a cura di Aya Khan
Questa è una rara Esperienza di Pre-Morte (NDE) di un giovane convertito americano all’Islam (avvicinatosi anche grazie a Guénon) che è morto mentre recitava la shahāda, la testimonianza di fede islamica “lā ilāha illallāh” (“non c’è divinità all’infuori di Dio”), una litania centrale, come molti di voi sapranno, nella pratica sufi. Contiene diversi motivi tipici della letteratura sulle NDE:
un’esperienza extracorporea (soprattutto alla fine, quando ritorna);
un’ascesa attraverso un tunnel;
una revisione della vita (in questo caso parziale, focalizzata sulle prove e le difficoltà);
l’ingresso in un mondo indescrivibilmente bello, dove tutto è vibrante e vivo, persino l’acqua; la chiarezza e lucidità iper-intense dell’esperienza;
e infine, istruzioni precise da parte di un essere autorevole — qui identificato come un angelo — di tornare indietro, perché (come spesso viene detto a chi vive un NDE) “non è ancora il tuo tempo”.
Ciò che distingue questa NDE dalla maggior parte delle NDE documentate in Occidente, sottolineandone la tonalità islamica rispetto agli stati postumi, è l’incontro con quella che può essere descritta solo come una fanciulla celeste del Paradiso nel Barzakh.
Qui, attingendo alla tradizione sapienziale islamica, si potrebbe dire che rappresenta la corporificazione della vita del protagonista dell’NDE, abbellita dalla pratica spirituale e dalle fatiche della vita terrena. O, espresso diversamente, rappresenta il suo Sé superiore, la sua controparte celeste. Le sue parole, “cercami come io cerco te”, simboleggiano, sembra, il desiderio di questo Sé superiore di essere realizzato dall’essere umano nella sua totalità, così come l’essere umano anela a lei: un desiderio reciproco. E poiché è con l’anima che si è prodotta nel corso della propria vita che si vive dopo la morte, questo potrebbe essere il significato della casa che la fanciulla gli indica nell’NDE, destinata a entrambi come dimora.
In altre parole, nell’aldilà si vive con ciò che si è fatto di sé stessi, e in questo caso l’abbraccio della fanciulla rappresenta la natura gioiosa di questo stato. Tuttavia, queste meditazioni filosofiche non devono far dimenticare che per il protagonista l’esperienza è stata concreta, e che ciò che ha incontrato — il giardino, i fiumi, la fanciulla — era letteralmente reale, non solo figurativamente.
Qui si può ricordare la posizione di Abu Hamid al-Ghazali (m. 1111), rappresentativa dell’ortodossia islamica, secondo cui i piaceri fisici del Paradiso (o i loro assaggi nel barzakh) sono letterali e reali, ma non possono essere ridotti soltanto alla loro letteralità, poiché simboleggiano al contempo verità di ordine superiore.
Pubblico questa NDE con il permesso del protagonista e ho rimosso l’unico riferimento al suo nome per proteggerne la privacy. Commenti irrispettosi comporteranno la rimozione dell’autore dal gruppo. Inutile dirlo, è un eccellente scrittore e spero consideri di ampliare ulteriormente questa testimonianza. Chi sa chi è, per favore non ne riveli l’identità.
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Ho 25 anni e soffro di una malattia cardiaca: tecnicamente sono tre condizioni separate ma correlate che riguardano le valvole del mio cuore. Tre delle quattro valvole non funzionano correttamente, non pompano bene, sono malate e mi danno molti problemi.
Sono già stato ricoverato una volta per un infarto nei miei primi vent’anni, quindi so che cosa si prova. Non è come nei film, dove improvvisamente ti stringi il petto, cadi e svieni in pochi secondi: di solito è un processo lungo, che dura ore e a volte anche giorni. Ho avuto molti piccoli infarti, ma solo un paio sono stati gravi.
Era venerdì 14 di sera e avevo dolore al braccio sinistro, alla mascella e al centro del petto che trapassava fino alla schiena — sintomi di infarto. Ho dolori al braccio sinistro alcune volte al mese, segno che il cuore fatica, e di solito prendo aspirina extra sperando che fluidifichi ulteriormente il sangue e allevi i sintomi. Di solito non ho dolore al petto e alla mascella, ma questa volta sì.
Presi l’aspirina e cercai di ignorare i sintomi come al solito, ma peggiorarono: iniziai ad avere vertigini e mancanza di respiro e la mia condizione divenne più grave. In quel momento ebbi una grande epifania, perché da tempo sentivo che mi sarebbe accaduto qualcosa quest’anno. Con questa epifania mi sentii svegliato di colpo, quasi come quando ci si sveglia da un incubo con gli occhi spalancati, e in mente mi scappò quasi un “Oh mio Dio, è arrivato”.
Era come se il tempo si fosse fermato e non esistesse altro al mondo se non me, la morte e Dio; come se un velo si fosse sollevato lasciando presente solo la mia situazione. Ero certo che stavo per morire, così mi alzai dalla sedia e mi sdraiai a terra sulla schiena continuando a ripetere “Lā ilāha illallāh” e lasciai andare tutto, pronto ad andare ovunque dovessi. Non mi interessava chiamare il 911: non era neanche una possibilità, perché la morte mi sembrava così certa che sarebbe stato inutile e forse persino irresponsabile pensare ad altro. E mi ero preparato a questo da tempo, perché ogni volta che ho dolori al petto mi prendo del tempo per pentirmi e recitare questa formula, sapendo che è bene pensare a Dio come ultimo pensiero. Persino prima di convertirmi all’Islam avevo questo interesse di pensare a Dio al momento della morte, quindi era da anni nella mia mente.
Mentre ero sdraiato sentii una presenza calma ma non vedevo nessuno; sentii una sensazione di “tiraggio” alla testa, come se venissi spremuto e tirato fuori attraverso il volto e soprattutto gli occhi. Entrai in una fase intensa e confusa di transizione di cui non ho memoria, e mi ritrovai a muovermi dolcemente in un tunnel bianco e verde brillante. Non era velocissimo, ma predominava il bianco con piccole spirali e striature verdi, e in retrospettiva sento che andava verso l’alto in diagonale. Non so perché lo percepisco così, perché non c’erano riferimenti visivi per determinarlo, ma è ciò che sento ricordandolo.
Sentivo che il tunnel fosse una sorta di essere, o che fossi dentro qualcosa, come se ci fosse un mondo fuori dal tunnel che non vedevo. Non avevo corpo, ma all’arrivo continuai subito a dire “Lā ilāha illallāh”, non più vocalmente ma interiormente. Quindi passai dal dirlo a voce mentre ero cosciente, a ripeterlo interiormente nel tunnel una volta perso conoscenza, in una transizione del tutto fluida, salvo la parte intensa e confusa in mezzo.
Nel tunnel ogni volta che lo dicevo provavo beatitudine, come se ogni ripetizione producesse ancora più gioia e sollievo della precedente. Era totalmente pacifico. Ogni volta che lo dicevo “volavo” più in alto, come il battito d’ali di un uccello: lo dicevo e venivo proiettato in avanti, poi rallentavo, poi di nuovo. Non ci pensavo mentre ero lì, ma ricordandolo uso queste parole per descrivere ciò che sentivo, perché lì non pensavo come qui: era pura esperienza senza monologo interiore. Tutte le parole che uso ora vengono da me qui, non da me là.
Finalmente, dopo tante ripetizioni, arrivai a una piccola radura in un giardino fitto e notai di avere di nuovo un corpo, anche se non lo vidi: lo percepivo. La testa e la fronte erano formicolanti, euforiche, luminose: non emanavo raggi visibili, ma sentivo una brillantezza dalla testa. Il mio corpo era leggerissimo. La radura era come un confine, non ostile ma demarcante.
C’era una piccola cascata alta 5-6 metri che si riversava in uno stagno. L’acqua non defluiva altrove, finiva nello stagno. Il suono era melodico, nulla a che vedere con l’acqua che scorre in questa vita: era come se l’acqua fosse cosciente e cantasse con perfezione matematica in toni puri, come se parlasse. Non erano davvero più toni, ma un solo tono che si rifrangeva creando altri suoni. L’acqua non si muoveva normalmente: era lenta, ordinata, senza schizzi, come se cooperasse.
C’era una donna, sentii che mi stava aspettando. C’erano anche altri uomini con donne che li attendevano e li salutavano all’arrivo, ma fu una visione brevissima e non sembravano notarmi. Quando mi vide tolse il copricapo — non un vero hijab, ma un velo più sciolto — era indescrivibilmente bella, con lunghi capelli castani divisi al centro, vestiva qualcosa simile a un abaya e aveva un incarnato luminoso. I volti di uomini e donne avevano lo stesso incarnato radioso, senza distinzione razziale netta ma tratti chiaramente femminili e maschili; tutti vestivano di bianco in abiti diversi. Presumo lo indossassi anch’io, ma non guardai mai in basso.
Mi guardò, mi chiamò per nome, e quando si avvicinò fu intensissimo guardarla negli occhi: il linguaggio qui non basta, “intenso” è riduttivo. Guardarla era inebriante, acuto, tagliente, come una lama: non spaventoso ma avrei tremato in vita. Ci percepivamo reciprocamente pensieri e sentimenti: una comunicazione aperta, impossibile nascondere alcunché. Non era solo telepatia come “trasferimento di pensieri in inglese”, era linguaggio puro, idea concentrata: con una “parola” comunicavi l’equivalente di migliaia di parole umane.
Mi prese le mani all’altezza della vita e disse in inglese udibile “I love you”, come quando pronunciò il mio nome. Il tocco delle sue mani era guarigione e redenzione, incredibilmente piacevole, come se fosse avvenuto qualcosa di grande, una nuova fase di me. Anche la sua voce era intensamente confortante e medicinale. Mi abbracciò, posai la testa sulla sua spalla destra e non provai mai più amore né casa come lì.
Mentre poggiavo la testa sulla sua spalla iniziai a ricordare vividamente tutte le mie esperienze negative — punizioni da bambino, l’assenza di mia madre, ecc. — e ricevetti intuizioni specifiche su come tutto ciò avesse cambiato me e la mia vita, modellato la mia personalità, i rapporti, le paure. Era incredibilmente dettagliato ma non posso ricordarlo ora: non erano immagini, ma conoscenze multidimensionali simultanee, migliaia di legami tra eventi. Era linguaggio puro, impossibile metterlo in parole.
Ma ricordare tutto ciò non mi dava alcun disagio: era fonte di beatitudine, perché il contrasto tra le sofferenze passate e il piacere presente le rendeva ancora più apprezzabili. Tutto della vita precedente pareva insignificante, come un sogno. Questo mi resta: non posso “disvederlo”. La revisione fu lunga.
Di fronte a ciò il suo amore divenne così intenso che iniziai a “piangere”, non di tristezza ma di gioia e sollievo, entrando in uno stato estatico. Da adolescente avevo provato droghe forti (MDMA, eroina, fentanyl, cocaina…), nulla neanche lontanamente paragonabile. Era come se la mia anima fosse una tazza da tè e l’amore venisse versato finché la tazza cresceva e traboccava. Ciò che lei fece fu far traboccare la mia “tazza”.
“Piangere” è solo un modo di dire: non ho mai battuto ciglio, né mosso il viso. Sentii lacrime calde scorrere sulle guance, calde non di temperatura ma di densità, come miele. Non le vidi ma le sentii, fonte di ulteriore beatitudine: ogni lacrima espandeva la mia “tazza”. Cadendo sulla sua spalla e collo divenivano fonte di beatitudine anche per lei grazie alla comunicazione aperta. Ci confortavamo a vicenda.
Il 95% dell’esperienza fu sulla sua spalla, il resto altrove, esclusi i tunnel. Al culmine volle mostrarmi qualcosa: entrai in una visione con lei, senza corpo, come volando. Mi portò su un altopiano a metà di una montagna, con un villaggio di case splendenti in un grande giardino attraversato da lunghi ruscelli che scorrevano in pattern geometrici complicatissimi, come irrigazione. Non posso ricrearli nella mente. Avevamo vista dall’alto e non eravamo due presenze separate ma un’unica visione condivisa. Telepaticamente mi indicò una casa in lontananza e disse che era nostra. Non in inglese ma in idea pura. Poi tornai da lei in un attimo.
Appena tornato sulla sua spalla sentii una presenza, invisibile ma onnipervadente, come una formica davanti a un grattacielo. Mi parlò telepaticamente: dovevo andarmene. Non in inglese ma in idea pura. Lo disse con dolcezza e autorità insieme. Lei mi guardò come avendo capito e disse in inglese udibile: “I love you, so seek me just as I seek you” (“Ti amo, quindi cercami come io cerco te”), la frase più lunga detta lì. Immediatamente iniziai a precipitare in un altro tunnel, buio e doloroso, pieno d’ansia, come un’esperienza precedente in un abisso nero di panico e terrore. Questa volta mi sentivo scagliato a grande velocità anche se visivamente non c’era alcun cambiamento. Poi mi ritrovai sopra il mio corpo fisico a guardarmi dall’alto, mi tuffai nel volto e negli occhi e mi svegliai riprendendo coscienza.
Avevo ancora sintomi residui di infarto (dolore al braccio sinistro, lieve dolore al petto) ma meno intensi e spariti in mezz’ora. Sarò stato incosciente da pochi minuti a mezz’ora, più probabilmente la prima. Non so se il cuore si sia fermato del tutto o se sia stato un blocco del flusso sanguigno, ma penso la seconda: ero vivo fisicamente ma con un’ostruzione, come un’altra volta in cui ebbi un NDE nel sonno con sintomi leggeri. Lì dove ero sembrava più reale di qui, senza ombra di dubbio. Pensare all’esperienza mi fa sentire che vivere qui è un sogno offuscato, come paragonare questo mondo al mondo dei sogni, ma con una differenza molto maggiore.

