di Alexandro Sabetti
24 Ottobre 2025
Parlare di “anti-occidentalismo”, fuori e dentro i confini della nostra società, non ha alcun senso: la guerra in Ucraina è il sintomo di una crisi globale. L’Occidente, abituato a dominare senza limiti, non accetta il riequilibrio del potere mondiale. L’egemonia USA vacilla, e il mondo multipolare chiede il suo spazio storico.
L’Occidente e la crisi di un dominio senza limiti
L’accusa di “anti-occidentalismo” che circola ampiamente dentro e fuori l’Occidente, è alimentata da un sistema mediatico che, con la guerra in Ucraina – come anche nello sterminio inflitto ai palestinesi da Israele – ha polarizzato il dibattito incasellando le analisi scomode in categorie antitetiche all’accettabile (‘antioccidentali’, ‘antisemiti’ etc.)
Essa in realtà trova le sue radici in una critica del dominio politico, economico e culturale esercitato dall’Occidente stesso sul resto del mondo.
Tale atteggiamento non è un’automatica reazione irrazionale, ma piuttosto un’espressione razionale di “resistenza” da parte di società che si sono trovate a interagire con potenze occidentali in forme politiche ed economiche squilibrate.
Al tempo stesso, la stigmatizzazione dell’anti-occidentalismo come semplice “ostilità culturale” occulta il fatto che esso rifletta un conflitto reale sull’egemonia globale e sulla legittimità delle strutture internazionali dominanti.
Dichiarare che chi critica l’Occidente è “anti” significa ignorare che il rifiuto riguarda soprattutto un ordine diseguale, non necessariamente l’Occidente in sé.
Guerra in Ucraina e antioccidentalismo
Alla radice della guerra in Ucraina non c’è solo il conflitto tra due Stati o l’ambizione territoriale di Mosca: c’è una tensione sistemica che riguarda l’intero ordine mondiale.
L’espansione della NATO verso est, presentata come un processo “difensivo” o naturale, rappresenta in realtà la manifestazione concreta di una pretesa più profonda: quella degli ‘atlantisti’ di poter esercitare i propri interessi strategici e geopolitici senza accettare limiti o reazioni da parte degli altri attori globali.
Allo stesso modo, l’intensificarsi della presenza militare statunitense nei Caraibi rappresenta una tappa ulteriore della politica di dominio USA: sotto la parvenza della “lotta alla droga” si nasconde in realtà la corsa al controllo delle risorse strategiche latinoamericane, con il Venezuela al centro e il petrolio come obiettivo primario.
Dietro la retorica della “difesa della democrazia” si cela la convinzione – radicata da secoli – che il potere economico e militare occidentale sia legittimato a imporsi sul resto del mondo.
È una forma di arroganza di civiltà che ha accompagnato tanto il colonialismo quanto il liberalismo contemporaneo, entrambi fondati sull’idea che la superiorità del “nostro modello” giustifichi l’espansione e la dominazione.
L’impero militare guidato dagli Stati Uniti si estende oggi in ogni angolo del globo, con centinaia di basi operative che rappresentano l’eredità tangibile di un lungo processo di dominio sulle risorse e sui flussi economici mondiali.
Questo equilibrio artificiale ha permesso a una ristretta parte dell’umanità — meno di un quinto della popolazione mondiale, composta dalle élite economiche e politiche dell’Occidente — di vivere al di sopra delle proprie possibilità, alimentando la prosperità interna attraverso lo sfruttamento del resto del pianeta.
Ogni tentativo di rompere questa piramide di potere viene rapidamente soffocato: prima con sanzioni e isolamento diplomatico, poi con crisi indotte o, nei casi più estremi, con l’uso diretto della forza militare.
L’ordine internazionale basato sulla supremazia occidentale ha prodotto caos, disuguaglianze e guerre, mentre chi lo impone continua a presentarsi come difensore della libertà.
Ecco l’ironia tragica del presente: gli aggressori di ieri si proclamano vittime non appena qualcuno osa sfidarne il predominio.
Un riequilibrio inevitabile
Riconoscere che la Russia possieda pulsioni imperiali non significa negare la realtà di un contesto internazionale segnato da squilibri storici. Nella crisi ucraina, Mosca reagisce – per quanto in modo aggressivo – a un processo di accerchiamento politico e militare che ha progressivamente eroso la sua sfera di sicurezza.
È una risposta che, nel più ampio quadro geopolitico, riflette il malcontento di un mondo non occidentale sempre meno disposto a sottomettersi all’egemonia statunitense.
Ed è per questo che il ruolo dei BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – appare strategico: il blocco rappresenta un’alternativa concreta all’ordine occidentale, promuovendo cooperazione economica, politica e tecnologica tra paesi emergenti.
La crescente influenza dei BRICS sfida l’unilateralismo statunitense e rafforza la capacità dei paesi non occidentali di perseguire politiche autonome, riequilibrando gradualmente i rapporti di potere globali.
Il mito infranto
La “Terza guerra mondiale a pezzi”, come molti la definiscono, non è il frutto di fanatismi o di conflitti regionali isolati, ma l’espressione di una svolta storica: la fine dell’egemonia unipolare statunitense e l’ascesa di un ordine multipolare in cui Asia, Africa e America Latina rivendicano finalmente parità di ruolo e di voce nello scenario globale.
L’Occidente continua tuttavia ad aggrapparsi a un modello di dominio economico e militare ormai obsoleto, incapace di accettare che la centralità produttiva e tecnologica del pianeta si sia spostata altrove. Di fronte a questa perdita d’influenza, sceglie la via della coercizione: sanzioni, guerre indirette, manipolazione dell’informazione e una costante narrazione di superiorità morale.
Parallelamente, l’ASEAN e le nuove “tigri” dell’Estremo Oriente — Vietnam, Indonesia, Thailandia, Malesia e Filippine — stanno emergendo come poli produttivi e tecnologici autonomi, capaci di attrarre investimenti globali e rafforzare catene del valore indipendenti dall’Occidente.
Questi paesi dimostrano che lo sviluppo industriale e l’innovazione non sono più esclusiva delle potenze tradizionali, mettendo in luce un cambiamento strutturale che sfida la supremazia economica e strategica occidentale.
Il mito dell’Occidente “umanitario” si è infranto — emblematicamente a Gaza — rivelando l’abisso tra i suoi valori proclamati e le pratiche reali di potenza.
Il mito dell’Occidente “umanitario” si è infranto — emblematicamente a Gaza — rivelando l’abisso tra i suoi valori proclamati e le pratiche reali di potenza. La popolazione civile palestinese, confinata in uno spazio di soli 365 km², subisce bombardamenti mirati, distruzione sistematica delle infrastrutture essenziali e restrizioni quotidiane su cibo, acqua ed elettricità, in una condizione che l’ONU ha più volte definito “assedio de facto” e “tentato genocidio”.
La narrazione ufficiale minimizza questi attacchi o li giustifica presentandoli come “risposta difensiva”, “colpa di Hamas”, negando la portata del genocidio de facto e oscurando la responsabilità diretta di Israele e del sostegno politico e militaredi Europa e Stati Uniti.
L’ipocrisia emerge così evidente: l’Occidente proclama diritti e libertà mentre permette che un’intera popolazione venga sistematicamente annientata.
Essere accusati di “anti-occidentalismo” per aver riconosciuto tale ipocrisia equivale, piuttosto, a un atto di onestà intellettuale. Comprendere che il riequilibrio in atto non è un pericolo, ma una tappa inevitabile della storia.
Solo accettando di non detenere più il monopolio del potere, il vecchio mondo potrà riscattare la propria credibilità morale e salvare ciò che resta della sua autentica idea di civiltà.
Tratto da: Kultur Jam

