di Rassàm alÛrdun
La partecipazione d’un islamista ad un colloquio su Melkisedek potrebbe sembrar strana. Effettivamente, questa figura biblica non è stata ripresa dalla tradizione islamica; né il Corano, né la sunna o l’insieme delle tradizioni profetiche, come neppure le Jsra’iliyyat, vasto corpus di tradizioni giudeo – cristiane assorbite dall’islàm dei primi secoli, lo menzionano.
Bisogna quindi accontentarsi, per parlare di Melkisedek nell’Islàm, di rendere un’immagine in negativo?
Cercheremo, qui, dì ritrovarne i tratti positìvì, rìcercando non un personaggio, bensì le funzioni che rappresenta. Il breve passaggio del Genesi (14, 18-20) in cui appare Melkisedek s’intercala, quasi incidentalmente, al racconto dei combattimenti condotti da Abramo contro i re del Paese di Canaan. Nell’Islàm non si accenna minimamente a questa parte della vita di quello che ancora non si chiama Abramo. Il Corano, come la tradizione profetica ed esegetica, non parla che d’un certo numero d’episodi della vita di Ibràhim (Abramo).
Nel suo paese d’origine è, dapprima, preservato da un massacro d’innocenti, quindi ritrova, attraverso la contemplazione degli astri, l’adorazione del Dio unico, poi spezza gli idoli, è gettato nella fornace e sostiene una controversia con un re che la tradizione identifica con Nemrod. Emigra, accoglie gli angeli venuti ad annientare Sodoma, riceve – assieme a sua moglie – l’annuncio della nascita d’Isacco che s’appresta a sacrificare il figlio. Conduce Hagar ed Ismaele nel deserto, salvati grazie all’intervento dell’angelo, e si reca, più tardi, a visitare questo figlio edificando, con lui, il tempio della Ka’ba donde chiama gli uomini al pellegrinaggio. Incarna, prima di tutto, quel che il Corano chiama Islàm: l’affidamento totale del proprio essere a Dio, la restaurazione dell’uomo nella sua natura primordiale (fitra),
Così, inaugurando una linea di puri adoratori di Dio (hanif al hunafa‘). Il racconto del Genesi, ove Abramo combatte i re e delimita così i confini della Terra Santa, non s’iscrive nei ruoli dei quali è investito l’Ibrahim coranico. Questa evidenza testuale basta, di per sé, a spiegare perché Melkisedek, incluso in questo passaggio, non sia stato assunto dalla tradizione musulmana.
E’ ancora in un contesto guerriero, la vittoria sui nemici che compare, nei Salmi;i (110, 4-5), un essere “gran sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melkisedek”. Lo stato clericale ed il sacerdozio sono delle nozioni relativamente estranee alla tradizione musulmana, eccezion fatta per i riferimenti ai preti cristiani o di religioni antiche. L’espressione “per sempre”, invece, che evoca l’idea d’un sacerdozio immutabile, corri- sponde abbastanza bene alla nozione coranica di religione immutabile (din qavvim)’, spesso connotata dall’espressione “ secondo la tradizione di Abramo puro adoratore”(millat- Ibrahim hanifan ).
NeII’Islàm, il carattere immutabile e preservatore di questa espressione tradizionale: “per sempre”, resta talmente connessa alla persona d’Abramo, che non può esser incarnata da nessun altro che lui.
Nell’interpretazione del passaggio del Genesi e dei Salmi data dall’autore dell’Epistola agli Ebrei, Gesù è identificato con il “gran prete per sempre secondo l’ordine di Melkisedek”; è Melkisedek stesso “per sempre” poichè, senza inizio né fine, la sua realtà trascende il tempo. Il suo sacerdozio, che non è dell’ordine della trasmissione umana è, pertanto, superiore a quello di Levi che ha pagato la decima a Melkisedek nella persona del suo avo Abramo.
Questo testo giustifica, in tal modo, l’ascendenza di Gesù, sorto da Giuda e dalla famiglia di Davide, il che implica la superiorità della regalità – intesa, quì, in senso principiale e dìvìno – sul sacerdozio.
Non è certamente un caso che questa argomentazione la si ritrovi nell’Epistola agli Ebrei, né che l’Islàm non abbia conservato questa problematica giudeo-cristiana.
Secondo l’interpretazione cristiana, Melkisedek incarna la preesistenza del Verbo divino, principio ed origine della storia della Rivelazione. Il sacrificio del pane e del vino da lui compiuto, il versamento della decima da parte di Abramo sono, rispettivamente, il segno ed il riconoscimento di questa funzione immutabile.
Ora, nel Corano, sotto forma allusiva e, nella Sunna, in modo esplicito, l’anteriorità di Muhammad in quanto Spirito della Profezia è affermata in termini più o meno analoghi. Nella sura XXXIII : “alAhzab” (“I Coalizzati”), ove la persona del Profeta occupa un posto centrale, è detto: «il Profeta è più vicino ai credenti di loro stessi e le sue spose son madri loro… » (Corano XXXIII : 6).
Al di là del senso giuridico del versetto legato alla questione dell’adozione, ì credenti sono invitati a meditare sulla presenza della realtà profetica nel più profondo di loro stessi, cosa che non può non richiamare alla mente “quella speranza che penetra fino al di là del velo, nel santuario in cui Gesù è entrato per noi come precursore, in qualità di gran prete per sempre secondo l’ordine di Melkisedek ( Ebrei 6, 17-8). Si comprende, da ciò, il legame tra il versetto della sura “alAhzab” precedentemente citata e la seguente, in cui si allude all’anteriorità della realtà profetica.
Il discorso s’indirizza direttamente al Profeta, menzionato prima di quei successori che contraddistinguono le fasi principali della storia della profezia: «Ed allorchè stringemmo il patto con i profeti, con te, con Noè e, con Abramo, con Mosè e con Gesù figlio di Maria, e stringemmo, con loro, patto solenne.» (Corano XXXIII 7). Più avanti, nella stessa sura, il Profeta è denominato «… Un buon esempio…» (Corano XXX III 21); “Inviato di Dio e Sigillo dei profeti” (Corano XXXIII 40); è, infine, qualificato come Testimone, annunciatore di buona novella e avvertitore, / chiamante a Dio col Suo permesso e Lampada luminosa.» (Corano XXXIII 45—46).
Di queste qualifiche profetiche, riterremo soprattutto quelle di “sigillo” e di “testimone”, legate al ruolo escatologico del Profeta come ultimo messaggero inviato agli uomini ed intercessore per l’insieme della comunità il giorno della Resurrezione, nonché quello di “lampada luminosa”, fondamento della dottrina della Luce muhammadiana, portatrice della creazione e della Rivelazione fino alla sua manifestazione nella persona umana del Profeta.
Questa dottrina si trova già, in germe, nelle tradizioni in cui uno dei Compagni domanda a Muhammad quand’è che è divenuto Profeta. In una di queste, risponde: “Ero il Sigillo dei profèti quando Adamo giaceva ancora nell’argilla. Vi dirò l’inizio di tutto ciò: l’invocazione di mio padre Abramo, l’annuncio della mia venuta da parte di Gesù e la visione e la visione che ebbe mia madre, poichè così vedono le madri dei credenti. Questi passaggi del Corano, come questa risposta del Profeta, richiamano i credenti ad una percezione al tempo stesso interiore e cosmica della realtà del Messaggero, paragonabile all’idea di Gesù che l’autore dell’Epistola voleva dare agli “Ebrei”. La menzione esplicita di Melkisedek nei testi fondatori dell’Islàm non s’imponeva dato che, in effetti, tutti i significati e le funzioni di cui questa figura si trova carica nella Bibbia, sono stati riassorbiti nelle persone d’Abramo e di Muhammad stesso.
Funzioni di Melkisedek
Se, ormai, non si considera più il re di Salem come un personaggio dai contorni più o meno storici ma come il rappresentante d’una o più funzioni sacre, è possibile ricercarne le corrispondenze nella tradizione musulmana. Re di un paese che significa “pace”, si presenta ad Abramo quando questi ha appena vinto i re, pronunciando una benedizione non meno guerriera: “Benedetto sia Iddio L’Altissimo, che ha consegnato nelle tue mani i tuoi nemici”.
Ugualmente, il Salmo 110 annuncia che “egli spezzerà i re nel giorno della sua collera”. Re di giustizia e “sacerdote di Dio L’Altissimo”, rappresenta l’unione delle funzioni guerriere e sacerdotali ed il loro principio comune espresso, bisogna sottolineario, in termini di regalità. E’ ancora necessario ricordare l’universalità d’una simile rappresentazione?
Questa rappresentazione conferisce, egualmente, un carattere sacro alla guerra, nella misura in cui essa è un combattimento per la pace.
Si tratta, nell’Islàm, della nozione coranica di califfato (khalifa) e dei suoi prolungamenti tanto nella storia quanto nelle elaborazioni dottrinali, giuridiche, teologiche e spirituali. Nel Corano, il termine khalifa designa innanzi tutto l’Uomo, ancor prima della creazione d’Adamo, quindi Davide, istituito vicario da Dio dopo ch’ebbe riconosciuto la sua colpa. Allo stesso modo in cui Davide rappresenta, nel Corano, l’unione della profezia e della regalità, il Califfo era, al tempo stesso, “emiro dei credenti” – funzione guerriera – ed “imam dei musulmani” – funzione sacerdotale. L’investitura di una simile funzione ha rivestito, nella realtà storica, forme diverse com’è dimostrato, fra l’altro, dall’accesso al califfato dei quattro successori del Profeta.
Il Corano, invece, presenta Dio quale unico dispensatore d’una tal funzione.
Nella sura “alBaqara”, la narrazione che conclude la storia dei Figli d’Israele e racconta l’accesso di Saul alla regalità e poi la vittoria di Davide su Golia, “un profeta” anonimo annuncia la designazione di Saul come re e, di fronte alle proteste degli Israeliti, afferma: «.. “invero Dio l’ha eletto al di sopra di voi e gli ha accordato un sovrappiù di scienza e di forza corporea; e Dio dà il Suo regno a chi vuole…”» (Corano 11 247). Secondo la prospettiva coranica, solo Dio accorda la benedizione che Melkisedek e Samuele sono incaricati di dare. Il combattimento condotto da Davide, invece, è giustificato così: « … E se Dio non contrapponesse alcuni uomini ad altri, la terra sarebbe corrotta…» (Corano Il 251).
Questo combattimento condotto dal khalifa, appare dunque come la riparazione per la corruzione e per il sangue versato, inerenti alla storia dell’umanità e come la restaurazione della pace (silm) dopo la guerra. Essa corrisponde interiormente all’Islàm, nel senso di affidamento dell’anima a Dio, simbolizzata da Abramo che, una volta di più, prende il posto di colui che l’ha benedetto, il re di Salem: «combattete in Dio un combattimento vero. Egli vi ha prescelti e non ha posto nessuna difficoltà, per voi, nella religione; tradizione di vostro padre Abramo. E’ lui che vi ha chiamati i ‘musulmani” per primo e ciò affìnchè l’inviato sia testimone nei vostri riguardi e voi stessi siate testimoni nei confronti degli uomini…» (musulmani = muslimùn: coloro che si sottomettono a Dio) (Corano XXII 78).
Il Corano affida, qui, al Profeta ed ai suoi Compagni, il proseguimento di questo combattimento secondo il corpo e lo spirito.
La benedizione d’Abramo da parte di Melkisedek implica la superiorità del secondo rispetto al primo. Dando a Melkisedek “la decima di tutto”, Abramo riconosce la sua autorità. Il Corano, com’è già stato detto, non fa alcuna allusione ad una tale relazione ma racconta, però, l’incontro di Mosè con un personaggio che non è nominato, detentore d’una scienza superiore, ricevuta direttamente da Dio. Il profeta si fa suo discepolo allo scopo d’ottenere tale scienza.
Questo personaggio, chiamato simbolicamente dalla tradizione: “alKhadir”o “alKhidr” (Il Verde), in ragione del fatto che fa rinverdire la terra sulla quale posa i suoi passi, annuncia repentinamente a Mosé che questi non potrà più seguirlo. Mosè, infatti, non resiste alla prova e per ben tre volte insorge contro il comporta- mento apparentemente aberrante della sua guida, nonostante si fosse impegnato a non proferire parola. Prima di lasciarlo, alKhadir, tuttavia, gli spiega i motivi dei suoi atti. Senza entrare nei dettagli del racconto, si può osservare che il maestro svela qui, al suo discepolo-profeta, la dimensione esoterica di certi episodi della sua vita e della Legge, violata prima in apparenza e poi rivelata come pura misericordia ed atto di Dio.
Quale rapporto fra al-Khadir e Melkisedek?
Tutti e due appaiono come degli esseri misteriosi, senza storia, giunti non si sa da dove, ma investiti d’una missione precisa nei confronti dei profeti che sono fedeli a loro e ne riconoscono l’autorità; Melkisedek porta del pane e del vino insieme alla sua benedizione; al-Khadir trasmette una scienza o, piuttosto, prepara il suo discepolo a ricevere egli stesso la scienza venuta da “presso” Dio (al-‘ilm al-ladunni). Ciò non va disgiunto dal ricordare l’osservazione dell’autore dell’Epistola agli Ebrei a proposito dell’espressione “sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melkisedek”: “A questo riguardo avremmo molte cose da dire, e cose difficili da spiegarvi, dato che siete diventati lenti a comprenderle”.
Primato della scienza ispirata su quella della Legge, del sacerdozio di Melkisedek su quello di Levi, discendente d’Abramo; riconoscimento da parte del Patrìarca o Mosè, rappresentanti di tradizioni in corso di fondazione, d’un’autorità superiore e totale, incarnata da un personaggio che sfugge alla storia degli uomini e ciononostante che vi fa irruzione, ecco quel che giustifica l’accostamento, da un certo punto di vista, fra Melkisedek ed iI- Khadir.
Quest’ultimo appare, nell’agiografia musulmana, non solamente come il maestro dei santi, dei qualì perfeziona l’educazione spirituale, ma anche come il capo degli “isolati” (afrad) questi santi occulti fra i quali viene scelto il “polo”(qutb) ed all’autorità del quale essi non soggiacciono. Questi termini rinviano all’idea che il mondo in generale e la comunità musulmana in particolare non potrebbe durare senza la presenza d’un khalifa, vero e proprio vicario di Dio sulla terra, che detiene congiuntamente tanto l’autorità spirituale quanto il potere temporale. L’imperfezione dei califfi storici ha condotto all’occultamento di questa funzione assunta dal qutb, capo della gerarchia dei santi, assistito dall’imam di destra e dall’imam di sinistra, i quali rappresentano rispettivamente il regno angelico ed il regno sensibile, ossia le due funzioni sacerdotale e regale, nonchè da una serie gerarchica di personaggi riflettenti l’ordine cosmico. L’indipendenza di al-Khadir e degli afrad dal qutb, segnalata da autori come lbn ‘Arabi, suggerisce il fatto ch’essi rappresentano un’autorità superiore, anteriore alle tradizioni presenti e manifestantesi precipuamente a queste nel momento della loro fondazione.
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