di Marco Pavoloni
Il dipinto che raffigura un anonimo uomo moderno, vestito con shorts, scarpe da ginnastica e polo bianca, collocato al centro di un ambiente ispirato agli affreschi pompeiani — e sovrastato, nel timpano, da un improbabile hot dog fluttuante tra le nubi — sembra a prima vista una provocazione ironica. In realtà, osservato con rigore filosofico, esso offre una delle metafore visive più acute e pertinenti della critica platonica alla democrazia.
Platone, nella Repubblica, non condanna semplicemente i difetti occasionali della democrazia ateniese: egli denuncia la dissoluzione dell’ordine politico e spirituale quando tutto è rimesso al giudizio della moltitudine. La sua diagnosi parte sempre dal medesimo principio: nel governo del popolo, l’opinione prende il posto della conoscenza, e ciò che domina non è il Bene, ma il desiderio mutevole della massa.
Il dipinto che abbiamo davanti mette in scena proprio questa frattura tra due mondi:
da un lato la forma classica, l’armonia, il mito, la bellezza rituale;
dall’altro la trivialità dell’uomo moderno, incapace perfino di comprendere ciò che osserva.
Le figure pompeiane sulle pareti — ieratiche, misurate, inserite in un linguaggio simbolico coerente — rappresentano il mondo antico, quello che Platone considerava ancora in contatto con l’ordine del Bello e del Bene. Esse incarnano una civiltà che riconosceva la gerarchia, la misura, la verticalità dei valori: ciò che la democrazia, nel suo stadio degenerato, dissolve completamente.
Al centro della scena, invece, l’uomo moderno vaga disorientato. Non è un cittadino della polis, ma un turista: figura perfetta della coscienza democratica, che crede di essere libera mentre è semplicemente priva di orientamento. Non comprende il linguaggio delle immagini che lo circondano, non sa leggere i simboli, non partecipa al mondo che osserva. È lo spettatore della tradizione, non il suo erede. La sua presenza è la rappresentazione plastica dell’uomo democratico di cui Platone diffida: un individuo sciolto da ogni legame formativo, privo di paideia, educato non alla virtù ma al consumo.
E proprio il consumo domina il timpano: là dove, in un tempio antico, si sarebbe collocato un simbolo sacro, un dio, un mito, appare invece un hot dog sospeso tra le nubi. Questa immagine volutamente ridicola non è semplicemente ironica: è una denuncia metafisica. Il luogo del sacro è stato profanato dal banale; l’altare delle Idee è stato occupato dall’oggetto più anonimo, più ripetibile, più quantitativo della modernità.
È la tirannia della quantità che rimpiazza la qualità, secondo il principio che Platone pone alla radice della degenerazione democratica.
Ciò che la moltitudine desidera diventa ciò che è degno di stare nel luogo del divino.
La democrazia platonica culmina sempre in questo: nella sostituzione del valore con il gusto, della forma con il bisogno, della verità con la percezione. L’hot dog nel triangolo sacro è l’emblema perfetto della città democratica che Platone disprezza: un luogo in cui tutto si equivale e nulla ha più valore, perché non esiste più un criterio di giudizio superiore alla folla.
Il contrasto tra la classicità degli affreschi e l’uomo in bermuda è dunque più che una battuta visiva. È la rappresentazione del dramma platonico: la frattura irreparabile tra un mondo fondato sul Bene e un mondo fondato sulla quantità. L’uomo moderno si crede libero perché può muoversi, guardare, consumare; ma Platone vede la sua libertà come la peggiore delle schiavitù: quella dell’ignoranza, dell’opinione, del capriccio. Egli non è padrone della sua anima, e quindi non può essere cittadino della città giusta.
Questo dipinto, nella sua ironia, conferma l’intuizione di Platone:
quando la democrazia dissolve ogni gerarchia, non resta che un individuo disorientato in un tempio vuoto, e al posto del dio — un hot dog.
~ MP~
Il quadro raffigurato è un’opera di Joy Liberman, dal titolo “ Still a Mystery” realizzata nel 2001 in collezione privata

