di Luca Rudra Vincenzini
Nei Theravāda del Buddhismo Hīnayāna venne postulata l’esistenza di una porzione della mente che rimane sempre attiva anche quando la mente logica è incosciente (bhavaṅga), da essa riemerge la coscienza quando viene attratta dagli oggetti dei sensi o da qualsiasi altra attività mentale. Inoltre, venne asserito che è nello stato di bhavaṅga che la mente staziona tra la morte e la rinascita, un pò come suṣupti (sonno profondo) nel tantrismo, in attesa che riprenda il flusso karmico (saṃtāna) che la condurrà nella nuova esistenza. Ora, sempre per i Theravāda, nel flusso non c’è un’anima (anātma) che trasmigra, passano piuttosto solo i semi karmici maturati che conducono ad una nuova rinascita. La teoria funziona come un insieme di foglie che, trascinate dal vento, si ammassano dando luogo alla successiva personalità fittizia (pudgala); cosa che invece venne ritenuta vera dai pudgalavādin, fautori della teoria della persona.
C’è da chiedersi, ora, bhavaṅga è una dimensione di accesso “collettivo”, un pò come lo è il nirvāṇa, o è uno stato individuale? Se questo è inteso come una serra gestazionale che vive solo in funzione della maturazione dei semi karmici, cosa che verrà ripresa anche dallo Yogācāra con la teoria di ālayavijñāna, la coscienza deposito, cosa lascia pensare che essa non sia un sostrato? Ossia uno stato “permanente” dal quale emergano i fenomeni, un pò come l’idea di coscienza nel tantrismo? I dharma, sempre per il Buddhismo, sono interdipendenti (samutpāda) tra loro e, così vuoti di sostanza propria, dipendendo da altri fenomeni per realizzarsi anche se in maniera convenzionale (saṃvṛti); però esiste il nirvāṇa, che è paramārtha (la verità o il bene più alto), e questo non può essere dipendente perché altrimenti non sarebbe assoluto, bensì dipendente e se dipendente non potrebbe attrarre a sé i Buddha ma sarebbe esso stesso solo una porzione del flusso senza la possibilità reale di emancipazione dalla sofferenza (duḥkha) e dall’ignoranza (avidyā) perché anch’esso sarebbe condizionato.
Morale della favola? Nulla può essere dimostrato né a favore né contro, ergo ha ragione Kant: “tu debes” (tu devi). Segui l’imperativo categorico e comportati bene.

