CONTRO GLI INTERESSI STATUNITENSI IN VENEZUELA

di Patrizia Stabile

Gli Stati Uniti accusano il Venezuela di favorire il narcotraffico, ma dietro questa narrazione si muove una pressione militare che non ha nulla a che vedere con la sicurezza. Il 24 ottobre, la portaerei USS Gerald R. Ford è entrata nel Mar dei Caraibi insieme a un gruppo d’attacco composto da unità navali e bombardieri strategici. Ufficialmente un’operazione “contro il traffico di droga”, in realtà un sistema d’accerchiamento attorno a un paese sovrano. È la stessa strategia già vista in Medio Oriente e in Europa orientale: un pretesto “umanitario” o “di sicurezza” per giustificare il posizionamento di forze d’intervento.

Ma il Sud America non è più quello degli anni delle dittature filo-statunitensi, quando le decisioni venivano prese a Washington e imposte ai governi locali. Con Chávez, e poi con l’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América), e con l’ascesa dei governi popolari, il continente ha cominciato a costruire una propria voce autonoma, capace di sfidare apertamente l’ingerenza esterna. Il Venezuela, in questo senso, è diventato il simbolo più visibile di quella indipendenza politica che oggi si tenta di spegnere con la forza.

Il 26 ottobre, il governo venezuelano ha denunciato pubblicamente un piano di “false flag” organizzato da mercenari legati alla CIA, che avrebbero dovuto colpire una nave statunitense per attribuirne la responsabilità al Venezuela. L’obiettivo, secondo Caracas, era costruire il casus belli per un intervento diretto. La dinamica è nota: creare un incidente, diffondere il caos mediatico, e poi presentare l’azione militare come “risposta necessaria”. Il ministro della Difesa, Vladimir Padrino López, ha annunciato l’arresto di diversi sospetti e dichiarato che il paese si trova di fronte “alla più grave minaccia d’invasione degli ultimi decenni”. Le immagini diffuse dai media statali mostrano unità militari in allerta e manifestazioni popolari di sostegno al governo.

Tra il 27 e il 30 ottobre, gli Stati Uniti hanno condotto 13 attacchi aerei e navali contro presunte imbarcazioni di traffico di droga. Gli strike, avvenuti al largo di Trinidad e Tobago, hanno provocato circa 60 morti, tra cui cittadini venezuelani, colombiani ed ecuadoriani. Fonti regionali hanno denunciato che molte delle imbarcazioni colpite non trasportavano armi né sostanze illegali. L’ONU ha definito le operazioni “sproporzionate e potenzialmente illegali”, mentre diversi giuristi latinoamericani le considerano una violazione della Carta delle Nazioni Unite. Caracas ha reagito sospendendo l’accordo energetico con Trinidad e Tobago, accusato di complicità con Washington, e ha convocato d’urgenza gli ambasciatori dei paesi membri dell’ALBA. La risposta venezuelana non è solo diplomatica ma simbolica: riaffermare che il Sud America non è più territorio di conquista, ma spazio politico autonomo.

Oggi, 31 ottobre 2025, il Venezuela è in stato di massima allerta. L’esercito e la milizia bolivariana hanno avviato esercitazioni congiunte in tutto il territorio costiero. Maduro ha dichiarato che “il popolo venezuelano non si piegherà a nessuna minaccia” e ha riaffermato l’alleanza strategica con Russia, Cina e Iran. Le immagini satellitari confermano che almeno tre navi statunitensi — la USS Gerald R. Ford, la USS Arleigh Burke e la USS Hershel ‘Woody’ Williams — si trovano a meno di 300 chilometri dalle acque territoriali venezuelane. È una dimostrazione di forza che non lascia spazio a dubbi: gli Stati Uniti non cercano il dialogo, ma la resa del governo di Caracas.

Nel frattempo, il Caribe è diventato il nuovo epicentro della tensione mondiale: un mare attraversato da navi da guerra, basi di intelligence e accordi energetici che si intrecciano con gli equilibri globali. Ciò che accade qui non riguarda solo il Venezuela, ma il futuro stesso della sovranità nel Sud del mondo.

Dietro la retorica del narcotraffico si muove una strategia che va oltre il controllo delle risorse: è il tentativo di impedire che un paese sovrano possa gestirle in autonomia, al di fuori del sistema dominato dal dollaro e dalle istituzioni occidentali. Gli Stati Uniti non hanno bisogno di appropriarsi direttamente del petrolio venezuelano — hanno bisogno di impedirne l’uso politico. Un Venezuela libero di commerciare con Russia, Cina o Iran non rappresenta solo una minaccia economica, ma una minaccia simbolica: dimostra che si può sopravvivere e prosperare fuori dal perimetro americano.

La “lotta al narcotraffico” è dunque la forma aggiornata dell’interventismo: un discorso moralmente accettabile per coprire un obiettivo geopolitico. Ogni volta che un paese del Sud del mondo tenta di definirsi secondo logiche proprie, viene accusato di violare regole create altrove. È la stessa dinamica che ha colpito Cuba, l’Iraq, la Libia, e oggi il Venezuela: trasformare la sovranità in un reato.

Colpire Caracas non serve a conquistare nuove risorse, ma a riaffermare un principio di dominio. Per questo lo scontro non è solo militare o diplomatico: è ideologico. Il Venezuela rappresenta, nel cuore del Sud America, la prova concreta che un ordine alternativo è possibile — un ordine in cui la sovranità non è una concessione, ma un diritto.

CONTRO GLI INTERESSI STATUNITENSI IN VENEZUELA
CONTRO GLI INTERESSI STATUNITENSI IN VENEZUELA

Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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