Guerra permanente: il capitalismo globale trasforma conflitti in governance

di Chiara Pannullo

2 Ottobre 2025

La guerra contemporanea non esplode, si amministra: logistica, tecnologia, finanza e immagini trasformano conflitti in strumenti di controllo globale. Dall’Europa all’Africa, dal Medio Oriente al Pacifico, il capitale governa le rovine e orienta società e mercati.

Il capitalismo globale trasforma conflitti in governance

Non c’è più nulla da “prevedere”: la guerra è già la forma del nostro presente. Non ha i confini dei conflitti mondiali del Novecento; si muove come una rete elettrica, accendendo focolai che si richiamano a distanza e riorganizzano, a ogni scossa, catene del valore, flussi energetici, rotte marittime, immaginari.

Il suo lessico non è solo quello dei carri armati: è fatto di sanzioni, controlli delle esportazioni, blocchi logistici, piattaforme tecnologiche, regimi finanziari. È una guerra mondiale diffusa: non si dichiara, si amministra.

Gaza è la lente che ingrandisce la grammatica del tempo. Qui la politica ha convertito il trauma in capitale: la giornata del 7 ottobre è stato montata, ritrasmessa, coreografata per rifondare un potere in crisi.

Non si tratta di “difesa”, ma di rifondazione identitaria. La prima etnogenesi di Israele fu sionista: un’auto-narrazione di fondazione nazionale costruita sulla rimozione dell’altro.

La seconda etnogenesi, oggi, non è più mitologica ma genocidaria: l’identità collettiva viene riplasmata sull’annientamento materiale del nemico. In termini materiali, questa macchina funziona perché opera su tre leve che il nostro tempo rende potenti: assedio logistico (acqua, cibo, carburante, elettricità come armi), spettacolo della violenza (immagini che non informano: producono adesione), immunizzazione giuridica (eccezione permanente che sospende la legge). L’estetizzazione della politica prepara la catastrofe: lo spettacolo è un rapporto sociale. Qui, lo spettacolo rende il genocidio governabile.

L’Ucraina mostra la variante europea della stessa logica. È guerra per procura: il territorio ucraino diventa piattaforma di logoramento funzionale a ristrutturare filiere energetiche, mercati dell’armamento, gerarchie euro-atlantiche. La Russia non è un oggetto passivo: agisce, con calcolo imperiale, per ridefinire sfere d’influenza e profondità strategica.

Ma è il regime ucraino ad aver scelto la piena subalternità alla macchina occidentale, accettando di trasformare la propria popolazione in risorsa di guerra. Qui il banderismo riemerge come collante ideologico: un mito reazionario che serve a compattare, a occultare diseguaglianze, corruzioni, fratture sociali, a prolungare la mobilitazione oltre ogni razionalità. Risultato: il conflitto non mira a chiudersi; mira a durare, perché la durata è la vera posta in gioco (per contratti d’energia, riconfigurazioni industriali, debito pubblico, filiere militari).

L’Europa, intanto, viene ricodificata come periferia armata della strategia atlantica: perde autonomia energetica, affida la propria manifattura a catene sempre più care, si militarizza senza progetto politico.

Nel Mar Rosso la guerra si manifesta come guerra delle rotte: gli attacchi nel Bab el-Mandeb non sono “episodi”, sono messaggi alla logistica globale. Basta deviare poche centinaia di navi perché costi, assicurazioni, tempi di consegna riallineino intere catene industriali. È la prova che, nell’epoca della containerizzazione, il mare è un fronte.

La Siria è ridotta a un mosaico di zone d’influenza, una cartografia spezzata che riflette in scala la guerra mondiale diffusa: non pacificazione, ma stabilizzazione armata, non ricostruzione, ma amministrazione del disastro.
In Iraq il 2003 non è finito: è diventato condizione. In Afghanistan il ritiro ha sancito che vent’anni di occupazione possono evaporare in giorni, lasciando macerie sociali come debito storico. La guerra al terrorismo è stata l’officina in cui l’eccezione è diventata metodo amministrativo.

In Africa il quadro non è solo di dominio: è anche di risposta anticoloniale. Nel Sahel il riposizionamento contro Parigi non è mero opportunismo: segnala una domanda di autonomia materiale (uranio, oro, terre rare, corridoi) e simbolica (sovranità e dignità) che si appoggia, certo, a nuovi patroni — Mosca per la forza, Pechino per infrastrutture e credito — ma che registra un fatto politico: l’egemonia occidentale non è più data.

In Sudan la guerra “invisibile” produce milioni di sfollati e ridisegna le geografie del Nilo; nella RDC le terre rare del Kivu mostrano come la guerra sia iscritta nei dispositivi stessi dell’economia digitale. L’Africa non è più soltanto “teatro”: diventa soggetto contrattuale di un multipolarismo incrinato, attraversato da tensioni e possibilità.

Nel Pacifico la guerra è sospesa e già in atto. Taiwan non è solo isola: è nodo della manifattura mondiale del silicio. Il suo status è, di per sé, un’arma. Il Mar Cinese Meridionale è una costellazione di corridoi; i passaggi stretti (Malacca, Luzon) sono rubinetti dell’economia globale. Qui l’attrito sino-statunitense è militare (flotte, basi), tecnologico (export-controls su chip, apparecchiature litografiche, AI), finanziario (sanzioni mirate, de-risking), monetario (sistemi di pagamento alternativi).

La Cina compone una propria ecologia: vie della seta, piattaforme di clearing, standard tecnici; i BRICS — nell’allargamento e nelle intese bilaterali — non sono blocco monolitico, ma l’architettura di sostegno a una de-occidentalizzazione parziale dei flussi. Non garantiscono la pace, spostano semmai il baricentro delle negoziazioni.

In Sud America il quadro è fatto di oscillazioni e tentativi. Dal Brasile di Lula, che cerca di muoversi in equilibrio tra autonomia regionale e compatibilità globale, al Venezuela, che da anni resiste a un embargo durissimo e a tentativi continui di destabilizzazione e dove, nonostante crisi interne e contraddizioni, Caracas ha cercato di tenere insieme un modello sociale fondato sulla redistribuzione del petrolio e sulla difesa della propria sovranità, pagando un prezzo altissimo ma riuscendo, almeno in parte, a non piegarsi del tutto all’isolamento.

L’Argentina invece, oscilla tra aperture shock e dipendenza finanziaria, mentre i movimenti sociali continuano a spingere per alternative. I BRICS rappresentano qui una via di fuga dal dollaro, un tentativo di immaginare un mondo multipolare, dove ogni passo verso l’autonomia, viene però immediatamente catturato dentro il conflitto globale.

Gli Stati Uniti restano l’epicentro del comando, ma con un corpo sociale fratturato e un’egemonia costretta alla iperattività sanzionatoria e al ricorso a filiere amiche (“friend-shoring”). La loro forza è ancora materiale (dollaro, sistemi di pagamento, brevetti, basi, rotte marittime); la loro debolezza è organica: l’ordine che amministrano non produce stabilità, ma instabilità governata.

E l’Europa sempre sullo sfondo che priva di una base energetica autonoma e di una politica industriale reale, scivola in una periferia armata: riarmo accelerato, industria militare in espansione, welfare in contrazione.

Tutto questo non è un mosaico di episodi, ma un dispositivo unico. La guerra contemporanea opera su quattro piani intrecciati: logistica (chokepoint, porti, corridoi), tecnologia (standard, chip, satelliti, IA), finanza (sanzioni, valute, debito), immaginario (traumi mediatizzati).

È qui che la lezione di Debord e Benjamin diventa strumento: lo spettacolo non è estetica della guerra, è la guerra; l’estetizzazione della politica non “accompagna” la catastrofe, la rende possibile. Le immagini non riflettono: orientano consumi, alleanze, odio, consenso. È per questo che la guerra “non finisce”: perché è il metodo con cui un capitalismo in crisi riproduce comando e margini, trasformando la distruzione in governance.

Se cerchiamo tendenze non fantasiose, i segnali sono lineari. La spesa militare globale cresce; la militarizzazione della logistica avanza (convogli scortati, assicurazioni speciali, rotte deviate); la tecnologia diventa regime di licenze e veti incrociati; la moneta si fa arma (sanzioni, sequestro di riserve, pagamenti alternativi). L

a climate-economy aggiunge uno strato: siccità, alluvioni, crisi alimentari spingono nuovi esodi, forniscono pretesti securitari, aprono fronti di green-estrattivismo. Niente “terza guerra mondiale” da annunciare: una guerra permanente già operante, che si espande per metastasi.

Dentro questo quadro, l’Africa non è pedina muta: prova a parlare con voce anticoloniale; il Sud globale si organizza in geometrie variabili; i BRICS anche qui disegnano una pluralità di corsie; la Cina offre infrastrutture in cambio di standard; gli USA tengono il timone delle reti finanziarie; la Russia cerca magine strategico con guerra e materie prime; l’Europa paga il prezzo di una conversione militare senza autonomia strategica. Il nesso resta uno: il comando sul lavoro vivo attraverso la gestione del caos. È qui che si misura la posta politica.

Non si tratta, allora, di chiedere quando “scoppierà” la guerra, ma se siamo in grado di nominarla per ciò che è: un regime di riproduzione che usa logistica, tecnologia, finanza e immagini per trasformare l’eccezione in norma.

La scelta è tra restare spettatori anestetizzati, catturati dal racconto che ci separa e ci addestra, o rimettere al centro un conflitto reale: non popolo contro popolo, ma società contro il dominio che le consuma. Perché la guerra, oggi, non è un incidente: è la forma con cui il capitale governa le rovine che produce.

Tratto da: Kultur Jam

Guerra permanente: il capitalismo globale trasforma conflitti in governance
Guerra permanente: il capitalismo globale trasforma conflitti in governance

Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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