di Kali Yuga Rider
Biopolitica dell’ideologia progressista
Il termine “woke”, nato come forma di vigilanza morale nei confronti delle ingiustizie e delle discriminazioni, si è progressivamente trasformato in un universo culturale complesso, dotato di proprie regole linguistiche, categorie interpretative e strumenti di legittimazione. Oggi il woke non è più soltanto un atteggiamento etico o politico, ma una vera e propria formazione culturale che pretende di imporsi come grammatica obbligata del discorso pubblico. Per comprendere la sua natura, può essere utile una metafora insolita ma feconda: quella del virus. Non un virus biologico, naturalmente, ma un virus culturale, che non possiede in sé la capacità di autoriprodursi attraverso i canali tradizionali della società e che per sopravvivere deve colonizzare nuovi ospiti cognitivi, appropriandosi di spazi che appartengono ad altre forme di vita culturale.
Nelle società tradizionali la trasmissione dei valori avviene per via duplice: biologica e culturale. Le famiglie generano figli e al tempo stesso li educano, trasmettendo costumi, visioni del mondo, linguaggi. Questo meccanismo assicura una continuità relativamente autonoma: la cultura si rigenera insieme alla vita stessa. Non vi è bisogno di grandi apparati ideologici per mantenere la catena, perché la famiglia e la comunità bastano a garantire la riproduzione sociale. Nel caso del woke la situazione è differente. Qui il quoziente riproduttivo naturale è scarso: non si valorizza la famiglia tradizionale, non si enfatizza la natalità, e anzi spesso la riproduzione biologica viene relativizzata o considerata secondaria rispetto alle scelte individuali di identità. La conseguenza è che la continuità non può basarsi sulla discendenza, ma deve appoggiarsi a un’altra forma di trasmissione: l’adozione culturale.
Come un virus che non può moltiplicarsi senza una cellula ospite, il woke deve trovare canali esterni attraverso cui perpetuarsi. Questi canali sono le istituzioni: scuole, università, media, servizi sociali, normative giuridiche. Lì dove la famiglia garantisce la continuità biologica e culturale, il woke cerca di inserirsi attraverso i programmi educativi, i linguaggi ufficiali, i criteri di inclusione nelle politiche pubbliche. Non è un caso che le battaglie più accese si giochino attorno all’istruzione, alle adozioni, alla rappresentazione mediatica: non sono terreni accidentali, ma il cuore stesso della sua strategia di sopravvivenza.
In questa dinamica si riconosce la logica dell’egemonia descritta da Gramsci: chi controlla il linguaggio e i codici di legittimità sociale non ha bisogno di reprimere apertamente le alternative, perché le rende semplicemente impensabili. L’universo woke costruisce così un ambiente semantico artificiale nel quale i concetti della tradizione appaiono retrivi, oscurantisti, fuori tempo. Il potere del virus non sta tanto nella forza argomentativa, quanto nella capacità di ridefinire i confini del dicibile. La lotta non è più fra opinioni, ma fra possibilità stesse di espressione.
Questa strategia spiega anche l’aggressività con cui vengono difese le posizioni conquistate: non si tratta di eccessi marginali, ma di un istinto di sopravvivenza. Un paradigma che non può contare sulla riproduzione naturale deve assicurarsi che la riproduzione culturale sia totale, che ogni nuova generazione venga almeno in parte sottratta all’influenza familiare e tradizionale. L’educazione inclusiva, le campagne mediatiche, le politiche di adozione e tutela dei minori non sono dunque solo strumenti di giustizia sociale, ma anche veicoli indispensabili per garantire la continuità del sistema.
In questo senso il conflitto tra tradizione e woke non è solo politico, ma quasi ontologico. Da un lato una cultura che sopravvive grazie alla riproduzione organica di vita e valori, dall’altro una cultura che, non potendo affidarsi a tale continuità, deve combattere per garantirsi l’accesso alle coscienze dei figli altrui. La disputa sul futuro non riguarda soltanto le politiche contingenti, ma la stessa modalità con cui una civiltà assicura la propria sopravvivenza.
Per poter contrastare un fenomeno politico-culturale, esattamente come si fa per limitare l’espansione di una malattia, è assolutamente necessario capire la natura più intima dello stesso. Proprio per questo motivo credo sia particolarmente utile cominciare a percepire la cultura woke per quello che è, ossia una sorta di infezione virale della nostra civiltà. Definire il woke un “virus culturale” significa riconoscerne la natura peculiare: non un semplice orientamento politico, ma una forma di vita simbolica che necessita di istituzioni esterne per perpetuarsi. In prospettiva politologica, ciò apre due questioni cruciali. La prima riguarda la memetica politica: come certe idee si diffondono non per forza di tradizione, ma per contagio, attraverso ambienti saturi che rendono inevitabile l’assimilazione.
La seconda riguarda la contraddizione tipica della sinistra legata al pluralismo democratico. Da un lato essi lo esaltano, ma solamente fin quando questo viene idealizzato come un valore iperuranico, e non come una prassi politica concreta. Questo è comprensibile al netto del fatto che un paradigma che sopravvive solo imponendo i propri codici culturali può essere compatibile con una società che presuppone la competizione fra visioni del mondo? Ovviamente no.
Forse la metafora del virus, con la sua ambiguità, è la più adatta a descrivere questa condizione. Un virus, infatti, non è mai del tutto vivo né del tutto morto: ha bisogno di corpi estranei per continuare a esistere. Così il woke non vive di se stesso, ma della capacità di infiltrarsi in sistemi che non ha generato. Non è necessariamente maligno, ma è intrinsecamente parassitario. E comprendere questa natura è il primo passo per affrontare con lucidità il conflitto che oggi attraversa le nostre società.
Tratto da: Kali Yuga Surf Club

