di Zela Santi
17 Ottobre 2025
Il vertice di Sharm el-Sheikh ha trasformato la “pace” in un palcoscenico diplomatico: leader arabi in posa, ma interessi reali di potere e visibilità. Bin Salman, Al-Sisi, Erdogan e Meloni recitano la loro parte. Gaza resta strumento geopolitico, non centro di reale cambiamento.
In fila per la pace (o per l’immagine)
Torniamo a ragioanre sul vertice di Sharm el-Sheikh per promuovere il cessate il fuoco a Gaza e rilanciare un piano di pace regionale. Alla cerimonia hanno partecipato decine di capi di Stato e di governo, tra cui Donald Trump e Abdel Fattah el-Sisi, mentre Israele e Hamas hanno delegato la loro assenza. Le immagini del summit ritraggono leader arabi in posa, dichiarazioni solenni e fotografie di circostanza.
Ma dietro l’apparenza protocollare, la realtà geopolitica nasconde legami di potere assai meno idealisti. Il summit ha assunto il carattere di una vetrina diplomatica: ogni Stato arabo ha mostrato la propria adesione alla “causa palestinese”, anche se spesso in modo più simbolico che effettivo.
Il paragone con società per azioni non è casuale: molti regimi del Golfo sono strettamente dipendenti da forniture militari esterne, armi statunitensi o contratti con compagnie private, e vedono nel soft power e nella visibilità internazionale strumenti per rafforzare la propria legittimità.
Israele, pur invitato, ha deciso di non partecipare attivamente. Il rifiuto del primo ministro Netanyahu di recarsi al summit è stato giustificato ufficialmente con la concomitanza di festività religiose, ma la sua assenza assume un forte significato politico: non compromettere il proprio status militar-predominante nell’area.
Il vertice è servito altresì a consolidare nuovi equilibri: l’Iran rimane isolato, messo in ombra dalle dinamiche di alleanza tra il blocco filo-statunitense e i governi arabi del Golfo che cercano investimenti, sostegno economico e sicurezza garantita.
Obiettivi concreti e retroscena nascoste
Tra i capi che hanno guadagnato visibilità, Bin Salman ha ottenuto garanzie per la sua strategia Vision 2030, che punta a diversificare l’economia saudita allontanandola dalla dipendenza dal petrolio. L’adesione al vertice rafforza la sua immagine internazionale, utile ad ammansire critiche interne e a siglare accordi con capitali stranieri.
Al-Sisi, da parte sua, ha cercato di tutelare il Sinai, temendo che diventi un obiettivo israeliano dopo la guerra a Gaza. Il ruolo egiziano come mediatore è rafforzato ed è confermato anche dalla sua posizione nel co-presiedere il summit insieme a Trump.
Erdogan ha colto l’occasione per riallacciare rapporti con Israele e “far affari”, come ha già fatto in passato, mostrando una flessibilità pragmatica nel trasformismo politico regionale. Intanto il Qatar continua a crescere nel ruolo di interlocutore chiave mediando direttamente tra Gaza e attori internazionali.
E poi c’è la scena italiana: la primo ministro Giorgia Meloni ha tentato di rivendicare un ruolo negoziale. Ma il suo peso è ridotto: lo Stato italiano non ha mai avuto un’influenza diretta su queste dinamiche di potere in Medio Oriente, e quindi la sua pretesa su quella “scena” resta politicamente marginale.
Sul piano strategico più ampio, il summit ha funzione anche di piattaforma per isolare l’Iran e prepararsi a scenari futuri di pressione militare o diplomatica. L’Occidente mantiene le sue pedine, l’Asia e l’arte del “soft control” avanzano, gli Stati nazionali arabi si fanno sempre più simili a piattaforme al servizio di interessi maggiori.
In realtà, dietro discorsi di pace, si scorgono interessi di dominio, controllo delle risorse, affermazione del proprio posizionamento internazionale.
Questa tregua non è una tregua: è un passaggio di testimone mascherato da altruismo, un riassetto dei poteri con Gaza come cartina di tornasole.
Tratto da: Kultur Jam

