di Luciano Tovaglieri
Il copricapo che oggi conosciamo col nome “fez” (in turco fes, in arabo ṭarbūš) ha una storia lunga, complessa e sorprendentemente piena di significati politici, sociali e simbolici. Nato forse in Nord Africa e poi assorbito dall’abbigliamento ufficiale dell’Impero Ottomano, il fez divenne un simbolo di modernizzazione e allo stesso tempo di identità imperiale. Più tardi, nella prima metà del Novecento, fu ripreso in Europa – in particolare in Italia – dal regime fascista con una reinterpretazione tutta interna al mito dell’Impero e della milizia. Confrontare il fez ottomano con il fez fascista significa dunque osservare non solo due cappelli, ma due progetti politici, due immaginari e due visioni del mondo.
Origini e funzione del fez ottomano
Le origini del fez sono in parte oscure: secondo alcune ricerche, il nome deriverebbe dalla città di Fes in Marocco, dove si estraeva un colorante rosso-crimson utilizzato per tingere il feltro dei cappelli.  Verso il XIX secolo, nell’Impero Ottomano sotto il sultano Mahmud II, il fez fu introdotto come copricapo ufficiale per esercito e funzionari: intorno al 1826 egli riformò l’esercito, soppresse i giannizzeri e impose uniformi più «moderne», tra cui il fez che sostituiva il turbante.  In quel contesto, il fez divenne segno visibile di appartenenza all’impero, di modernità – almeno secondo l’ottica della corte – e simbolo di uniformità del suddito ottomano.  Nel suo uso quotidiano, il fez era spesso di colore rosso, senza tesa, con o senza nappa/tassello sulla sommità; era fatto in feltro (o panno di feltro), e la forma relativamente semplice permetteva anche di pregare (dato che non vi era tesa sporgente). 
Esteticamente, il fez tradizionale aveva una calotta cilindrica, piuttosto breve, talvolta leggermente conica verso l’alto o con corona piatta. Il materiale era panno o feltro colorato (rosso tipicamente), la nappa era spesso in stoffa o seta, di colore scuro. In alcuni casi – specialmente nell’esercito ottomano – lo si vedeva con decorazioni, come stemmi, oppure in varianti di colore (bianco per gli Albanesi, ad esempio).  Le ragioni per cui fu scelto come uniforme: simbolo di «riforma», di differenziazione dal turbante tradizionale, e insieme segno di modernizzazione che però paradossalmente serviva per imporsi su tradizioni più locali. 
Il fez fascista: appropriazione simbolica e nuovi significati
In Italia del ventennio fascista, il fez comparve come parte delle uniformi della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N., le “camicie nere”) e di altre organizzazioni paramilitari del regime.  Il fez fascista aveva caratteristiche visive e materiali diverse: era spesso nero (o di panno nero), con nappa/tassello nera, con fascia al bordo, e decorazioni quali l’aquila littoria o fasci italiani ricamati in filo dorato, distintivi di grado e appartenenza fascista. Ad esempio, esistono esemplari in feltro nero, fodera in seta o panno interno, e marchi di fabbrica romani iscritti all’interno.  Il fez nero non fu una scelta casuale: richiamava la camicia nera, simbolo della milizia fascista, e serviva a marcare visivamente l’appartenenza al regime, la disciplina e la militanza. Inoltre, rileva il fatto che l’Italia aveva contatti coloniali in Nord Africa (Libia, Eritrea) dove il fez e simili copricapi orientali già erano noti all’interno delle uniformi coloniali italiane e come emblemi dell’Impero. In quel senso, il fez di terra italiana assumeva anche un valore “coloniale” e un richiamo all’espansione mediterranea.
Differenze tecniche e materiali
Le differenze principali tra fez ottomano e fez fascista riguardano colori, materiali, decorazioni e contesto d’uso.
Nel fez ottomano tradizionale: materiale di feltro/panno colorato (rosso rosso-crimson come “fez di Fes”), nappa spesso semplice, occasionali stemmi o simboli ottomani, uso sia civile che militare, forma cilindrica o leggermente conica. Nel fez fascista: panno nero, nappa nera, fascia perimetrale (bordo) spesso in gros-grain, stemma fascista (aquila littoria, fascio) ricamato, uso esclusivamente paramilitare, simbolo di militanza attiva. I feltro o panno erano di provenienza italiana, spesso fabricati a Roma o in stabilimenti italiani, come indicato dai marchi interni. Un’esemplare in asta recita “Francesco Zingone, Via Cola di Rienzo, Roma” sul sweatband interno. Il fez fascista era dunque più “decorato”, più distintivo, meno legato all’uso quotidiano che a un simbolo di cerimonia o uniforme.
Note di colore e aneddoti
Una curiosità: il fez ottomano fu considerato per decenni un simbolo dell’impero stesso, tanto che nel 1925 lo stato turco repubblicano guidato da Mustafa Kemal Atatürk lo proibì come parte della politica di occidentalizzazione: fu visto come “simbolo della monarchia e del passato imperiale” che andava superato.  In modo speculare, il regime fascista italiano lo riutilizzò come strumento di identità militare, appropriandosene e trasformandolo in segno di autorità. Un esemplare raro del fez della MVSN è stato messo all’asta negli Stati Uniti come “Italian High Fascist Leader’s Fez” – testimonianza di quanto il copricapo sia divenuto oggetto anche da collezione militare. Un’altra nota curiosa: benché il fez fascista richiami l’orientale “tarbush” nero usato a volte nelle uniformi coloniali italiane in Libia, la scelta del colore nero vuole chiaramente evocare la camicia nera e non un richiamo islamico. È una “romanizzazione” del copricapo orientale.
Il significato politico e simbolico
Il fez tradizionale era simbolo di appartenenza e modernizzazione all’interno dell’Impero Ottomano. Era visibile, riconoscibile, e indicava che chi lo portava aderiva – almeno esteriormente – al modello statale ottomano. Quando invece il fez fu adottato dal regime fascista, fu svuotato del suo significato originario e usato come emblema di milizia, di appartenenza ideologica e di dominio coloniale. Il cambiamento di colore, decorazione e contesto d’uso sono una testimonianza visiva di questa trasformazione simbolica. In questo senso, un semplice copricapo racchiude in sé una storia di potere, identità e trasformazione culturale.

