di John Peter Cullian
La tentazione di riscrivere la storia dal presente al passato è onnipresente ed eterna.
Una delle caratteristiche comuni a molti studi più o meno recenti su Mircea Eliade è l’enfasi sulla sua posizione unica ed eccezionale nella storia della religione [1]. Ma questa osservazione quasi unanime dà adito a diverse interpretazioni. Per uno dei critici più schietti (anche se meno cauti) di Eliade, rivela la natura rivoluzionaria del suo lavoro, posto alla pari con le opere di Max Müller, Andrew Lang e J. Frazer [2]. Non è nostra intenzione entrare in una polemica infruttuosa. Notiamo, tuttavia, che esistono altre ipotesi, non meno convincenti, che tentano di spiegare la singolarità di Eliade: R. J. Zvi Verblowski fa riferimento, ad esempio, alla gamma eccezionalmente ampia di conoscenze di Eliade [3], e Norman Girardot ritiene che egli abbia una sensibilità speciale che gli permette di illuminare sfaccettature sconosciute dell’esperienza quotidiana [4].
L’ipotesi che cercherò di presentare qui è, temo, più ambiziosa. Le pagine che seguono sono prive di qualsiasi intento apologetico e non pretendono di offrire al lettore una dimostrazione imperativa. Si tratta solo di alcune riflessioni su Eliade, sollecitate dalla lettura di alcune note opere di epistemologia. È così emersa l’idea che la singolarità di Eliade non si spieghi con la sua appartenenza a un paradigma epistemologico superato, ma piuttosto con il fatto che le sue opere anticipano un paradigma che sta appena iniziando a emergere.
So che il terreno su cui cammino è disseminato di ogni sorta di pericoli. Che io possa essere perdonato se non riesco a evitarli tutti. Anche così, potrei ancora sbagliarmi: dopo tutto, si sa che esiste un nuovo paradigma epistemologico, ma il suo volto è incatenato al presente. Siamo nell’unico momento in cui, anche se evitiamo di scrivere “l’histoire à l’envers”, non possiamo passare all’”histoire à l’endroit” senza cadere nella profezia.
In che misura l’epistemologia contemporanea – che va distinta dal “paradigma epistemologico”, la cui durata è relativamente lunga – influenza quelle che, in mancanza di un termine più appropriato, vengono chiamate “scienze umane”?
Senza dubbio, aprendo i libri di testo di linguistica o di teoria letteraria e persino di discipline storiche, si scopre che ci sono riferimenti a un grande epistemologo in qualsiasi epoca. Il consenso in questo caso è molto più alto rispetto, ad esempio, alla psicoanalisi, il che si spiega con il grado di inaccessibilità (o esoterismo) molto maggiore dell’epistemologia [6]. Se vent’anni fa Karl Popper veniva citato di tanto in tanto, ora questo onore sembra essere andato a Thomas S. Kuhn [7]. Kuhn [7]. Ora, per prendere in prestito un’affermazione dello stesso Kuhn che gli piace, da Popper a Kuhn c’è stata una “rivoluzione” nell’epistemologia che ha portato alla sostituzione di un vecchio “paradigma” con un altro. Come ha ben osservato un lettore perspicace, per Kuhn la parola “paradigma” ha ventidue significati diversi [8]. Nel caso dell’interesse, “paradigma” si riferisce a una lunga tradizione epistemologica che ha condiviso, da Cartesio a Popper, una certa concezione, esplicita o (soprattutto) implicita, della razionalità dell’approccio scientifico e della natura lineare e cumulativa del progresso scientifico (9). La nozione chiave di questa tradizione, non necessariamente legata a un senso teleologico, è quella di evoluzione: l’umanità è impegnata in un processo irreversibile di miglioramento (che può non avere una meta predeterminata), che implica sempre che lo stadio superato sia inferiore al nuovo stadio raggiunto. Nel campo della scienza, questo progresso è del tutto razionale e consiste nell’eliminazione degli errori del passato attraverso teorie sempre più coerenti con la “verità”:
“L’eliminazione dell’errore porta a un aumento oggettivo della conoscenza – conoscenza in senso oggettivo. Porta a un aumento della plausibilità oggettiva: permette di avvicinarsi alla verità (assoluta)”. [10].
Nelle sue miriadi di varianti, questo è stato infatti uno degli assunti innegabili che hanno plasmato il “paradigma epistemologico” e il Weltbild dell’Occidente dal 1600 circa fino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale [11]. Rispetto al vecchio paradigma epistemologico, la “rivoluzione” di Kuhn è paragonabile alla Riforma di Lutero, e Kuhn a Lutero stesso, il che lascia spazio a Paul Feyerabend, predicatore dell’anarchismo epistemologico, al posto del radicale Thomas Münzer. Anticipando ciò che verrà, va già detto che Feyerabend non è diventato un epistemologo del dovere e che, nonostante la popolarità di cui gode ora, ci sono seri dubbi che lo diventerà mai.
Tuttavia, è improbabile che un futuro epistemologo del dovere possa assumere una simile posizione senza aver imparato la lezione di Feyerabend [12].
Torniamo ora alla “rivoluzione” di Kuhn nella sua formula originale (1962), trascurando le successive edulcorazioni a cui è stata sottoposta dal suo stesso autore, che deve spiegarsi davanti a questa moderna inquisizione, la società degli scienziati. Kuhn sostituisce l’idea di evoluzione continua con quella di rivoluzione; in altre parole, il progresso non può essere cumulativo perché ogni rivoluzione sostituisce un paradigma con un altro e i due paradigmi sono incommensurabili. È quindi possibile immaginare una sorta di progresso dialettico, un concetto che Kuhn non rifiuta esplicitamente. Ma il vero progresso della scienza non potrebbe esistere se questo stesso progresso non fosse legato alla nozione di “verità”. A questo proposito Kuhn è esplicito: reintrodurre il concetto di “verità” nel discorso porterebbe all’idea di “fine ultimo” dell’umanità e dell’indagine (scientifica), idea che ha caratterizzato la fase pre-darwiniana delle teorie evolutive [13].
Naturalmente, l’approccio scientifico, che è dogmatico quanto la teologia, non potrebbe sopravvivere senza che i libri di testo elogino all’infinito i progressi compiuti attraverso “rivoluzioni” che coinvolgono qualche “matrice disciplinare”. Ma a ben guardare, molti fenomeni della fisica moderna sembrano segnare un ritorno ai concetti aristotelici piuttosto che a quelli newtoniani: il progresso esiste quindi solo all’interno di un determinato paradigma; diventa un concetto relativo non appena si confrontano diversi paradigmi [14]. Inoltre, non è detto che il nuovo paradigma sia migliore di quello che ha appena sostituito. [In conclusione, per Kuhn la “logica della scoperta scientifica” non è affatto “logica”: il fattore umano è essenziale in essa, e solo dopo che una nuova teoria è stata accettata dalla comunità scientifica, a volte per ragioni estetiche, si sottopone alla logica dei manuali che cercano di dimostrare con successo la “razionalità” e la necessità della sua scoperta. I libri di testo, come nello Stato immaginario di Orwell, sono progettati per riscrivere la storia nella direzione opposta [16].
Se questa “histoire l’envers” sembra la caratteristica più evidente – e, per noi, più interessante – del vecchio paradigma, Kuhn elenca anche altre tre caratteristiche della comunità scientifica che si applicano anche allo stato delle cose sotto il dominio del paradigma evolutivo. Il primo si chiama isolamento, che può essere tradotto semplicemente come isolamento, poiché epistemologicamente entrambe le parole derivano dal latino insula e dall’italiano isola, che significano entrambi “isola”: la comunità scientifica è quindi separata dal “continente” rappresentato dalla storia vissuta. La seconda caratteristica è quella esoterica: il bagaglio di informazioni e speculazioni veicolato all’interno dell’isola scientifica è inaccessibile a chi vive sulla terraferma. La terza caratteristica è l’ortodossia, che Kuhn considera ancora più ristretta dell’ortodossia della teologia. L’ortodossia è il frutto dell’uso dei libri di testo [17].
Secondo Kuhn, questa situazione si applica solo alle scienze naturali; è estranea, ad esempio, alle arti, così come alla filosofia e alle “scienze umane”, il cui studio è caratterizzato da una pluralità di scuole. Queste scuole rappresentano “paradigmi” talvolta disparati. Il dialogo tra loro è possibile solo attraverso le “traduzioni”.
È chiaro che Kuhn si sbaglia sulle “scienze umane”, soprattutto nella loro versione universitaria. È vero che esiste il pluralismo, ma ogni scuola non è meno “ortodossa” al suo interno, il che porta inevitabilmente a una “guerra di scuole”, le più fortunate delle quali mostrano talvolta tendenze imperialiste, tra le quali occupare il maggior numero possibile di cattedre universitarie è uno degli obiettivi secondari. Il pluralismo scolastico, nonostante il suo equilibrio precario, è riuscito comunque a superare tutte le tendenze monopolistiche che si sono verificate finora. Ma qual è il meccanismo che permette a una scuola di ottenere un vantaggio a scapito di altre? La posizione storica delle discipline umanistiche, che oggi rappresentano un lusso inutile in ogni società che si rispetti, vivendo tutte le vibrazioni insite negli stati di crisi quando il rispetto della società per se stessa è talvolta fortemente ridotto [18], ispira una profonda disillusione nei confronti della scienza. La scienza, sì, impone il rispetto, mentre l’arte e la filosofia lo chiedono; la scienza crea mezzi, mentre le discipline umanistiche li assorbono; e così via.
Lo stato di frustrazione di alcuni rispetto ad altri si traduce in costanti tentativi da parte delle scienze umane di imitare le scienze naturali, di cercare di giustificarsi agli occhi del pubblico così come di fronte all’autorità collettiva in generale e, naturalmente, di assicurarsi l’egemonia all’interno della pluralità delle scuole. Così, da più di cinquant’anni, assistiamo a un movimento la cui sorprendente portata non sembra essersi ridotta negli ultimi tempi: il tentativo di conferire alla linguistica lo status incontrastato di “scienza” e di adottare in ogni campo possibile e impossibile la cosiddetta metodologia linguistica umanistica. In realtà, come ho detto altrove [19], la natura assolutamente irrazionale di questa impresa, la cui retorica propagandistica era invece una parata di razionalismo (popperiano), l’ha condannata al fallimento fin dall’inizio. Ma quanti tentativi sono stati fatti per distruggere il pluralismo delle scuole! Dimenticando che i loro paradigmi sono incommensurabili e che quando si traduce l’uno nell’altro possono spesso essere completamente contraddittori, si è persino tentata un’impossibile riconciliazione tra la semiotica, che proclama l’autonomia dell’arte, e il marxismo, che ne proclama l’eteronomia [20]! Molto più che nelle scienze naturali, le aporie e le ipotesi infondate non sembrano fermare gli eroi delle scienze umane, dai più piccoli ai più grandi.
In conclusione, dovremo ancora una volta ammettere, con Kuhn, che le scienze umane conservano un pluralismo che la scienza ignora. Di fatto, però, il numero di scuole la cui validità è riconosciuta da alcuni enti pubblici (università, scuole, beneficiari, media) è molto limitato. Inoltre, all’interno di queste scuole regnano le stesse caratteristiche che Kuhn attribuisce alla comunità scientifica, vale a dire: L’isolamento (che nel nostro caso è anche frustrazione), l’esoterismo (ognuno è specialista nel suo piccolo campo, uno studia il dialetto subahmiano del copto, mentre un altro studia il trentaduesimo anno di Balzac; ognuno frequenta solo i colloqui relativi alla sua specialità e conosce solo una cinquantina di altri specialisti nello stesso campo), l’ortodossia (questo è dovuto all’uso degli stessi testi di base – l’opera di Freud o la grammatica copta di W. Till, ma anche come conseguenza dei rapporti gerarchici all’interno del gruppo di specialisti, da cui dipendono le possibilità di promozione per tutti). Un caso raro, ma la preoccupazione del maestro per l’ortodossia deve aver spinto uno dei suoi studenti al suicidio. Questo grande maestro regnava come un despota nella sua università, e c’erano grandi studiosi che emigravano perché lui li disapprovava. Senza essere rilevante, questa situazione rimane sempre possibile. Non sorprende che nelle scienze umane si trovi un’immagine speculare della comunità scientifica, dal momento che il monopolio dell’apprendimento in entrambe le sfere appartiene alla stessa istituzione: l’università. Questo fatto sociologico primario, ignorato da Kuhn, è tuttavia di grande importanza nella nostra epoca in cui la libera iniziativa è praticamente eliminata nelle scienze naturali e sempre meno possibile nelle scienze umane. Pertanto, è necessario esplorare le profonde analogie strutturali e funzionali tra il mondo accademico e le scuole di scienze umane, a partire da una sociologia critica dell’università.
Naturalmente, un simile studio non può essere oggetto delle presenti pagine, che cercano di approfondire un tema specifico: l’opera di Mircea Eliade. Abbiamo potuto considerare qui le caratteristiche fondamentali che Thomas Kuhn attribuisce al “vecchio” paradigma epistemologico (vecchio nel senso di finito, ma non estinto; al contrario, l’agonia di questo paradigma non è ancora stata annunciata su larga scala), nonché tre caratteristiche della comunità scientifica (isolazionismo, esoterismo, ortodossia), caratteristiche perfettamente applicabili alle scienze umane.
Sebbene l’opera di Kuhn preannunci un nuovo paradigma epistemologico, di cui Kuhn stesso sarà l’apostolo, cercheremo in lui una delineazione positiva di questo paradigma. L’unica definizione che si può abbozzare è quella negativa: la scienza è un processo storico caratterizzato da cambiamenti radicali in uno dei suoi campi specifici. Lo stato dopo una “rivoluzione” non è necessariamente migliore di quello precedente. Non esiste un progresso cumulativo né un approccio lineare alla “verità”. Le rivoluzioni scientifiche non sono razionali. L’effetto della “razionalità” si verifica solo postfestum, quando l’approccio scientifico passa dal “contesto della scoperta” al “contesto della giustificazione”. Solo la giustificazione da manuale è razionale, la scoperta no.
Ma come tradurre queste considerazioni essenzialmente negative nel metodo positivo del nuovo paradigma epistemologico?
Se Thomas Kuhn è rimasto allo stadio critico, Paul K. Feyerabend è l’unico che è passato a una descrizione positiva del nuovo metodo. Nonostante il successo accademico del professor Feyerabend, è ancora improbabile che questo metodo possa essere adottato efficacemente dalle scienze moderne. Ma poiché rappresenta una conseguenza radicale dell’approccio di Kuhn, è necessario delinearne qui le caratteristiche fondamentali.
Va subito notato che l’opera di Feyerabend, che cronologicamente può essere vista come una continuazione del lavoro di Kuhn, è essenzialmente polemica. Si differenzia dal lavoro del suo predecessore per il tentativo di formulare un principio metodologico positivo, anche se estremamente generico: “tutto va bene”, “tutto va bene”. [21]. In realtà questa epistemologia rabelaisiana, il cui carattere provocatorio non ha bisogno di ulteriori sottolineature, non è priva di spessore. L’”anarchismo” (o “dadaismo”), elevato al rango di metodo scientifico, ha i suoi limiti operativi; e sembra che, pur non escludendo nessuna delle alternative alle ipotesi accettate, Feyerabend sia molto interessato anche ai miti:
“Le alternative necessarie per la continuazione del movimento possono essere prese in prestito anche dal passato. In effetti, possono essere attinti da qualsiasi luogo: dai miti antichi e dai pregiudizi moderni, dalle invenzioni degli esperti o dalle fantasie degli sciocchi [22] … Perciò è importante che le alternative siano messe l’una contro l’altra, senza essere isolate e senza essere emarginate da qualsiasi forma di demitizzazione. Contrariamente a Tillich, Bultmann e ai loro discepoli, dovremmo considerare le visioni del mondo della Bibbia, di Gilgamesh, dell’Iliade e dell’Edda come valide cosmologie alternative che possono essere utilizzate per modificare e persino sostituire le cosmologie scientifiche del tempo [23] … Le vecchie dottrine e i miti primitivi sembrano strani e assurdi solo perché il loro contenuto scientifico è poco conosciuto o distorto da filologi e antropologi che non hanno familiarità con le conoscenze fisiche, mediche o astronomiche rudimentali”. [24].
e così via:
“… la scienza di oggi può diventare la favola di domani, e il mito più ridicolo può alla fine diventare il pezzo di scienza più solido”. [25].
Poiché ciò che ci interessa qui non è (in ultima istanza) altro che l’insegnamento della storia e in particolare della storia delle religioni, non ha senso continuare a elencare i meriti che Feyerabend attribuisce al mito e all’antropologia come disciplina che si occupa di miti. Tralasciamo il ritratto dell’”epistemologo anarchico” da lui tratteggiato, tanto brillante quanto esagerato [26]. Tradotta nel linguaggio di Kuhn, la posizione di Feyerabend può essere formulata come segue: poiché non c’è progresso nella scienza, tutti i paradigmi possono rivelarsi “buoni”, anche quelli che sono stati scartati da tempo. Un mito indiano, un rituale voodoo, una seduta magica Ouija nella Firenze del XVI secolo, un oracolo del popolo Yoruba: tutto ciò potrebbe avere un contenuto scientifico non ancora esplorato. Infatti, non si tratta affatto di paradigmi il cui vero contenuto è stato smentito da altri paradigmi successivi: si tratta solo di paradigmi incommensurabili tra loro [27]. Se Thomas Kuhn ha già sottolineato che non abbiamo più bisogno di scrivere “histoire à l’envers”, Feyerabend ci mostra come dovremo agire per scrivere “histoire à l’endroit”: cercando di penetrare la teoria, in generale perfettamente coerente e logica, che sta alla base di ogni paradigma.
Anche se volessimo tracciare qui una possibile storia della ricerca che appartiene a un nuovo paradigma epistemologico piuttosto che a uno vecchio, un’impresa del genere sarebbe prematura, per non dire esagerata rispetto alle nostre capacità. Tuttavia, citerò il nome di un ricercatore, il compianto Daniel Pickering Walker, la cui grandezza, oscurata da altri, non ha ancora ricevuto il riconoscimento che merita. Walker ha tentato in una serie di articoli [28] di ricostruire l’”histoire à l’endroit” delle idee rinascimentali, in cui ha sottolineato la natura del tutto coerente delle teorie scientifiche (dell’epoca) sulla magia [29].
Non appena è stato pronunciato il primo nome, il ghiaccio è stato rotto. E, prima di nominare Mircea Eliade, a cui si fa riferimento in questo articolo, ne vengono in mente altri. Purtroppo non è possibile descriverli in dettaglio in questa sede. Da notare, tuttavia, il brillante e audace tentativo di Wendy O’Flaherty che, consapevole della pluralità dei paradigmi e dei conflitti tra di essi, propone una metodologia che chiama “approccio della cassetta degli attrezzi”. [30], cioè un approccio flessibile realizzato con gli strumenti che il soggetto stesso richiede, attraverso rielaborazioni individuali. E non siamo forse arrivati all’affascinante problematica dell’ermeneutica nella profonda e influente formulazione di Paul Ricoeur [31]? Riservandomi di tornare su questi nomi in un altro momento, li metto ora fuori parentesi per concentrarmi sulla figura di Mircea Eliade. A questo proposito, l’analisi consisterà in due parti: nella prima, di ordine negativo, accumulerò argomenti che dimostrano che Eliade non ha mai condiviso i principi e i metodi del vecchio paradigma epistemologico; nella seconda, di ordine positivo, cercherò, per quanto possibile, di registrare il suo ruolo nella formazione del nuovo paradigma. E lo farò con un esempio che illustra una modalità di pratica storica che questo nuovo paradigma ci sta già costringendo a sperimentare.
È quasi ovvio che Mircea Eliade non fa affatto parte del vecchio paradigma. Poiché sarebbe inutile citare testi di supporto, mi limiterò principalmente a riportare le conclusioni di uno studio che ho già iniziato altrove [32]. Queste conclusioni, mi sembra, sono state confermate solo dai lavori apparsi nel frattempo su Eliade [33].
In tutta una serie di opere sull’alchimia [34] pubblicate dopo il 1934, Eliade insiste su quello che ormai è diventato un luogo comune solo grazie ai suoi scritti: che nel caso della chimica non è necessario scrivere la sua storia a ritroso per arrivare all’alchimia. Al contrario, l’alchimia è fondamentalmente diversa dalla chimica moderna per quanto riguarda gli obiettivi e i presupposti filosofici, fisiologici, ecc.
Questo è forse l’esempio più classico, che dimostra la distanza che Eliade prende rispetto all’epistemologia del progresso cumulativo: poiché non si tratta di discipline comparabili, la chimica non può essere “al di sopra” dell’alchimia. Tuttavia, basta aprire tutte le storie delle scienze ispirate ai principi dell’evoluzionismo per vedere che la sequenza cronologica dei paradigmi è sempre interpretata in termini di progresso. Pur non essendo l’unico e probabilmente il primo autore della nuova interpretazione, Eliade ne è certamente uno dei pionieri, nonché il più influente sostenitore presso il pubblico.
Il problema dell’alchimia non è isolato per Eliade; vediamo che già nel 1937 aveva formulato un principio fondamentale della nuova epistemologia di Kuhn. Il passaggio in questione è abbastanza importante da essere citato testualmente:
“Cercheremo di dimostrare che la storia mentale dell’umanità, lungi dall’apparire come un’evoluzione continua, passa anche attraverso un ritmo di degradazione e di morte delle intuizioni fondamentali; e che questo lento decadimento delle sintesi mentali non è in alcun modo inferiore alle sintesi successive che possono essere ricostruite nelle loro fasi più importanti [36].”
“Sintesi mentale” significherà in seguito per Eliade ciò che abbiamo chiamato Weltbild: un paradigma di ordine molto generale, una “Drammaturgia del pensiero” valida per un’intera epoca. Possiamo già vedere uno degli aspetti positivi dell’approccio di Eliade: quello che lo porterà a cercare di ricostruire più “cornici di pensiero”, più Weltbilder, senza applicare ad essi il principio evolutivo del miglioramento continuo. Il punto di partenza della posizione di Eliade non ci interessa ora; ci ripromettiamo di tornarci in altra sede. Si veda innanzitutto il nostro lavoro Mircea Eliade und die blinde Schildkrote. In effetti, ciò che caratterizza l’opera di Eliade più di ogni altro lavoro sulla storia della religione è, da un lato, come dice Douglas Allen, la sua “posizione risolutamente anti-riduzionista” [31] e, dall’altro, la sua “posizione fortemente anti-riduzionista”. [31] e, dall’altro, il suo profondo rispetto per il fatto religioso più apparentemente insignificante. A questo proposito è impossibile immaginare una grandiosità teorica maggiore che affiancare Eliade all’evoluzionista Fraser e al riduzionista Max Müller. L’appello di Eliade all’autonomia della religione deriva, tra l’altro, dalla fenomenologia della religione [38].
Il suo rapporto con la fenomenologia resta da chiarire [39], ma confrontando il calo di interesse pubblico per la disciplina (che non significa affatto che sia “obsoleta”, come alcuni studiosi stessi ritengono) con l’eccezionale destino dell’opera di Eliade, possiamo dire che in Eliade la fenomenologia esce dal paradigma evoluzionista in cui si trovava già ai tempi di Gerard van der Leuw, offrendo i più importanti risultati raggiunti nella costruzione di un nuovo paradigma epistemologico. L’ambizioso progetto di Un trattato di storia delle religioni, come gli altri libri di Eliade quali Le mythe de l’eternei retour, Le Sacre et le profane, Aspects du mythe, Naissances mystiques e Histoire des croyances et des idees religieuses, consiste nel restituire i principi più generali alla base di quella “struttura di pensiero” dell’uomo nelle società arcaiche contrapposta all’”uomo moderno”. Le mappe che disegnava della scala infinitamente piccola di un paradigma estremamente vasto lasciavano talvolta perplessi i colleghi i cui orizzonti coprivano a malapena uno o due Paesi e i cui strumenti di lavoro non andavano oltre una scuola. Da qui le critiche feroci descritte da Norman Girardot nel suo saggio [40]. Non ci occuperemo di tutto questo in questa sede; altri potrebbero voler considerare quanto sia piccola la scala utilizzata nella storia delle idee. Fedele al programma di descrizione dei paradigmi che aveva concepito in gioventù, Eliade si dedicò all’esplorazione di “cornici di pensiero” meno ampie, come quelle associate allo yoga e allo sciamanesimo. Anche questi due paradigmi furono considerati troppo ampi dagli “esperti”; Eliade si guadagnò persino l’epiteto di “sciamano” da uno di loro, suo collega “scientifico”. Ma, allo stesso tempo, sotto l’influenza del movimento della controcultura – in particolare di Theodore Rozzak – questo epiteto divenne molto lusinghiero. È interessante notare che dopo il 1968 Eliade rifiutò di diventare uno degli idoli della controcultura californiana, che tuttavia alimentava con le alternative, e si mostrò sfavorevole alle rivolte studentesche (cfr. Fragmente d’un journal).
Qui occorre aprire una parentesi per analizzare l’atteggiamento verso Eliade dei rappresentanti affermati (nel senso di desiderosi di appartenergli) del nuovo paradigma epistemologico in antropologia. Come ho mostrato altrove [41], questo atteggiamento è ambiguo: si va dalla critica distruttiva di Alliband, che gli rimprovera di non riconoscere gli “schemi di pensiero” arcaici come una valida alternativa al Weltbild moderno [42], alla devozione di Hans-Peter Dürr, che si è assunto il compito di compilare tre grandi volumi in suo onore (1983-l984). Senza dichiararlo esplicitamente, Dürr, amico di Feyerabend e certamente uno dei più importanti rappresentanti del nuovo paradigma epistemologico in antropologia, riconosce in Eliade se non un collega anziano, almeno un venerabile predecessore.
La critica a cui Eliade è sottoposto dall’”antropologia anarchica”. [43] si spiega, mi sembra, con la cautela accademica che Eliade spesso mostra nel valutare i “modelli di pensiero” che analizza, nei quali non sembra riconoscere valide alternative alla scienza moderna. Senza essere troppo chiaro al riguardo, Eliade sembra trattare la scienza con più rispetto di quanto dovrebbe: da qui, ad esempio, il suo tentativo di trovare analogie tra alcune proposizioni mistiche e alcune metafore della fisica moderna. Per il nuovo paradigma questo atteggiamento è ingenuo: il paradigma della mistica e il paradigma della scienza non sono paragonabili; si può benissimo contrapporre il paradigma mistico come alternativa al paradigma quantistico, per esempio, ma è inutile confrontarli [44].
Per quanto riguarda le critiche che Eliade ha suscitato nell’establishment accademico, è ancora più facile spiegarle con il fatto che non ha mai rispettato le tre caratteristiche/regole del mondo accademico: isolazionismo, esoterismo e ortodossia. Infatti, Eliade ha sempre frequentato raramente i congressi, ha evitato una rigida specializzazione a favore di un ampio campo di ricerca e ha mantenuto contatti con figure del mondo della scienza e dell’arte al di fuori della cerchia dei suoi studi. Inoltre, nei suoi scritti non si rivolgeva ai suoi colleghi esperti di yoga e sciamanesimo, ma alla gente comune in cerca di informazioni accessibili e rigorose. Infine, non essendo un membro di nessuna scuola – con la possibile eccezione della scuola fenomenologica, che stava iniziando a disintegrarsi quando lui vi aderì – la questione della metodologia ortodossa non si sarebbe nemmeno posta nel suo caso.
Il pubblico contro l’isolato, l’exoterico contro l’esoterico, l’eterodosso contro l’ortodosso: tutti elementi che possono turbare una comunità soggetta alle regole dell’isolazionismo, dell’esoterismo e dell’ortodossia. Questo rende Eliade, nei termini di Kuhn, divergente piuttosto che convergente, e persino estremamente divergente. Ma questa totale disobbedienza alle leggi del gruppo può anche essere interpretata come un segno di appartenenza a un nuovo paradigma epistemologico anti-ortodosso per definizione, anti-isolazionista per vocazione e anti-esoterico per convinzione – anche se, altrimenti, è facile sostenere che una scienza che cercasse valide alternative in altri “modelli di pensiero” finirebbe per avere un doppio esoterismo e un doppio isolazionismo. Il fatto che in queste condizioni l’ortodossia diventi inevitabile ci sembra abbastanza ovvio.
Quando ho delineato lo schema di questo saggio, ho ritenuto necessario introdurre alla fine uno dei rappresentanti tipici della “nuova antropologia”, e Hans Peter Dürr mi è sembrato il più adatto. Non avendo abbandonato quel progetto, credo che non abbia più spazio qui. Per ora è sufficiente elencare le caratteristiche più evidenti del già importante lavoro di Dürr [45]. È molto interessante che nel corso del tempo Dürr si avvicini sempre più a Mircea Eliade. Nel suo libro Traumzeit, di cui O’Flaherty ha recentemente scritto una recensione entusiastica [46], Durr lascia molto più spazio alla discussione delle teorie che a quella del materiale religioso. E formula teorie alternative, stimolanti ma accessorie. Non c’è da stupirsi che la comunità accademica abbia accolto così male questo libro, soprattutto perché il suo autore ha deriso tutte le scuole, dal marxismo e dall’”habermarxismo” (un suo gioco di parole) al neopositivismo [47]. Nel suo ultimo libro, Sedna, la descrizione del Weltbild dei cacciatori primitivi si basa sullo studio del materiale. L’interpretazione è molto ardita, ma non casuale. Avrà qualcosa di sconvolgente per i seri specialisti di preistoria, ma Dürr non è eccessivamente preoccupato. A giudicare da questo libro, a parte il carattere eccessivamente imperativo delle sue affermazioni e i sentimenti troppo espliciti, Dürr sembra impegnato a descrivere il paradigma alla maniera di Eliade, senza alcun dubbio sulla sua natura, alternativa o meno, in relazione alla scienza. Come per Eliade, si tratta di un’alternativa tra diversi Weltbild, e Dürr dà una preferenza un po’ ingenua al Weltbild dei cacciatori, poiché, dice, essi “amano la vita” così com’è, senza la malinconia dei contadini e la “spersonalizzazione” dei mistici acosmici. A dire il vero, non so fino a che punto Dürr appartenga al “nuovo paradigma” più di Eliade. Ma ho ritenuto estremamente istruttivo fare questo esempio qui, perché a nessuno verrebbe in mente di mettere in discussione l’appartenenza di Dürr, mentre per Eliade non è una questione di ordine ovvio. A prima vista, si potrebbe dire che la differenza essenziale tra Eliade e Dürr risiede nella quasi totale libertà di quest’ultimo dai pregiudizi dell’establishment accademico, che peraltro ha abbandonato. Se la giustizia è dalla parte di Kuhn, Feyerabend, Dürr (e, in queste pagine, di me), allora un nuovo paradigma epistemologico, una realtà di proporzioni enormi, dovrà imporsi alla fine di una lunga lotta che durerà decenni e forse anche centinaia di anni (o all’improvviso, dopo qualche cataclisma; ma allora altri paradigmi competeranno con esso). Da questo punto di vista, Dürr dovrà prendere posto con onore nel dipartimento di antropologia. Tuttavia, data l’enorme resistenza a cui il nuovo paradigma deve prepararsi, l’impresa non è infruttuosa, anche se Dürr non riesce a rimanere all’università, tanto più che, come credo, il limite di età per diventare Beamte nella Repubblica Federale Tedesca è di 50-52 anni. Se il “nuovo paradigma” attecchirà o meno dipende, ovviamente, dall’opinione che le generazioni future avranno di Eliade. Quanto a noi, crediamo di aver dimostrato che, senza essere un uomo del passato, egli appartiene a quel futuro ancora ipotetico. Tra queste due dimensioni dell’inesistente – ciò che è e ciò che non è – Eliade nella sua opera ha avuto il raro privilegio di godere del presente.
Note
1.Si veda ad esempio I. P. Culianu, Mircea Eliade, Assisi, 1978 [vezi ed.rom.: Mircea Eliade, trad. di Florin Chiritescu si Dan Petrescu. Prefata de Mircea Eliade, postfata de Sorin Antoni, Bucuresti, Nemira, 1995, 19982 – n.ed.]; Douglas Allen, Mircea Eliade et le phenomene religieux, Paris, Payot, 1982; Norman Girardot, “Introduction. Immaginare Eliade: una predilezione per gli scoiattoli”, in N. J. Girardot – M. Linscott Ricketts (a cura di), Immaginazione e significato. The Scholarly and Literary Worlds of Mircea Eliade, New York, The Seabury Press, 1982, pp. l-l6; Ugo Bianchi, “Einige methodologische Uberlegungen zu Mircea Eliade als Religionshistoriker”, in H. P. Duerr (ed.), Die Mitte der Welt. Aufsatze zu Mircea Eliade, Frankfurt, Suhrkamp, 1984, pp. 95-l05; Guilford Dudley III, “Eliade und Jung. Der Geist von Eranos”, ibidem, pp. 35-46 ecc.
- G. Dudley III, art. cit.
- R. J. Zwi Werblowsky, “In nostro tempore”, Duerr, Mitte der Welt, pp. 128-l37.
- N.J. Girardot, art. cit., pp. 12-l3.
- Naturalmente, i veri scienziati negano a queste discipline il titolo di “scienza”. Per quanto riguarda gli studiosi di letteratura, essi sono stati a lungo dell’opinione che la linguistica sarebbe una “scienza”. Non c’è spazio qui per approfondire questa affermazione. Il suo effetto a livello di insegnamento e ricerca è stato quello di legittimare qualsiasi approccio ispirato alla metodologia linguistica. È sorprendente come alcune ipotesi talvolta sciocche (ad esempio, che la struttura semantico-simbolica di un testo letterario debba estendere la sua struttura morfo-sintattica) abbiano prodotto opere notevoli. È un caso ben noto in epistemologia quello in cui un’ipotesi falsa produce comunque una riflessione valida.
- Vorremmo dire che su cento libri letti sulla psicoanalisi solo uno è dedicato all’epistemologia, ma questo significherebbe dimenticare i molti libri, a volte eccellenti, che sono dedicati alla teoria di un certo gruppo di scienze o anche all’epistemologia generale, senza però pretendere di essere “opere di servizio”. Inoltre, è molto caratteristico che opere importanti e popolari sull’epistemologia abbiano sempre avuto il loro punto di partenza nella fisica.
- È sufficiente aprire a caso un buon libro di testo – attualmente sto leggendo L. Renzi, Introduzione alla filologia romanza, Bologna, 19782 (1976), pp. 12-l5 – di trovare nelle pagine introduttive riferimenti a Kuhn, seguiti da “applicazioni”. Ciò significa che quattordici anni dopo la pubblicazione del libro di Kuhn, il linguista ne riconosce l’indiscutibile autorità, superando, ovviamente, quella di Popper.
- Cfr. Thomas S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, 1970 (1962), v. Postscriptum la editia a Ii-a, p. 181.
- Nella maggior parte dei casi, ciò che Kuhn intende con la parola “paradigma” si riferisce a un modello implicito che esiste in una particolare branca della scienza. La “rivoluzione” comporta l’abolizione di uno di questi paradigmi e la sua sostituzione con un altro. Tuttavia, è legittimo immaginare paradigmi più inclusivi e rivoluzioni di natura più ampia di quelle che riguardano la fisica. Il paradigma epistemologico, ad esempio, ha una durata molto più lunga e una portata molto più generale rispetto ai paradigmi successivi dei singoli settori della fisica. Poiché ogni rivoluzione comporta un nuovo modo di vedere il mondo (che Kuhn chiama un nuovo mondo), va detto che il mondo dell’epistemologia di Kuhn non è lo stesso dell’epistemologia di Popper. Sono incommensurabili, non hanno un’unità di misura comune. La nozione estesa di “paradigma” ha un valore eccezionale per lo storico delle mentalità. Tale paradigma è il Weltbild, l’insieme delle idee, esplicite e implicite, sul mondo in una determinata epoca. Il paradigma epistemologico è anche parte del Weltbild, che influenza profondamente.
- K. R. Popper, “Epistemology without a knowing Subject”, in Logic, Methodology, and Philosophy, Amsterdam, 1968, p. 351, citato in H.P. Duerr, M Dieu – ni metre. Anarchische Bemerkungen zur Bewusstseins – und Erkenntnistheorie, Frankfurt, 852 (1974), pag. 21.
11 È innegabile che questo concetto di progresso sia stato abbandonato da alcuni dei suoi più convinti sostenitori – come Wells, ad esempio – alla vigilia della Seconda guerra mondiale. In ambito epistemologico è stata messa in discussione da Thomas S. Kuhn nel 1962 e successivamente, in una formulazione molto più radicale, da Paul. K. Feyerabend.
- Saremmo tentati di dire: “non risponde alle obiezioni di Feyerabend”. Ma la maggior parte di queste obiezioni sono caratterizzate dal fatto di non poter trovare risposta. È possibile, tuttavia, immaginare una scolastica che, a partire da Feyerabend, cerchi di riunire tutti gli ambiti che compongono il Weltbild della nostra epoca. Ad esempio, uno dei suoi possibili punti di partenza potrebbe essere la sociologia dell’insegnamento universitario, con l’obiettivo di unificare la critica epistemologica in tutte le scienze riconosciute, ecc.
- Kuhn, op. cit., pp. 170-l71.
- Ibidem, pp. 136-l43.
- Ibidem, p. 108.
- Ibidem, pp. 138s, 167.
- Ibidem, pp. 164-l65.
- In una fase di recessione economica come quella che stiamo vivendo, il declino del rispetto pubblico per l’università può arrivare molto lontano. Tutto questo ci fa capire l’enorme rischio rappresentato dall’esercizio del controllo statale sull’istruzione. In un’intervista umoristica (Ziircher Geschnetzeltes. Un’intervista con il professor Feyerabend, in H.P. Duerr, Satyricon. Essays und Interviews, Berlin, 1982, pp. 35-40), Hans Peter Dürr ricorda a Paul Feyerabend, sostenitore dell’egemonia dell’autorità sociale sulla scienza, questi rischi. Qui sorge un nuovo problema che solo una sociologia dell’università seria e responsabile può affrontare adeguatamente.
- Les fantasmes de la liberte chez Mihai Eminescu in I. P. Culianu (a cura di), Libra (Festschrift Noomen), Groningen/Dordrecht, 1983, pp. 114-l46, in particolare 114-l29.
- Ibidem, p. 123.
- Paul Feyerabend, Contro il metodo. Outline of an an anarchist theory of knowledge (Schema di una teoria anarchica della conoscenza), Londra, 19782 (1975), p. 23.
- Ibidem, p. 46.
- Ibidem, pag. 46n.l.
- Ibidem, p. 49.
- Ibidem, pag. 52.
- Ibidem, pag. 189.
- Feyerabend evita di usare il termine “paradigma”; preferisce l’espressione “Quadri di pensiero (percezione dell’azione)” che ha un’applicabilità più ampia e allo stesso tempo più precisa. Sull’immutabilità-sovranità, cfr. ibid. p. 271 sq.
- D. P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, Londra, 1958; Unclean Spirits, Londra, 1981 n. a.
- Si veda a questo proposito il nostro libro Eros et Magie a la Renaissance, Paris, 1984.
- V. W. Doniger O’Flaherty, Women, Androgynes, and other Mystical Beasts, Chicago-London, 1980, pp. 5sq.
- Si veda in particolare Paul Ricoeur, Le conflict des interpretations, Paris, 1967. È ovvio che i problemi dell’ermeneutica di Paul Ricoeur potrebbero fornirci un’interpretazione alternativa della situazione che cerchiamo di presentare qui da un punto di vista epistemologico. Ci auguriamo che questo sia oggetto di ricerche future.
- Nel libro citato sopra, n. 1, e in diversi articoli.
- Ho esposto la maggior parte di questo lavoro in M. E. at the Crossroads of Anthropology, in Neue Zeitschrift fiir Systematische Theologie und Religionsphilosophie, pp. 123-l31, specialmente pp. 130-l31.
- Si veda l’ultima edizione di M. Eliade, Forgerons et Alchimistes, Parigi 1977.
- L’essenza si trova nel mio libro Mircea Eliade (1978), pp. 48-53.
- Eliade. M. Cosmologie Şi Alchimie Babilonianăa, Bucuresti, 1937, p. 18.
- D. Allen, op. cit., p. 44.
- Cfr. gli articoli citati al paragrafo 33, pag. 123.
- Si veda il mio Mircea Eliade (1978), pp. 146-l50.
- N. Girardot, art. cit., pp. 1l-l2.
- Cfr. punto 33, pagg. 127 e 129.
- Terry Alliband, “Lobe das Primitive – Verfluche das Moderne!”, in H. P. Duerr (a cura di), Sehnsucht nach dem Ursprung. Zu Mircea Eliade, Francoforte, Syndikat, 1983, pp. 59-70. Alliband accusa Eliade di appartenere al paradigma evoluzionista. Tutto indica che non ha letto il saggio di Eliade del 1937 “Il folklore come strumento di conoscenza”, pubblicato nella traduzione francese in L’Herne, 33, Parigi, 1978, pp. 172-l81; per un’interpretazione si veda il mio studio: M. E. at thes Crossroads…, pp. 127-l28
- Potremmo anche chiamarla “nuova antropologia”, ma mi sembra che in Francia altre scuole usino questa espressione.
- Si veda l’eccellente libro di Basaraba Nicolescu Nous, la particule et le monde, Paris, 1983, che evita molto bene la trappola.
- Esiste già una raccolta di articoli su questo lavoro curata da R. Gehlen e B. Wolf: Der glaserne Zaun. Aufsatze zu Hans PeterDuerr’s ‘Traumzeit’, Francoforte, Syndikat, 1983. Il suo famoso “Traumzeit” è apparso nel 1978. (O’Flaherty ha recentemente pubblicato una recensione entusiasta di una traduzione inglese di questo libro sulla New York Review of Books). Il suo ultimo libro, Sedna oder die Liebe zum Leben, è uscito nel 1984. Ho pubblicato le recensioni di questi due libri su History of Religions.
- Si veda la nota 45.
- Cfr. il mio contributo [Wer hat Angst vor Hans Peter Duerr?] a Der glaserne Zaun (n. 45 supra), pp. 263-4.
Fonte: Idee&Azione
