria natura, 1943.

