di Giuseppe Aiello
1. Principio generale: giustizia e dignità nel lavoro
In tutte le scuole giuridiche islamiche, il lavoro è considerato una forma di adorazione (‘ibāda) se svolto con onestà e dignità.
Il Corano e la Sunnah insistono sul fatto che:
– Nessuno deve essere oppresso o trattato ingiustamente.
– Ogni lavoratore ha diritto a rispetto, paga giusta e condizioni umane.
Esempi di fonti:
“E quando pesate, siate giusti, con la bilancia esatta” (Corano 17:35)
“Date al lavoratore la sua paga prima che il suo sudore si asciughi” — ḥadīth riportato da Ibn Mājah.
“Dio non ama gli oppressori” (Corano 3:57)
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2. Quando si subisce oppressione o abuso sul posto di lavoro
Le scuole giuridiche islamiche non parlano esplicitamente di “burnout” o “mobbing” come li intendiamo oggi, ma trattano la ẓulm (oppressione, ingiustizia) e la ṣabr (pazienza) in modo articolato.
✦ a) Scuole sunnite (hanafita, malikita, shafi‘ita, hanbalita)
È illecito per il datore di lavoro opprimere il dipendente o imporre compiti che superano la sua capacità.
Il lavoratore ha diritto a interrompere il contratto se subisce danno fisico, morale o economico (concetto di ḍarar).
Il lavoratore può denunciare l’oppressione a un’autorità religiosa o legale (ḥākim shar‘ī).
È raccomandato reagire con pazienza e dignità, ma non con passività: l’islam distingue tra ṣabr (pazienza attiva, dignitosa) e sukūt (silenzio codardo).
Un principio classico enunciato da al-Ghazālī (XI sec.) nel Iḥyā’ ‘ulūm ad-dīn:
“Sopportare con pazienza è virtù, ma tollerare l’ingiustizia che perpetua il male è colpa.”
→ Quindi, se la resistenza pacifica o la denuncia può fermare l’ingiustizia, è doveroso farlo.
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✦ b) Scuola sciita (ja‘farita)
Nella giurisprudenza sciita (fiqh ja‘farī), si trovano principi molto simili ma con accenti specifici:
Il lavoro è parte del dovere di ʿibāda e ʿizzah (dignità personale).
L’Imam ʿAlī (a.s.) ammoniva i governatori e amministratori pubblici:
“Non rendere schiavi i servitori di Dio, perché Dio li ha creati liberi.” (Nahj al-Balāgha, lettera 53 a Mālik al-Ashtar).
Se un lavoratore è oppresso, ha diritto a rompere il contratto e, se possibile, rivolgersi al giudice religioso (qāḍī shar‘ī).
È raccomandato esercitare ṣabr (pazienza) solo se la denuncia peggiorerebbe la situazione o porterebbe a maggiori danni.
Nei testi contemporanei sciiti (es. fatwa di al-Sayyid al-Sistani e al-Khamenei), si sottolinea che:
“Non è lecito al datore di lavoro trattare il lavoratore con disprezzo o negargli i suoi diritti. Ogni forma di umiliazione è ḥarām.”
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3. Indicazioni pratiche che derivano da questi principi
Oppressione verbale o psicologica: cosa fare?
Denunciare con mezzi pacifici; non tollerare umiliazioni; mantenere dignità personale.
Sfruttamento o salario iniquo: cosa fare?
Interruzione del contratto lecita; diritto a compenso; denuncia religiosa o civile.
Ingiustizie collettive (struttura ingiusta): cosa fare?
Azione comune per la riforma (amr bil-maʿrūf wa-nahy ʿan al-munkar – “comandare il bene e vietare il male”).
Burnout o danno alla salute mentale: cosa fare?
È permesso sospendere o lasciare il lavoro per tutelare la salute, che nell’Islam è bene sacro (ḥifẓ an-nafs).
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4. Sintesi
L’islam non incoraggia la sottomissione passiva all’oppressione sul lavoro.
La giustizia (ʿadl) e la dignità umana (karāmah insāniyyah) sono valori superiori.
È legittimo lasciare un lavoro, denunciare un superiore o cercare giustizia, purché si mantengano rispetto e pazienza.
In casi di sofferenza interiore o burnout, la sharīʿa permette di cercare aiuto medico e psicologico, poiché la salute è parte della fiducia (amānah) che Dio ha affidato all’uomo.

