C’era una volta la scuola

a cura di Lorenzo Tucci

Il prodotto della filiera scolastica (prodotto, si intende, sotto specie umana) deve essere il cittadino globale e digitale. Il processo di lavorazione dello scolaro lungo il tempo della sua formazione oggi muove verso questo esito: forgiare il bravo cittadino, che sia insieme, appunto, globale e digitale.

Era il 1943 quando Lewis, in un piccolo saggio intitolato “L’abolizione dell’uomo”, dipingeva così la differenza tra “vecchia e nuova educazione”: «dove la vecchia iniziava i giovani (neofiti) al comune mistero dell’umanità, la nuova si limiterà a condizionarli. La vecchia trattava gli allievi come gli uccelli adulti trattano gli uccellini cui insegnano a volare; la nuova li tratta come un allevatore di polli tratta i pulcini: facendoli o così o così per scopi dei quali i pulcini non sanno nulla. In una parola, la vecchia era un genere di propagazione: gli uomini trasmettevano la propria umanità ad altri uomini; la nuova è pura e semplice propaganda».

E non è un caso che, oggi, le professioni che più investono l’umano nella sua interiorità e complessità, fin dentro le sue viscere, abbiano subìto questa metamorfosi: l’insegnante, il medico, il giudice, il prete, non vengono più formati per accostarsi, da uomini, all’uomo:

vengono programmati per applicare protocolli.

La scuola, è evidente, ha un ruolo fondamentale nel processo di estrutturazione e riprogrammazione dell’essere umano, semplicemente perché è da lì che transitano tutti, e che quindi tutti si possono plasmare. Ecco perché fa gola al potere di ogni tempo: espugnare le nuove genenerazioni vuol dire accaparrarsi il futuro.

Dalla zolla del demiurgo deve uscire il nuovo Adamo: l’uomo massa (mâza in greco significa impasto, qualcosa che per definizione si manipola e si modella), che oggi è un robot antropomorfo, un automa senz’anima e senza identità.

Insomma, lo schiavo perfetto.

Perché il traguardo, come dicevamo, è l’azzeramento identitario delle giovani generazioni, la produzione seriale di invertebrati senza cultura, senza radici, senza memoria né punti di riferimento, senza più nemmeno il dominio della propria lingua (che non per nulla è detta “lingua madre”, letteralmente la lingua che ci fa da madre, perché racchiude dentro di sé una civiltà intera, la quale è vissuta e vive dentro la propria lingua).

Tutti impegnati a concentrarsi sulle proprie pulsioni, imbambolati dal ritmo salmodiato dei mantra global che fanno da colonna sonora, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico, le nuove generazioni devono essere saldamente indottrinate all’evangelo di dogmi sintetici, chiamati anche “valori occidentali”, per definizione globali, distillati nel laboratorio sociopolitico sovranazionale con uno scopo preciso: quello di colpire a morte lo straordinario patrimonio di bellezza e di senso sedimentato nel corso della nostra civiltà, più che due volte millenaria.

L’icona posticcia dell’Occidente – quell’Occidente faustiano che ha venduto l’anima all’artificio e alla propria allucinazione di onnipotenza – è coniata per neutralizzare quel patrimonio di bellezza e di senso, e di umanità: si spiega l’accanimento contro la cultura classica, contro la storia, contro la nostra bella lingua e le sue parole sorgive, contro tutto ciò che appartiene alle nostre radici culturali, filosofiche e di fede.

È sotto l’insegna di questi pseudo-valori che si è realizzato oggi un solenne riallineamento di poteri: la politica, i media, la chiesa, l’accademia, la sanità, i partiti e i sindacati. Tutti sono genuflessi al cospetto dello stesso idolo. È nel nome di questi pseudo-valori che tutti noi, oggi, siamo arruolati, anzi precettati, a giocare nel grande videogioco a premi, dove, in cambio della buona condotta, si vincono brandelli di falsa libertà.

Di fatto, il cosiddetto “mondo libero”, tronfio portatore dei valori occidentali, è quello dove si è potuto installare in un batter d’occhi, e senza colpo ferire, il sistema operativo della schiavitù: una schiavitù diffusa e consenziente, strumentale a un controllo totale sui corpi e sulle menti delle persone. Dove sono gli stessi sudditi che, da antagonisti genetici del potere, diventano il suo corpo di guardia, ovvero i pretoriani pronti a reprimere, e potenzialmente sopprimere, i propri simili non allineati.

Se ci prendiamo la briga di grattare appena appena ogni singolo slogan di questa farsa, ciascuna parola d’ordine dell’agenda con cui risciacquano giorno e notte il cervello dei nostri figli (ma in qualche modo hanno già lavato anche il nostro), affiora in superficie una

struttura di artificio, di morte, di programmatica sterilità.

Un odio per la vita che da decenni è instillato in modo strisciante e pervasivo nelle menti e nei cuori e ora, dopo aver seminato e coltivato a lungo il terreno, sta dando i suoi frutti avvelenati, perché i tempi sono maturi.

Tutto, oggi, pare progettato per offenderci e per danneggiarci: la forza di gravità delle istituzioni pare non tendere al bene comune, ma al male comune, sfacciatamente. È una prospettiva difficile da accettare, perché di primo acchito getta nella sensazione terribile

dell’abbandono. Ma è una prospettiva con cui bisogna iniziare a familiarizzare.

Contro il piano diabolico che vuole l’abolizione dello statuto dell’umano, e la reificazione e mercificazione della vita, non possiamo certo stare a guardare, non abbiamo altra scelta

che quella di fare la nostra parte per combatterlo.

Per farlo, dobbiamo parlare, dobbiamo agire, dobbiamo esistere e riprodurci, dobbiamo proteggere la nostra integrità e quella di

chi ci succede.

Tratto da E.Frezza

C’era una volta la scuola

Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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