di Devadatta Mahācakra
Attraverso gli strumenti digitali più recenti, OCR, traslitteratori e traduttori, ho potuto accedere direttamente alla versione originale telugu della Gītā Vāhinī di Satya Sāī Bābā.
Quest’opera può a pieno titolo essere considerata un moderno bhāṣya della Bhagavad Gītā, per profondità interpretativa e coerenza vedāntica.
Nel lavoro di confronto ho scoperto quanto la traduzione inglese di riferimento, e da questa le versioni in altre lingue, abbiano spesso eliminato i termini sanscriti che Sāī Bābā aveva scelto con esattezza e intensità di significato.
Quando un autore, scrivendo in una determinata lingua, sceglie di ricorrere a un’altra per esprimere con maggiore precisione un concetto, il traduttore ha il dovere di rispettare quella scelta. Ogni parola, soprattutto se sanscrita, porta con sé una densità semantica e un campo di risonanze che non possono essere sostituiti senza perdita. Tradurre non significa uniformare, ma custodire la differenza linguistica come segno di profondità: là dove l’autore sente il bisogno di un’altra lingua, egli apre uno spazio di senso che il traduttore deve preservare intatto.
Nel verso 2.11 della Bhagavad Gītā Kṛṣṇa rimprovera Arjuna:
aśocyān anvaśocas tvaṃ prajñā-vādāṃś ca bhāṣase |
gatāsūn agatāsūṃś ca nānuśocanti paṇḍitāḥ ||BG 2.11
Tu (tvam) ti sei afflitto (anvaśocas) per coloro che non dovrebbero essere pianti (aśocyān) e pronunci (bhāṣase) parole (vādān) di sapienza (prajñā).
I sapienti (paṇḍitāḥ) non si affliggono (na anuśocanti) né per i morti (gatāsūn) né per i vivi (agatāsūn) *.
Nella Gītā Vāhinī, Sāī Bābā interpreta questo passo mostrando come in Arjuna agiscano due tipi di illusione (moha): quella comune (sāmānya-moha **), l’identificazione del corpo con il Sé, e quella più sottile (asādhāraṇa-moha ***), che lo porta a scambiare il proprio dovere (svadharma) per adharma.
Solo attraverso la conoscenza del Sé (ātma-bodha) entrambe si dissolvono, e il dharma torna a risplendere come azione pura, libera dal desiderio del frutto (niṣkāma-karma).
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* gatāsūn / agatāsūn, āsu (pl. āsūn), “soffi vitali”, “principi di vita”. È affine a prāṇa, la forza che anima il corpo. gatāsūn, “coloro i cui soffi vitali sono andati”, indica i morti, mentre agatāsūn, “coloro i cui soffi vitali non sono andati”, indica i vivi. Tuttavia, āsu non allude soltanto alla respirazione fisica, ma alla presenza della coscienza vitale che sostiene l’individualità. I paṇḍita, cioè i saggi, non si affliggono né per i corpi in cui la vita si è ritirata, né per quelli in cui ancora pulsa, poiché riconoscono che la realtà ultima non è toccata dal venire o dallo svanire dei soffi vitali.
** sāmānya-moha, composto da sāmānya, “comune, ordinario, generale”, e moha, “illusione, offuscamento, errore percettivo”, il termine indica la forma di illusione ordinaria che consiste nel confondere il corpo (deha) con il Sé (ātman), attribuendo al principio cosciente le qualità e i limiti dell’involucro materiale. È l’errore fondamentale di identificazione, dehātma-buddhi, che genera l’intera catena di percezioni duali e affettive, come piacere e dolore, amore e odio (rāga–dveṣa).
Kṛṣṇa inizia correggendo in Arjuna proprio questa illusione comune, prima di affrontare la più sottile confusione (asādhāraṇa-moha), cioè lo scambio tra il proprio dovere (svadharma) e il suo opposto (adharma).
*** asādhāraṇa-moha, composto da asādhāraṇa, “straordinario, particolare, non comune”, e moha, “illusione, errore, confusione”. Designa una forma più sottile e rara di illusione rispetto alla sāmānya-moha. Non consiste semplicemente nello scambiare il corpo per il Sé, ma nel confondere il giusto discernimento etico e spirituale, scambiando il proprio dovere (svadharma) per ingiustizia (adharma). In Arjuna questa illusione si manifesta quando, sopraffatto dall’emozione e dall’attaccamento (mamakāra), egli ritiene che combattere sia contrario al dharma, mentre in realtà l’azione giusta, compiuta senza desiderio di frutto (niṣkāma), è strumento di liberazione (mokṣa).

