di Alessio Mannino
In queste ore, qualche marginale voce arriva senza vergogna a sostenere la tesi di un auto-attacco da parte della Global Sumud Flotilla. Le azioni di disturbo di questa notte alle 51 imbarcazioni, in particolare alla nave Alma battente bandiera britannica (già colpita da un drone lo scorso 10 settembre), sono state senza dubbio un’altra intimidazione il cui mittente non può essere che Israele.
A certificarlo è una fonte non sospettabile di simpatizzare per l’iniziativa politico-umanitaria che naviga in direzione Gaza: il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani. Il titolare della Farnesina ha infatti rinnovato la richiesta al governo Netanyahu di “garantire la assoluta tutela del personale imbarcato”, fra cui ci sono molti italiani (tra i quali alcuni parlamentari del Pd, del M5S e di Avs).
Sui social, l’attivista tedesca Yasemin Acar ha definito “operazioni psicologiche” il sorvolo di droni con il lancio, questa volta, di petardi a scopo di stordimento, polveri urticanti e bombe sonore, al largo dell’isola greca di Creta. Finora, Tel Aviv con tutta evidenza sta perseguendo due obbiettivi: da un lato, fiaccare il morale degli equipaggi; dall’altro, soprattutto, dimostrare all’opinione pubblica mondiale che può agire indisturbata anche in acque internazionali. In barba al diritto. Una modalità che, giuridicamente parlando, è definibile né più né meno che come terroristica.
Non essendo una spedizione militare né un’impresa con finalità aggressive, invocare il diritto di guerra e agitare l’argomento della legittima difesa, da parte dello Stato israeliano, è del tutto pretestuoso. Il discrimine decisivo, qui, consisterà nel passaggio in cui la flotta si approssimerà alle acque territoriali della Striscia di Gaza, presidiate (illegalmente) dalla marina dell’Idf.
Come sanno i promotori appartenenti a 44 diverse nazionalità, sarà quello il momento della verità, per la Global Sumud Flottilla. Il ministro israeliano della sicurezza Itamar Ben-Gvir ha già dichiarato che, una volta varcata la linea, chiunque si troverà a bordo sarà trattato da terrorista, e di conseguenza messo agli arresti e rinchiuso in carcere. Una reazione che dal punto di vista del consenso politico sarà un altro clamoroso autogol per l’immagine di Israele, considerata anche dai filo-israeliani (per lo meno quelli più assennati) ai minimi storici, a causa dei crimini commessi in questi due anni di devastante rappresaglia contro la popolazione palestinese.
La domanda è allora perché il governo di Benjamin Netanyahu, per dirla come ha da esser detta, se ne freghi altamente di ciò che pensa il mondo quando il suo apparato militare non si fa problema ad aggredire, seppur in modalità intimidatoria, un convoglio di volontari rappresentativo di così tante nazioni. Interrogativo che riguarda per la verità la questione-madre, ossia com’è concepibile che l’“unica democrazia in Medio Oriente” – così recita la formula retorica – non abbia avuto nessuna remore a fare 70 mila o più morti (fra cui almeno 200 giornalisti e centinaia di medici e sanitari), a lasciare sul terreno un numero imprecisato di feriti e menomati, a spazzare via abitazioni, ospedali e ogni altra struttura civile, e costringere alla fuga verso Sud buona parte dei 2 milioni di gazawi, passando di recente all’invasione con la scusa ufficiale di stanare i militanti di Hamas mentre, in realtà, procede a un’occupazione che, secondo il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, prelude all’annessione diretta (disegno che quest’ultimo sta sovrintendendo, in qualità di governatore dei territori direttamente occupati, per quelli in Cisgiordania rimasti sotto la debolissima egida dell’Autorità Nazionale Palestinese, rivale di Hamas).
In sintesi: come è possibile che Israele non si curi minimamente, neppure per sbaglio, del ritorno in termini di credibilità, anche solo di facciata, delle sue mosse ispirate da un modus operandi del tutto arbitrario, spudoratamente sprezzante di qualsivoglia regola e sensibilità, correndo su una china di autolesionismo manifesto e oltraggioso?
La risposta non è difficile: perché Israele non sente il bisogno di legittimazione politica e morale al di fuori dei suoi confini. Se non agli occhi dell’unico pubblico che le è indispensabile come base e puntello della sua stessa esistenza: quello statunitense favorevole alla propria causa, alimentato dalla ricca e composita lobby americana filo-sionista (di qui il precipitarsi di Netanyahu a scacciare da sé l’ombra della mano che ha assassinato il nazionalista cristiano Charlie Kirk).
In parole povere, ai vertici israeliani l’ormai travalicante onda di indignazione planetaria fa un baffo, dal momento che sanno di godere di un’impunità amplissima, praticamente illimitata. Se prima e dopo il 7 ottobre 2023 hanno potuto calpestare nel sangue i princìpi e i valori inscritti in carte internazionali e nelle dottrine, in particolare, occidentali (i diritti umani “inviolabili”), figurarsi se si fanno qualche scrupolo a minacciare una manovra come quella della Flotilla. Che è provocatoria, certo, una sfida tutta politica. Ma con un intento umanitario che è esattamente sovrapponibile alla comune motivazione con cui non poche volte, negli ultimi trent’anni, l’Occidente in divisa Nato si è giustificato, a suon di propaganda, per aver bombardato o invaso Stati sovrani con o senza benestare Onu: soccorrere i civili, vittime di pulizia etnica (ex Yugoslavia), di un regime oppressivo e anti-democratico (Irak, Afghanistan, Siria, Iran), di sanguinose repressioni (Libia).
Sia chiaro: la lista delle potenze (nucleari, petrolifere, funzionali a un certo ordine geopolitico) macchiatesi degli stessi orrori ma lasciate indisturbate dal doppio standard occidentale non è meno lunga. Si pensi all’Egitto sotto dittatura militare, all’Arabia Saudita retta da una monarchia assolutista, alla Turchia “autocratica” (Draghi dixit), alla stessa Ucraina che ha messo fuori gioco la vita partitica. Ma Israele rappresenta al meglio, o si direbbe al peggio, il rango di potenza legibus soluta, irriguardosa di leggi, convenzioni e perfino del proprio teorico vantaggio, uno status di strapotere che il blocco oggettivamente più arrogante sulla Terra attribuisce ai suoi aderenti quando fa comodo. In questo caso stabilmente, poiché Israele ne costituisce da decenni la punta di lancia.
E qual è il motivo profondo per cui Israele può essere ritenuto l’avamposto dell’Occidente, facendo quel che più gli aggrada, come e quando gli aggrada? Perché a differenza degli altri impuniti eccellenti, può contare su un argomento fortissimo, benché intaccato proprio dai suoi eccessi dell’ultimo biennio: la condizione di perenne vittima. Prima dell’Olocausto nazista degli ebrei d’Europa, e poi, da ottant’anni a questa parte, dell’odio palestinese, arabo e, specie a partire da Hamas, anche islamista. Ma se già nel primo caso, il sionismo originario non legittimava l’esproprio forzato della terra di Palestina, tanto meno è lecito al sionismo successivo scambiare la causa con l’effetto, e spacciare la resistenza palestinese come astio immotivato o semplice antisemitismo ideologico. Più rivoltante di chi usa mezzi morali per fini immorali c’è solo chi ricorre a mezzi immorali in nome di una presunta patente morale, diceva Martin Luther King.
Tratto da: Inside Over

