a cura di Tania Perfetti
Nel corso del Medioevo, la scelta della reclusione rappresentò una delle forme più radicali di vita religiosa femminile. Le recluse, o anacorete, sceglievano di ritirarsi definitivamente dal mondo per vivere in solitudine, dedite alla preghiera e alla contemplazione. La loro esistenza, sospesa tra la vita monastica e l’eremitismo, incarnava l’ideale di una totale dedizione a Dio, vissuta in uno spazio ristretto, quasi sepolcrale, che diveniva al contempo cella e tomba, santuario e prigione.
“Io sono come morta al mondo, eppure vivo più che mai in Dio. La pietra che chiude la mia cella è più leggera del peso dei peccati che ho deposto fuori.”. Lettera di una reclusa anonima inglese, XIII sec.
LA CERIMONIA DI RECLUSIONE
La cerimonia che sanciva l’inizio della vita reclusa aveva un forte carattere simbolico e liturgico. Essa era modellata sui riti funebri: la donna partecipava a una messa solenne in cui il sacerdote recitava preghiere per i defunti, segno della “morte al mondo” che stava per compiersi. Vestita di abiti semplici, spesso coperta da un velo nero, la futura reclusa veniva accompagnata processionalmente fino alla cella costruita accanto o all’interno della chiesa.
Il momento della chiusura aveva un valore rituale e irreversibile. La porta veniva sigillata o murata parzialmente, lasciando solo due aperture: una piccola finestra verso l’interno della chiesa, per ricevere la comunione e assistere alla messa, e una feritoia verso l’esterno, attraverso la quale la reclusa riceveva cibo e poteva comunicare con il confessore o con i fedeli. L’atto di sigillare la cella sanciva una separazione definitiva dal mondo, ma anche un’unione simbolica con la dimensione celeste.
“Quando la pietra fu posta, non piansi. Sentii soltanto un grande silenzio, come se il mondo avesse smesso di respirare, e in quel silenzio cominciò la mia vera vita.”. Cristina di Markyate, Vita, XII sec.
LA CELLA E LA VITA QUOTIDIANA
Gli spazi destinati alla reclusione erano estremamente semplici. In genere si trattava di un vano di pochi metri quadrati, dotato di un altare, un giaciglio, una lampada e un crocifisso. La povertà materiale rifletteva la volontà di ridurre ogni mediazione sensibile per avvicinarsi al mistero divino. La reclusa trascorreva le giornate in preghiera, meditazione e penitenza, recitando i salmi o leggendo testi sacri, se alfabetizzata.
“Non temo la solitudine, perché Dio mi parla tra queste pietre. La mia finestra è piccola, ma attraverso di essa passa la luce che illumina tutto il mondo.”. Giuliana di Norwich, Rivelazioni, XIV sec.
Nonostante l’isolamento fisico, la reclusa occupava una posizione significativa nella vita della comunità. Attraverso la feritoia, molti fedeli si rivolgevano a lei per ricevere consigli spirituali o conforto. In diversi casi, tali donne divennero figure di riferimento, considerate sante viventi o intermediarie tra la terra e il cielo.
“Molti vengono a chiedere consiglio; io rispondo poco, ma prego molto. La mia parola è il silenzio, e il silenzio è la mia parola.”. Testimonianza di una reclusa in Ancrene Wisse, XIII sec.
SIGNIFICATO TEOLOGICO E PERCEZIONE SOCIALE
Il gesto della reclusione si fondava sull’idea della conversio morum, il totale mutamento di vita e di stato. L’isolamento non era soltanto privazione, ma un mezzo per ottenere purezza spirituale. L’immagine della donna murata viva, al contempo spaventosa e venerata, suscitava nel popolo sentimenti contrastanti di timore e ammirazione. La reclusa incarnava la tensione tra la morte terrena e la vita eterna, divenendo una presenza silenziosa ma potentemente simbolica all’interno del tessuto urbano e religioso medievale.
“Essi mi chiamano morta, ma io li guardo e sorrido: essi vivono nel mondo, io vivo in Dio.” — Frammento attribuito a una reclusa fiamminga, XIII sec.
CONCLUSIONE
La reclusione femminile, lungi dall’essere un fenomeno marginale, riflette una delle esperienze più estreme e significative della spiritualità medievale. Essa univa dimensioni ascetiche, teologiche e sociali, trasformando la cella in uno spazio liminale, luogo di separazione e al tempo stesso di contatto con il divino. In un’epoca in cui la voce femminile era spesso confinata al silenzio, la reclusa trovava proprio nel silenzio la sua forma più alta di espressione.
“Nel silenzio Dio parla, e la mia anima risponde come eco nel cuore della pietra.”. Giuliana di Norwich, Rivelazioni, cap. 51
FONTI PRIMARIE (medievali)
• Regula inclusarum di Aelredo di Rievaulx (XII sec.).
• Ancrene Wisse (Inghilterra, XIII sec.).
• Liber confortatorius di Goscelin di Saint-Bertin (XI sec.).
• Ordines ad recludendum anachoretam (XI–XIII sec.).
FONTI SECONDARIE (studi moderni e contemporanei)
• Anneke B. Mulder-Bakker, Lives of the Anchoresses (2005).
• E. A. Jones, Hermits and Anchorites in England, 1200–1550 (2019).
• Liz Herbert McAvoy, Medieval Anchoritisms (2011).
• Henrietta Leyser, Hermits and the New Monasticism (1984).
• Caroline Walker Bynum, Holy Feast and Holy Fast (1987).
• Catherine Innes-Parker & Naoë Kukita Yoshikawa, Anchoritic Traditions of Medieval Europe (2016).
• Silvana Vecchio, La donna medievale tra peccato e santità (1995).
• Giorgio Otranto, Monachesimo e società nell’alto medioevo (2008).

