di Luca Rudra Vincenzini
La parola nirvāṇa venne usata dal Buddha per indicare l’estinzione finale, il raggiungimento della bodhi, ma non ne spiegò mai l’etimologia. Fu così che le scuole dei monaci della prima comunità si cimentarono nell’esegesi del termine tramandato oralmente dal Buddha e mai messo per iscritto.
Tra questi Buddhagośa (Viśuddhimārga) ne cita alcuni:
1) niḥ-vāṇa, dalla radice vā-soffiare, intende l’estinzione del o con un soffio della brama (tṛṣṇā), e questo è il più usato e conosciuto dalle scuole monastiche;
2) niḥ-vāna, ove vāna è tessuto, ergo districato, sciolto, risolto;
3) niḥ-vana, ove vāna è brama, ergo senza desiderio;
4) niḥ-vāṇa, ove per vāṇa si intende il suono. Vāṇī nei Veda è Sarasvatī, la Dea della parola creatrice (Vāc), ergo “senza suono” come un gong che non riverbera più in risonanza con le dinamiche del mondo (lasciando tra le righe una sottile frecciatina ai Veda ed al mondo dei Brāhmaṇa).
5) niḥ-bhaṇa, che per errori di trascrizione dal parlato del Buddha è “senza parole”, ब ba e व va sono simili e facilmente intercambiabili nelle trascrizioni emanuensi e da qui lo scambio con l’aspirata भ bha della radice bhaṇ-parlare.
Il termine dunque si presta a molteplici interpretazioni, tutte legate al concetto di estinzione. Quella che io amo di più è proprio “senza parole”, solo quando non hai voglia di dire altro sei nello stato di estinzione. Ebbene, ci arriveremo al quel nirvāṇa che è silenzio…

