di Giuseppe Aiello
Quella sulla felicità è sicuramente una delle domande più antiche dell’uomo.
Il mondo moderno e tutto ciò che lo concerne sembra fondarsi sulla ricerca della felicità inn questa terra: libertà, godimento dei piaceri personali e dei beni terreni ecc., ma allo stesso tempo l’uomo moderno sembra essere il più infelice, o, se vogliamo, il più “illusoriamente” felice della storia dell’uomo.
Tutti sanno che in questa visione c’è qualcosa che non va, e i primi a testimoniarlo sembrano essere proprio coloro che si sono lanciati a capofitto in questo stile di vita.
Ecco allora che, ad esempio, il disegnatore creativo Steve Cutts che nel suo cortometraggio animato dal titolo “HAPPINESS”, mette in evidenza tutta una serie di comportamenti individuali e di massa che solo apparentemente conducono alla felicità ma che, invece, sono dei surrogati presto destinati a lasciare il posto a un vuoto incolmabile. La felicità del facile consumo, dei prodotti, degli oggetti, della musica, dell’alcool e delle droghe che di volta in volta vengono sperimentate dal protagonista, nascondono in realtà l’insoddisfazione di una vita che vorrebbe raggiungere la felicità, ma che invece offre solo la tragica realtà dell’omologazione e dell’alienazione.
Nell’Islam, e in particolare nel Corano, cos’è dunque la felicità?
Il concetto di “felicità” compare nel Corano, ma non sempre viene resa con un unico termine moderno equivalente a “felicità”. In arabo coranico, le idee di gioia, benessere, beatitudine o prosperità spirituale sono espresse con parole diverse, a seconda del contesto. Alcuni termini più vicini a “felicità” sono:
. سَعَادَة (saʿādah)
Questo termine deriva dalla radice س ع د (s-ʿ-d) e indica una felicità duratura, spesso associata alla salvezza e alla beatitudine eterna nell’aldilà. Compare in vari versetti, come ad esempio (11, 108), ove la felicità è intesa come una condizione interiore permanente, stabile e positiva, definitivamente acquisita e legata alla ricompensa divina.
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. فَرَح (farah)
Derivante dalla radice ف ر ح (f-r-ḥ), questo termine si riferisce a una gioia esterna e manifesta, spesso di natura temporanea e legata ai beni e piaceri di questo mondo che possono essere goduti sia in modo halal che haram (il cibo, il sesso ecc.), motivo per il quale il Corano distingue tra una “gioia lodevole”, e una “colpevole”:
”Si rallegrano della vita terrena, ma la vita terrena, rispetto all’aldilà, è solo un godimento effimero.”
— Sūrat Ar-Raʿd, 13:26
Questa distinzione evidenzia che la felicità effimera, soprattutto se goduta in moto illecito (haram), può distrarre dalla ricerca di quella eterna.
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سُرُور (suroor)
Questo termine indica una felicità interiore, profonda e tranquilla, spesso associata alla pace del cuore. È legato alla radice س ر ر (s-r-r), la stessa di سرّ (sirr), che significa “segreto”. Come sottolineato da alcuni studiosi, questa forma di felicità è meno visibile esteriormente, ma più duratura e spiritualmente significativa. Appare in diversi versetti del Corano (3, 169; 9, 24; 13, 23). Questi versetti illustrano come la “gioia” o “felicità” sia associata alla ricompensa divina, alla vita eterna e alla vicinanza a Allah. Il termine سُرُور (suroor) è utilizzato per descrivere uno stato di felicità profonda e duratura, spesso in relazione alle benedizioni spirituali e alla salvezza nell’aldilà.
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فَلَاح (falāḥ)
Significa “successo, prosperità, benessere”, spesso riferito alla felicità spirituale o alla salvezza in vita e nell’aldilà. È molto usato nel Corano, e anche se tradotto come “salvezza” o “successo”, questo termine implica una realizzazione completa e soddisfacente, che può essere associata a una forma di felicità. Il Corano afferma:
”In verità, i credenti che compiono opere giuste, quelli che sono devoti nella preghiera e danno la zakat, avranno la loro ricompensa presso il loro Signore; non avranno paura e non saranno tristi.”
— Sūrat Al-Baqarah, 2:277
In questo contesto, la felicità è vista come una conseguenza della fede e delle buone azioni.
In sintesi, il Corano presenta diverse sfumature del concetto di felicità, distinguendo tra gioie temporanee e durature, esteriori e interiori, mondane e spirituali. La felicità eterna è associata alla salvezza nell’aldilà, mentre quella terrena è vista come un mezzo per raggiungere la felicità ultima attraverso la gratitudine e la rettitudine.
Tra tutti i sapienti, al-Farabi ha affrontato in maniera sistematica e comprensibile a tutti il concetto di felicità. Essa felicità è il fine ultimo dell’uomo, un bene assoluto che “si desidera per se stesso” e che rappresenta la perfezione e il culmine della vita umana.
Egli distingue tra felicità reale, intellettuale e duratura, raggiungibile attraverso la virtù, la conoscenza e, nel suo stato più elevato, una prossimità esistenziale a Dio, e una felicità irreale, quella legata ai beni e ai piaceri effimeri e parziali.
Punto molto importante e originale, se vogliamo, è che per al-Farabi, per poter raggiungere questa felicità suprema in questa vita, è assolutamente necessaria un’organizzazione politica virtuosa, la “Città Ideale” “(Madina al-Fadila), guidata da un Sovrano/Imam virtuoso che attui un sistema per la realizzazione delle virtù civili e teoriche, promuovendo così il benessere collettivo e creare le condizioni di base affinchè ogni credente possa poi individualmente applicarsi e praticare la religione al fine di raggiungere la propria realizzazione e dunque la felicità.
A completamento di ciò, per Ibn Arabī, la felicità consiste nella realizzazione del potenziale umano di essere un completo ricettacolo della manifestazione divina, che si raggiunge attraverso la visione della Realtà Unica che sta alla base di tutta l’esistenza.
Questo processo implica la scomparsa – attraverso il jihad interiore – di tutte le disfunzioni e deviazioni, contingenti e “illusorie”, legate alla nafs (“fana”) e il completo allineamento del proprio essere all’azione divina (tanto da poter dire: “Non eri tu che scagliavi, quando li colpivi, ma Allah (8, 17) come passo verso la felicità, che coinvolge tutti gli stati dell’essere, anche il corpo e la nafs, “sottomessi” o “estinti” nella loro illusoria pretesa di indipendenza.

