L’INTERREGNO DEGLI IMPERI

a cura di Vetriolo

La situazione geopolitica globale configura uno scenario molto più articolato e complesso di quanto non si direbbe limitandosi alla propaganda: uno scenario fatto di processi di lungo periodo, relazioni multipolari tra attori globali, forze egemoniche che mirano ad espandersi ed altre impegnate per conservare le posizioni acquisite.

Johan Galtung (uno dei padri della peace research) definisce l’Impero come «un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale». Ebbene, gli assetti del dominio geopolitico – degli imperi – attualmente sembrano in una fase di riorganizzazione, che Gramsci chiamerebbe «interregno», nel quale «il vecchio muore e il nuovo non può nascere».

Per tentare di comprendere l’attuale fase di interregno degli imperi, partiremo da lontano e arriveremo fino ad oggi.

Il vecchio mondo era fondamentalmente bipolare, con USA e URSS che si spartivano gran parte del pianeta con le rispettive sfere d’influenza.

A Bretton Woods, nel 1944, si riunirono i delegati dei Paesi alleati degli USA per delineare il sistema monetario del capitalismo nel dopoguerra. Il sistema progettato era basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro. In questa occasione fu sancito anche il ruolo del dollaro come valuta predominante negli scambi internazionali di materie prime, come il petrolio. Inizia così la «supremazia del dollaro» sia negli scambi internazionali che come riserva monetaria per la gran parte degli Stati del pianeta.

Negli anni ‘60, la guerra in Vietnam e un oneroso programma di welfare fecero aumentare di molto la spesa pubblica statunitense, mettendo in crisi il sistema monetario uscito da Bretton Woods: di fronte al crescente indebitamento degli USA, gli Stati che avevano i loro risparmi in dollari iniziarono a chiederne la conversione in oro. Ciò spinse il presidente statunitense Richard Nixon, il 15 agosto 1971, ad annunciare, a Camp David, la sospensione della convertibilità del dollaro in oro.

Michael Hudson ripercorre l’evoluzione del sistema finanziario mondiale e vede nella centralità assunta dal dollaro il carattere fondamentale del «Superimperialismo» degli USA. L’economista statunitense afferma che gli americani sono prima riusciti a convincere le altre nazioni a risparmiare in dollari invece che in oro, garantendo che i loro risparmi potevano essere convertiti nel metallo prezioso; ma una volta interrotta la convertibilità, i dollari che stampano, cioè il loro debito, sono andati a sostituire l’oro come valuta di riserva mondiale. «Mai prima d’ora» – scrive Hudson – «una nazione in bancarotta ha osato insistere affinché il proprio fallimento diventasse il ​​fondamento della politica economica mondiale».

La posizione di preminenza nel sistema monetario mondiale ha permesso agli Stati Uniti d’America di finanziare la propria economia e vivere al di sopra delle proprie possibilità a discapito degli altri Paesi.

Roberto Castaldi, in un articolo per Il Sole 24 Ore (“50 anni fa finiva Bretton Woods: la scelta monetaria che ha cambiato il mondo e continua a plasmarlo”), scrive: «Capito il nuovo sistema i Paesi dell’OPEC aumentarono i prezzi e ci fu lo shock petrolifero del 1973. Per gli USA era un aumento nominale, risolto stampando più dollari. Per il resto del mondo un aumento reale, che costrinse a politiche di risparmio energetico, riduzione dei consumi e crisi economica. Iniziò un costante e massiccio trasferimento di reddito dagli altri Paesi avanzati verso gli USA (perché dovevano acquistare più dollari per pagare il petrolio) e verso i Paesi produttori di petrolio. Così gli USA passarono da esportatore a importatore di capitali […]. Il nuovo sistema monetario portava il resto del mondo a finanziare l’egemonia politico-militare americana».

Con la fine di Bretton Woods, anche il Fondo Monetario Internazionale, che era nato in quel contesto, cambiò la sua funzione, assumendo il compito di effettuare prestiti vincolati al rispetto di specifiche condizioni. Il FMI, con sede a Washington, pur essendo un’organizzazione internazionale a carattere universale, ha avuto come Direttori Operativi solo maschi bianchi occidentali (donne dal 2011) ed è di fatto diventato uno strumento per l’espansione del modello liberista nei paesi debitori.

La fine del gold standard e della stabilità monetaria resero inoltre più rischiosi gli investimenti a lungo termine nell’economia reale, favorendo lo sviluppo della finanza speculativa, che ha il suo hub a Wall Street.

Pierluigi Fagan utilizza la categoria di «impero informale» (introdotta da Robinson e Gallagher) per indicare la capacità d’influenza non formalmente coloniale degli Stati Uniti, visti come eredi di «un preciso atteggiamento geopolitico che accomuna i popoli anglosassoni […] in un’ideologia che intravede la possibilità di estendere a tutto il mondo il gioco economico del mercato, per cui, dominando il mercato […] si domina il mondo o una buona parte di esso» (Verso un Mondo Multipolare). Ma non bisogna commettere l’errore di circoscrivere l’imperialismo statunitense alla sola sfera economica, dato che sono la nazione che ha di gran lunga il maggior numero di basi militari disseminate in tutto il mondo e che ha esportato di più di tutti la propria cultura e il proprio stile di vita negli altri Stati.

Nel 1989 cade il Muro di Berlino. Nel 1991 crolla l’Unione Sovietica. L’area d’influenza russa è fortemente ridimensionata. Francis Fukuyama teorizza la «fine della storia», cioè l’avvento di un ordine mondiale unipolare capitalista e liberal-democratico; questa diventa l’ideologia dominante nel polo che aveva vinto la Guerra Fredda, gli Stati Uniti d’America.

Nella sua corsa per il dominio globale, il braccio armato dell’impero d’Occidente (la NATO), quando ha creduto di aver sconfitto il suo competitor orientale, contravvenendo ad un patto (non scritto) con Gorbachev, si è espansa verso Est inglobando gli Stati ex comunisti che chiedevano di aderire all’Alleanza. La hybris ideologica da «fine della storia» ha alimentato l’espansione verso Est e la retorica delle «guerre umanitarie» per «esportare la democrazia» in Medio Oriente.

L’Islam radicale si è però incaricato di dimostrare agli americani che la storia era tutt’altro che finita. Il panislamismo che ha portato le frange più radicali della civiltà islamica ad organizzare attentati contro l’Occidente e ad erigere un Califfato basato sulla legge coranica (sharia), è una «reazione all’espansionismo occidentale e rivendica di essere una difesa antimperialista e anticolonialista» (Wikipedia).

Al Qaida è divenuta tristemente nota con gli attentati dell’11 settembre 2001 ma nasce al tempo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, negli ambienti ribelli finanziati da Stati Uniti e Arabia Saudita. Dopo l’11 settembre, Saddam Hussein fu accusato di sostenere Al Qaeda e di possedere armi di distruzione di massa. Ma «non c’erano armi di distruzione di massa. Non c’era stata alcuna collaborazione tra Saddam Hussein e Al Qaida per quanto riguarda l’11 settembre», scrive Frank Rich sul New York Times il 23 ottobre del 2006. Come ammette lo stesso Alan Greenspan, per 18 anni presidente della Federal Reserve e consigliere economico della Casa Bianca: «la guerra in Iraq è stata soprattutto una guerra per il petrolio» (L’era della turbolenza). Saddam Hussein aveva da poco deciso di ricevere pagamenti in Euro per il suo petrolio anziché in dollari: questo minava il fondamento stesso dell’egemonia dei «petrodollari» statunitensi.

Come conseguenza del rovesciamento di Saddam, dalla cellula irachena di Al Qaeda nasce l’ISIS. Il sociologo del terrorismo Alessandro Orsini (noto per le sue posizioni pacifiste) avverte che «la politica internazionale è il luogo in cui si mettono in atto i comportamenti più spietati», prima di annoverare tra le cause che favorirono l’ascesa dell’ISIS «il cinismo delle grandi potenze»: «Stati Uniti e Russia, a differenza dell’Europa, non avevano un incentivo forte a porre rapidamente fine alla guerra civile in Siria», perchè i profughi provenienti da quella regione stavano creando tensioni tra gli Stati europei ed entrambe le superpotenze si giovano di un’Europa divisa e debole. Dopo l’abbattimento dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, Orsini, fin dal titolo di un suo libro, avverte che «l’ISIS non è morto: ha solo cambiato pelle».

In occasione del confronto con l’Islam radicale, in Occidente si è ricominciò a parlare di «scontro di civiltà» sulla scorta teorica del politologo statunitense Samuel P. Huntington, che in aperta polemica con le tesi di Fukuyama, nel 1996 ha pubblicato un libro dall’eloquente titolo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”. Secondo Huntington la fine dell’ordine internazionale bipolare conseguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica ha fatto sì che (ri)emergessero le civiltà: Occidentale, Cristiana orientale (ortodossa), Latino-americana, Islamica, Indù, Cinese, Giapponese, Buddista, Africana.

Il politologo statunitense distingue tra «modernizzazione» e «occidentalizzazione», e afferma che per le civiltà non occidentali importarle entrambe sia fallimentare, perché «l’esperienza dimostra chiaramente la forza, la resistenza e la pervicacia delle culture autoctone e la loro capacità di rinnovarsi e frenare, respingere e assorbire le importazioni occidentali». Per Huntington, nelle civiltà diverse da quella occidentale, si manifesterà sempre più spesso una «modernizzazione senza occidentalizzazione».

La visione del mondo basata sulle civiltà dello statunitense Huntington piace molto al filosofo russo Alexandr Dugin, il quale in “Teoria del Mondo Multipolare” scrive: «le civiltà nella struttura delle relazioni internazionali del XXI secolo sono vaste aree spaziali che, sotto l’influenza della modernizzazione e con il supporto della tecnologia occidentale, consolidano la loro forza e il loro potenziale intellettuale, ma, invece di accettare pienamente il sistema di valori occidentale, mantengono organici e robusti legami con le proprie culture tradizionali, le proprie religioni e strutture sociali. Va notato che tali elementi tradizionali a volte sono in netto contrasto con quelli occidentali. […] Queste civiltà, oggi molto spesso divise dai confini nazionali, nel corso dei processi di globalizzazione e integrazione diventeranno sempre più consapevoli dei propri legami comunitari e agiranno nel sistema delle relazioni internazionali, guidate dai propri valori e da interessi comuni derivanti da questi valori».

«I valori dell’Occidente», importante leva emotiva che alimenta l’orgoglio di questa parte di mondo, diventano il vessillo da difendere dalle altre civiltà. Questi valori universali o da render tali con le buone o con le cattive, in termini geopolitici sono: libertà, democrazia, benessere economico, diritti umani.

Libertà e democrazia formano un tutt’uno perché la libertà è intesa perlopiù come democrazia liberale; ma sappiamo bene come quest’ultima sia soggetta alla «legge ferrea dell’oligarchia» (Robert Michels), laddove i dirigenti di tutti i partiti si allontanano dalla base e vanno a costituire un’élite compatta, dotata di spirito corporativo. All’oligarchia politica si associa quella economica, con le disuguaglianze sociali registrate dall’OXFAM (Oxford Committee for Famine Relief) in costante aumento dagli anni ‘80 in poi, cioè da quando «there is no alternative» al liberismo. I membri delle élite politiche ed economiche controllano anche la maggior parte dei media, condizionando così anche la «libertà d’informazione». I diritti umani, imperniati sui principi etici europei e nordamericani, sono il fiore all’occhiello dell’Occidente ma Julian Assange rischia 175 anni di carcere per aver rivelato che gli USA hanno tradito quei principi in Afghanistan, a Baghdad e a Guantánamo. Anche l’Italia ha la sua esperienza di violazione dei Diritti Umani con i fatti legati al G8 di Genova, cioè quando vi fu una forte ondata di protesta contro lo stato di cose appena descritto.

Dugin muove una critica radicale ai valori occidentali: ‹‹contesto che il soggetto della libertà debba essere l’individuo – e questa è l’essenza, l’asse dell’ideologia dei diritti umani. […] Rifiuto l’universalità dei valori occidentali moderni. Non credo che siano universali. Ritengo che siano occidentali, moderni›› (Platonismo Politico).

Nonostante le critiche che si possono muovere ai valori occidentali, in altre parti del mondo se la passano anche peggio a causa di povertà estrema e regimi dittatoriali nei quali la violazione dei diritti umani è strutturale. Questo, unitamente al sostegno più o meno esplicito dell’Occidente ai movimenti filoccidentali e al fatto che altrove giunge l’immagine dorata hollywoodiana dell’Occidente, ha fatto sì che il modello di vita occidentale divenisse una reale attrattiva per molti popoli del mondo.

Tra il 2010 e il 2011 un’ondata di protesta nota come ‹‹primavera araba›› coinvolge Tunisia, Egitto, Siria, Libia, Iraq ed altri Stati. In alcuni casi i moti per il rinnovamento politico e sociale sono arrivati a rovesciare regimi come quello di Mubarak in Egitto, passato da essere amico a nemico degli USA in quegli anni. I media occidentali hanno salutato le ‹‹primavere arabe›› come un moto di rinnovamento democratico e modernizzatore, mentre hanno molto spesso portato instabilità, guerra e fondamentalismo. Emblematico è il caso della Libia di Gheddafi, deposto a seguito dell’intervento della NATO fortemente voluto dalla Francia di Sarkozy, generando il ‹‹caos libico›› anziché la democrazia.

L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, bombardando in Libia senza che nessuno Stato membro fosse stato attaccato, ha dimostrato di fatto di aver superato la sua natura di «organizzazione difensiva» (come ancora molti si ostinano a definirla), cosa tralaltro formalizzata nel “Concetto Strategico” del 2010, documento dal quale si apprende che relativamente alla «gestione delle crisi» la NATO può disporre delle sue «capacità politiche e militari per fronteggiare l’intero spettro delle crisi – prima, durante e dopo i conflitti».

Da e-mail che in quel periodo si scambiarono Hillary Clinton e il suo collaboratore Sidney Blumenthal, si apprende che Gheddafi aveva invitato i paesi africani a utilizzare una nuova moneta, il dinaro d’oro. La politica monetaria panafricana del leader libico avrebbe certamente minato il potere dei «petrodollari» e del Franco CFA. In Italia Alessandro Di Battista (in chiave antimperialista) e Giorgia Meloni (in chiave antimmigrazione) misero in relazione l’intervento militare in Libia con le mail ricevute dalla Clinton.

Quello di Gheddafi non è stato però l’unico tentativo di accordi multilaterali volti a dare maggior peso geopolitico ai Paesi emergenti o in via di sviluppo.

Grazie al suo capitalismo industriale a controllo statale, la Cina cresce moltissimo economicamente sino a competere con gli USA, ed espande le sue relazioni commerciali grazie alla cosiddetta «nuova via della seta», cioè un piano di ingenti investimenti in infrastrutture, impianti per la distribuzione di energia e sistemi di comunicazione. Gli investimenti di Pechino porterebbero all’integrazione logistica dei Paesi dell’Asia e dell’Europa, passando per la Russia e il Mediterraneo. Inoltre la Cina è tra i BRICS con Brasile, Russia, India e Sudafrica: Paesi che hanno dato vita a una propria struttura finanziaria (Nuova Banca di Sviluppo), alternativa al FMI. Tali economie si propongono di costruire un sistema commerciale globale attraverso accordi bilaterali che non siano basati esclusivamente sul petrodollaro.

Le strategie economico-monetarie dei Paesi emergenti sono guardate con grande attenzione dell’impero egemone in tale campo. Mentre l’ascesa dell’impero del Sol Levante preoccupa già molto gli Stati Uniti: le tensioni per Taiwan fungono da barometro per misurare la pressione tra i due imperi.

A differenza delle aree poc’anzi citate l’Europa, spesso divisa da piccoli egoismi nazionali, è in una fase di contrazione sia economica che demografica e culturale. Europa assopita dopo il «tramonto dell’Occidente». Europa dell’impero Romano e del Sacro Romano Impero; di Platone, Dante, Mozart, Le Corbusier, Picasso, Einstein; delle corti, delle cattedrali, dei castelli, dell’aristocrazia, dell’illuminismo e della democrazia; del socialismo europeo, della destra sociale, del welfare pubblico. Europa che distingue tra liberalismo e liberismo. Europa che sa che pace, disarmo e integrazione sono l’unica soluzione alla «banalità del male». Europa che ha rinunciato a sé stessa in ragione dell’«egemonia culturale» dell’individualismo, dell’egoismo, del consumismo. Europa da quasi cent’anni schiacciata da due imperialismi.

L’Europa affaccia sul mediterraneo e risente dell’instabilità di Nord Africa e Medio Oriente, in particolare sotto forma di fenomeni migratori di massa; è militarmente alleata con gli Stati Uniti, che però sono lontanissimi dalle tensioni che investono i confini europei; è energeticamente dipendente dal gas russo, passante per la Germania (tramite il Nord Stream 1) e per l’Ucraina – territorio nel quale dunque si concentrano elevati interessi strategici globali.

Anche alcuni Stati dell’Est Europa (ex sovietici) hanno avuto la loro ondata di proteste filo-occidentali, note col nome di «rivoluzioni colorate». La prima è stata la Georgia: cambio di regime, intervento della Russia di Putin in difesa delle regioni separatiste per conservare almeno una parte della sua area d’influenza, atrocità, accose di genocidio, violazione dei diritti umani, Abcasia e Ossezia del Sud finite sotto il controllo di Putin. Ma è stata la «rivoluzione arancione» in Ucraina (2004 – 2005) ad assumere maggior rilievo, dato che ha aperto la stagione d’instabilità che ha preceduto l’attuale conflitto.

In Ucraina le rivolte dei primi anni duemila hanno portato alla destituzione del filorusso Janukovyč e alla successiva elezione di un Governo filoccidentale. Il cambio di regime è appoggiato dagli Stati Uniti. Seguono anni di instabilità politica. Alle presidenziali del 2010 viene rieletto Janukovyč a Capo di un’Ucraina oligarchica e corrotta; nel 2013 le proteste di Euromaidan lo costringono nuovamente alla fuga. Per la Russia è un colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti e da forze paramilitari neonaziste; per l’Occidente è la rivoluzione di forze nazionaliste ma democratiche. A seguito di nuove elezioni viene eletto Porošenko. In questo contesto, nel 2014 Putin prende il controllo della Crimea, che dichiara l’indipendenza e formalizza l’adesione alla Federazione Russa. Il Partito Comunista viene messo al bando e inizia un’ondata iconoclasta verso i simboli del passato sovietico: vengono abbattute le statue di Lenin e sostituite da quella del collaborazionista nazista Stepan Bandera, che diventa eroe nazionale. Le autonomie concesse dai governi precedenti alle regioni orientali russofone e russofile vengono revocate, l’uso e l’insegnamento della lingua russa vengono fortemente limitati. Iniziano gli episodi di violenza in Donbass, che coinvolgono filorussi e nostalgici dell’URSS sostenuti da Mosca da un lato e neonazisti addestrati e armati da Stati Uniti e Gran Bretagna dall’altro. L’11 maggio 2014 si tiene un referendum (non riconosciuto dall’Ucraina) col quale le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk dichiarano l’indipendenza. E’ guerra civile. Intanto vince le elezioni l’ex comico Zelensky sull’onda populista di una serie televisiva in cui impersona il protagonista che diventa Presidente. Il Democracy Index classifica l’Ucraina come «regime ibrido». Putin schiera le sue truppe al confine orientale dell’Ucraina per difendere il suo impero perduto.

L’imperialismo russo ha tratti molto più tradizionali rispetto a quello statunitense: il piano politico-militare non è al servizio del sistema economico ma è esso stesso il fulcro e il motore dell’aspirazione imperiale. E questo genera un atteggiamento apparentemente più muscolare dell’impero russo rispetto alle promesse di democrazia e prosperità economica statunitensi. Anche perché la forma di governo dell’ex militare ed ex funzionario del KGB è un’autocrazia che va avanti a suon di rigida ed esplicita censura, e omicidi di oppositori politici e giornalisti scomodi; mentre l’economia è totalmente sotto il controllo degli oligarchi. In ogni caso sono la storia, la cultura e la religione il campo ideale in cui si muove la retorica imperiale putiniana.

Diversamente dal rapporto tra l’imperialismo a stelle e strisce e il “terzomondista” Papa Francesco, il regime di Putin gode dell’appoggio di Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Il Cristianesimo ortodosso di Kirill è tradizionalista, quindi apertamente schierato contro l’Occidente decadente, ateo e condizionato -a suo dire – dalla «lobby gay». Una ricerca del 2017 (Religious Belief and National Belonging in Central and Eastern Europe) condotta dal Pew Research Center dimostra che nei paesi dell’Europa Centrale ed Orientale le nazioni a maggioranza ortodossa ritengono la religione parte importante dell’identità individuale e nazionale. Prima della brutale invasione dell’Ucraina, la maggioranza degli intervistati si diceva favorevole ad una «Russia forte per bilanciare l’influenza dell’Occidente», ritenendo anche che «la Russia dovrebbe proteggere i cristiani ortodossi al di fuori dei suoi confini», così come avrebbe «l’obbligo di proteggere le persone di etnia russa». Questo sentimento coinvolge tra il 56% e il 79% della popolazione di Armenia, Serbia e Bielorussia ma anche nelle europee Bulgaria, Grecia e Romania. Solo in Ucraina il sentimento filo-russo è inferiore (38%), per i ricercatori a causa dell’annessione della Crimea e del conflitto coi separatisti del Donbass, che al tempo della ricerca erano già avvenuti.

L’imperialismo di Putin si nutre inoltre dell’ideologia panslavista diffusa sin dai tempi degli Zar, per la quale Mosca sarebbe la «Terza Roma» erede dell’Urbe e di Bisanzio, la cui missione storica è quella di riunire i popoli slavi sotto l’autorità Russa. A ciò si aggiunge l’orgoglio della «Grande Guerra patriottica» combattuta contro le truppe naziste che avevano invaso la Russia durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il panslavismo russo s’infrange sulla storica inimicizia coi polacchi, sulla divisione tra gli “slavi del Sud” (serbi, croati, sloveni etc.) dell’ex Jugoslavia, sul forte sentimento nazionalista degli ucraini. Del resto il panslavismo putiniano significa: tutti sotto il controllo della «Grande Madre Russia». Ma nonostante Patrick J. Geary abbia completamente destrutturato «Il mito delle nazioni» dal punto di vista storiografico, il nazionalismo è ancora fonte di riferimenti identitari e fattore di coesione sociale.

La retorica antinazista russa trova invece la sua contraddizione nel sostegno di Putin ai partiti di estrema destra europei, col fine di indebolire l’UE. Del resto l’ideologo di Putin Aleksandr Dugin teorizza il «nazionalbolscevismo» contro «l’Occidente liberale globalista»

Secondo tutti gli analisti la Russia di Putin non ha la forza economica per sostenere un’impresa imperiale di vasta portata ma le «condizioni materiali» non sono tutto, quindi il fatto che non può non significa necessariamente che l’idea di ricostituire un impero non possa comunque condizionare qualcuna delle scelte del capo assoluto della Russia. A tal proposito possiamo infatti essere d’accordo col sociologo Joseph Schumpeter quando rileva «il fatto incontestabile che nella storia del genere umano recitano una parte notevole tendenze “prive di oggetto” all’espansione violenta, ignara di limiti utilitaristicamente definiti – cioè inclinazioni arazionali e irrazionali, puramente istintive, alla guerra e alla conquista […]. La spiegazione di questo bisogno funzionale aggressivo, di questa volontà di guerra […] lungi dall’essere esaurita dal puro e semplice rinvio a “impulsi” od “istinti”, risiede nelle necessità vitali di situazioni che hanno plasmato popoli e classi, costringendoli, se non volevano estinguersi, a diventar bellicosi» (Sociologia dell’imperialismo).

Il 24 febbraio 2022 le Forze armate della Federazione Russa invadono l’Ucraina. Ritroviamo tutti gli elementi citati a proposito dell’imperialismo russo a giustificazione (dal punto di vista di Mosca) dell’invasione: panslavismo, denazificazione, rivalsa sull’Occidente. La difesa ucraina è sostenuta dalle armi dei Paesi della NATO in quella che molti analisti – tra i quali Lucio Caracciolo – non esitano a definire una «guerra per procura», tenendo conto delle dichiarazioni angloamericane che non nascondono il fine di «indebolire la Russia» e di «rovesciare Putin».

A seguito dell’invasione Russa dell’Ucraina si è attivata d’urgenza l’ONU, vertice politico dell’«Impero» teorizzato da Michael Hardt e Toni Negri, punto d’arrivo del processo di cessione di sovranità verso l’alto da parte degli Stati nazionali. Per i due studiosi «si tratta di un apparato di potere “decentrato e deterritorializzante” che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L’Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. […] Gli Stati Uniti occupano una posizione indubbiamente privilegiata nell’Impero» ma – continuano Hardt e Negri – «le forze creative della moltitudine che sostengono l’Impero sono in grado di costruire autonomamente un controImpero, un’organizzazione politica alternativa dei flussi e degli scambi globali. Le lotte volte a contestare e sovvertire l’Impero, così come quelle tese a costruire una reale alternativa, si svolgeranno sullo stesso terreno imperiale – in realtà, queste nuove lotte hanno già iniziato a emergere».

Nelle votazioni all’ONU succedute all’invasione russa dell’Ucraina si possono dunque leggere ulteriori elementi per comprendere gli assetti strategici della lotta per l’egemonia nell’Impero globale.

Nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, incaricato di mantenere la pace tra i paesi, i cinque membri permanenti (Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti) hanno un ruolo dominante perché detengono il potere di veto. Di fronte al veto della Russia che non si è auto-condannata, Zelensky, dopo aver invocato azioni che ci avrebbero portati dritti verso la terza guerra mondiale, è arrivato a mettere in discussione l’unica istituzione che – con tutti i suoi limiti – tenta di raccogliere i rappresentanti dell’intera Umanità.

Il 2 marzo 2022, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (composta da tutti gli stati membri) ha approvato la risoluzione di condanna della Russia, coi voti favorevoli di: Nord America, Europa, Giappone e Australia ovviamente; anche la maggior parte del Centro e Sud America ha votato a favore, compresi Brasile e Argentina nonostante qualche titubanza iniziale dovuta ai legami con il Cremlino; alla condanna si sono uniti anche diversi stati dell’Africa. Con la Russia si sono schierati apertamente Bielorussia, Siria, Corea del Nord ed Eritrea. Tra gli astenuti ci sono Cuba, Nicaragua, Bolivia e Armenia che nel 2014 avevano votato a favore dell’annessione della Crimea; Iran, Iraq, Pakistan, Vietnam e Sudafrica si sono astenuti in chiave anti-occidentale; in Africa si sono astenuti paesi come Algeria, Mali e Repubblica Centrafricana, con i quali il Cremlino coltiva una stretta relazione; infine, di grande rilievo è l’astensione dei giganti asiatici Cina e India.

Il 7 aprile l’ONU sospende la Russia dal Consiglio dei Diritti Umani. Questo è stato un voto più importante del precedente dato che aveva un effetto concreto. Su 193 membri, i voti contro la Russia sono passati da 141 a 93, gli astenuti da 35 a 58, gli assenti da 12 a 18, gli stati che hanno votato a favore della Russia da 5 a 24. Il riassestamento a favore di Putin è evidente. E se alla conta dei voti la mozione contro la Russia ha raccolto poco più della metà del favore delle nazioni del pianeta, a livello della popolazione mondiale rappresentata da tali stati la condanna del Cremlino ha raccolto meno di un terzo del consenso. Rilevanti i passaggi dalla condanna all’astensione di Messico, Brasile, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait.

A grandi linee. L’impero d’Occidente guidato dagli USA tiene e l’Europa, facendo danno anche a sè stessa, pare disposta a rinunciare progressivamente ai suoi legami commerciali ed energetici con la Russia; del Patto Atlantico fa parte però anche la Turchia, paese a maggioranza musulmana che affaccia sul mediterraneo e intrattiene relazioni politiche con la Russia ed economiche con la Cina. I paesi del Medio Oriente fanno il loro gioco: non si alleano certo con l’Occidente e hanno buoni rapporti con la Russia. L’America Latina è divisa. I paesi africani risentono ancora del colonialismo (o neo-colonialismo) dunque non vedono di buon occhio l’Occidente, contro il quale però non tutti si schierano; e sono tra i maggiori importatori di grano da Ucraina e Russia quindi rischiano una grave crisi alimentare. La Russia sfida apertamente l’ordine unipolare statunitense e vi sono Stati che non le si oppongono in tutti i continenti, tranne che in Europa. L’India ricorda ancora il passato coloniale inglese, è tra i BRICS con Brasile, Russia, Sud Africa e Cina, ed è nel QUAD con Stati Uniti, Australia e Giappone contro la Cina nell’Indo-Pacifico. La Cina estende sempre più la sua penetrazione economica in tutto il mondo, vi sono tensioni con gli USA ed ha buoni rapporti con la Russia.

L’Eurasia è l’attore geopolitico mancante: supercontinente che va da Lisbona a Vladivostok, inviso agli angloamericani da quando esiste la geopolitica, che se divenisse uno dei poli di una rete di relazioni internazionali multipolari potrebbe essere il centro del nuovo ordine mondiale, rappresentando il 70% della popolazione mondiale su un’estensione di 55 milioni di km². Forse è bene precisare che in questa breve incursione finale nel «dover essere» non si auspica un ribaltamento del fronte delle alleanze da parte dell’Europa ma la nascita di un ordine mondiale multipolare in cui quest’ultima possa stare tranquillamente nel Patto Atlantico con gli Stati Uniti, e allo stesso tempo (una volta archiviata l’orrenda vicenda ucraina) avere una maggiore integrazione geostrategica (senza totale dipendenza energetica) con la Russia e buoni rapporti con la Cina. Inoltre, la missione geostorica dell’area latino-mediterranea (della quale fa parte l’Italia) dovrebbe essere quella di stabilizzare il Nord Africa e favorire lo sviluppo indipendente dell’Africa tutta. Così si fa la pace, dividendo il mondo in blocchi contrapposti si fa la guerra.

Ecco cosa pare prefigurarsi alla fine dell’«interregno» degli imperi del vecchio mondo: un nuovo ordine multipolare con macroregioni culturali (civiltà) che modulano una complessa rete di relazioni globali secondo i contingenti equilibri di potenza. Chi oggi detiene una posizione di preminenza si oppone al riassestamento globale ma non potrà farlo per sempre. Si spera solo che non si arrivi ad un’altra guerra mondiale per definire i nuovi assetti perché potrebbe andar male per tutti; se nessuno dovesse riuscire ad evitarlo, «io speriamo che me la cavo».

L’INTERREGNO DEGLI IMPERI

Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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