di Gabriele Guzzi
Ci aspettano tempi duri, molto probabilmente. Quelli in cui anche il ricordo del mistero glorioso dell’umano, nella sua tragicità incarnata, sarà offuscato dai potenti di questo mondo.
È, infatti, la consapevolezza della dignità assoluta di ognuno di noi, della nostra adesione alla sfera del divino, ciò che i signori dell’oscurità odiano di più: perché li smaschera.
In questa svolta, ci sono alcuni punti fermi da difendere. Uno tra questi è ritornare a lavorare sulla qualità. Questo mondo ti vuole dare la merda e farti credere che è cioccolato Lindt. E, purtroppo, spesso ci riescono. D’altronde, al popolo piace non ciò che vuole ma ciò che gli si dà, e se per anni gli si dà l’acqua di fogna, finirà per credere che è champagne.
La qualità non protesta, non si adira, non compara, non sminuisce. La qualità sta lì, come un segno di contraddizione, come una furia, e come un ricordo dolcissimo di qualcosa di altro, e di oltre, che ci chiama e ci reclama, ci convoca a sé.
La qualità è l’antidoto più potente a qualunque massificazione e istupidimento, diceva Bonhoeffer. La qualità è il frutto della disciplina, dell’umiltà, della virtù, dell’ascolto, di un anelito educato, di una sana determinazione.
Questo mondo odia la qualità. Penso ai talent musicali, dove nella giuria 3 persone su 4 non sanno neanche cantare, e vengono chiamate a valutare ragazzi che magari hanno un talento vero. E l’unico soggetto che ha almeno una tecnica canora di livello, viene messa a presentare dietro le quinte…
Se non ci indigniamo dinanzi a questa superbia, perché di questo parliamo, l’umano è stato già obliato. Sminuire il bello, il giusto, il vero, è l’atto più blasfemo che si possa immaginare.
Dobbiamo tornare invece a un gusto semplice, a lodare la bellezza, nella semplicità dell’umano, nella sua carne, nella sua storia, nel tessuto organico del suo dolore, nella varietà infinita del suo campo emotivo, senza idee astratte o estetismi. La bellezza è il ricordo della luce che ci ha creato e ci costituisce. E quindi si espone, ma non impone, né si mette a fare classifiche. Sta a lì a curarci. E basta.
In questa dittatura dell’osceno, lavorare sulla qualità può essere un grande esercizio spirituale, ma anche una forma di disobbedienza civile, e un primo passo per un’aggregazione culturale e politica, contestativa e rivoluzionaria.

