di Daniele Scalea
19 Novembre 2025
L’articolo seguente è tratto dall’intervento che Daniele Scalea, presidente della Fondazione Machiavelli, ha tenuto all’evento “The Essence of Life“, svoltosi a Révfülöp, in Ungheria, sotto l’egida dello Scruton Hub.
Identità nazionale e democrazia
L’identità nazionale è uno dei maggiori tesori nel capitale sociale d’Europa. Roger Scruton ricordava come la lealtà verso la nazione garantisca la coesione sociale anche in presenza di grandi disaccordi. Ma Scruton non fu il primo a porre in risalto questo prezioso dono della nostra storia occidentale.
John Stuart Mill, nell’Ottocento, scriveva che è quasi impossibile avere “istituzioni libere” (ossia una democrazia liberale) in un paese composto da differenti nazionalità, poiché verrebbe a mancare la reciproca simpatia necessaria a tali istituzioni per sopravvivere. Al contrario, vi sarebbe mutua sfiducia e l’esercito non sarebbe leale verso l’intera popolazione, percependo una parte di essa come straniera e avversaria.
Nel Novecento toccò a Joseph Schumpeter sottolineare che la società democratica necessita di un qualche livello d’accordo sulle norme e i princìpi basilari, sulle “regole del gioco”, affinché la minoranza non si senta minacciata dalla maggioranza e ne accetti il governo.
Per comprendere tali concetti teorici, basta immaginarsi il seguente scenario, non così remoto o irrealistico. Poniamo che, nel 2050, i Fratelli Musulmani o qualche gruppo politico similare siano un serio contendente al potere in uno o più paesi d’Europa. Un ebreo, una donna, un omosessuale, o in generale chiunque non sia musulmano, potrebbe accettare il loro governo, anche conseguito democraticamente, per mezzo del voto, avendo la sicurezza che i suoi diritti fondamentali non saranno conculcati? Difficilmente ciò potrà avvenire, nel momento in cui per i Fratelli Musulmani altri sono i diritti fondamentali: la libertà di predicare l’islam e l’applicazione della sharia.
Il parto travagliato delle nazioni
Le democrazie liberali sono storicamente, strutturalmente connesse agli Stati-nazione. È in questi contesti che si sono sviluppate e quasi solo in società simili le abbiamo trovate in grado di consolidarsi e funzionare completamente. La storia ci mostra che gli Stati multiculturali tendono all’autocrazia, con rare eccezioni (come la Svizzera, comunque composta di sole comunità europee e cristiane e comunque basata sul modello cantonale, dove ogni cantone è a base etnolinguistica e religiosa).
La nascita degli Stati nazione non è però stata indolore. Essa è passata per la difesa dalle invasioni, per guerre civili, per pulizie etniche e purghe religiose. Eventi sanguinosi che hanno creato quella relativa omogeneità sufficiente a suscitare fiducia e senso di identità diffusi – precondizioni, come si è visto, della democrazia.
Non dovremmo gettar via, così a cuor leggero, tale identità conquistata a sì caro prezzo. Il rischio è che, con la sua sparizione, si ritorni a ciò che vi era prima: i conflitti etnici e religiosi.
Chi minaccia oggi nazioni e democrazia
Ma perché l’identità nazionale è oggi in crisi in Europa? Vi è una causa esterna e una interna. Quella esterna è la più ovvia ed evidente: l’immigrazione di massa, impossibile da integrare con questi numeri, e in presenza di un establishment che da decenni ritiene indesiderabile l’obiettivo dell’assimilazione, ha ricreato società multiculturali. Società simili a quelle del passato, in cui vi erano conflitti etno-religiosi, ma ancora più instabili perché le comunità non sono accomunate nemmeno dall’essere tutte europee e cristiane.
Ciò ci conduce alla causa interna. L’Europa non avrebbe mai accettato di tornare alle fragili e litigiose società multiculturali se non avesse ceduto, negli ultimi due secoli, alle seduzioni intellettuali del relativismo culturale.
Nell’Ottocento, proprio quando il processo di costruzione nazionale raggiungeva il suo picco, alcune élites cominciarono a divergere dal resto della società. In nome del progresso decisero di tagliare ogni legame col passato, visto non più come un modello e una guida, ma come un fardello e un “paese straniero” (L.P. Hartley).
Se il passato è qualcosa di negativo, allora non vi sono più costumi, valori e tradizioni che si possano prendere automaticamente per buoni. Ecco l’origine del relativismo: la nostra cultura è solo una tra tante. Ciò ch’è buono e ciò ch’è giusto, è meramente soggettivo. In quegli anni si diffuse la fascinazione per l’esotico, come visibile nel mito del “buon selvaggio” e ancor più nel primitivismo nell’arte – l’imitazione delle arretrate arti africani o polinesiane, momento fondativo dell’arte cosiddetta “contemporanea”, col rigetto di tutti i canoni estetici occidentali.
Il relativismo culturale non fu però il solo a rompere col passato, in quegli anni. Lo fece anche il marxismo, basato sull’idea che la società sia troppo difettosa e vada rimpiazzata da una totalmente nuova. Questi due filoni, di rigetto della nostra storia e della nostra tradizione, si sono mossi negli anni, frequentemente intrecciandosi, come è successo anche di recente, quando neo-marxismo e post-modernismo si sono incontrati per creare l’assurda e venefica ideologia woke.
Tratto da: Fondazione MACHIAVELLI

